Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°9 - 1996 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane
GIAMPAOLO ZAGONEL


ALESSANDRO CITOLINI, VALERIO MARCELLINO E LE
RISPETTIVE LETTERE IN DIFESA DELLA LINGUA VOLGARE.

Nel 1564 esce a Venezia, per i tipi di Gabriel Giolito de' Ferrari "Il
Diamerone". Il titolo completo (cfr. il frontespizio riprodotto) così recita: Il
Diamerone / di M. Valerio Marcellino. / Ove con vive ragioni si mostra, / La
Morte non essere quel male, che '1 senso si persuade. / Con una dotta, e
giudiciosa lettera, I Over discorso intorno alla lingua volgare(1).

Il volume, inusuale nella sua composizione, comprende in ordine di sequenza: una lettera dedicatoria al chiarissimo Signor Luigi Cornero(2) di Alessandro Citolini, una tavola delle cose più notabili riguardanti "Il Diamerone" e la "Lettera, over discorso di M. Valerio Marcellino, intorno a la lingua volgare", il tutto su 46 pagine prive di numerazione. Incontriamo quindi il trattato vero e proprio, un dialogo morale in due giornate (diamerone), che si stende per 128 pagine numerate. Infine chiudono il volume due pagine:
"errori da correggersi" (l'odierno errata corrige), ed una nota riguardante aspetti grammaticali ed ortografici del testo.
L'interesse per quest'opera è duplice: da un lato mostra Alessandro Citolini nella inusitata veste di curatore di una altrui pubblicazione, anzichè in quella di autore. Dall' altro suscita curiosità ed attenzione la lettura della


1) Conosco tre edizioni dell'opera: 1564, 1565 e 1568. Le citazioni e le riproduzioni del testo
sono tratte da un esemplare del 1565.
2) Alvise Cornaro. (Cfr. più avanti nella nota alla lettera dedicatoria di A.C.).


GIANPAOLO ZAGONEL. Laureato in Economia e Commercio, dirigente industriale. Appassionato di studi letterari, ha al suo attivo numerose ricerche di letteratura italiana pubblicate in diversi periodici. È uscita in questi giorni, a sua cura, la prima edizione integrale delle Lettere di Lorenzo Da Ponte.

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"Lettera, over discorso intorno al volgare" del Marcellino, poichè sembra ricalcare e riprendere con più forza le considerazioni che il Citolini svolse molti anni addietro con uno scritto sullo stesso argomento.

Gli anni 1539-40 vedono Alessandro Citolini soggiornare, o quanto meno trascorrere lunghi periodi a Roma e frequentare il circolo dei letterati gravitanti attorno alla ragguardevole personalità del senese Claudio Tolomei(3). Nel 1525 costui si era occupato, con la pubblicazione dell'opera "Il Polito" della riforma ortografica proposta da Gian Giorgio Trissino, osteggiandola, ma nel contempo proponendone una in sintonia con la pronuncia italiana(4). Qualche anno più tardi, nel 1528, il Tolomei fa circolare il manoscritto dell'opera: "Il Cesano" con il quale prende di mira i sostenitori della lingua latina contro i detrattori del volgare: un'aspra battaglia che vede alla fine vincitore il gruppo da lui capeggiato(5). Sempre a Roma, sotto la protezione

3) Claudio Tolomei (1492-1556), nato a Siena, studia legge a Bologna e già nel 1514 pubblica una "Laude delle donne bolognesi". Dopo un breve soggiorno nella sua città è costretto nel 1518, per ragioni politiche, ad abbandonare Siena, portandosi a Roma sotto la protezione dei Medici. Qui acquista rapidamente fama ed onori tenendo pubbliche lezioni e lanciandosi in accese dispute letterarie. Abbandonata la carriera legale si occupa pressoché a tempo pieno di lettere, prendendo parte attiva alle battaglie linguistiche e grammaticali. (L'unico lavoro attendibile e documentato sul personaggio è quello di Luigi Sbaragli: "Claudio Tolomei, umanista senese del Cinquecento", Siena, Accademia per le Arti e per le Lettere, 1939. Da questo studio attingo parte delle notizie ed alcuni riferimenti bibliografici).
4)11 titolo esatto è: "De le lettere nuovamente aggiunte libro di Adriano Franci da Siena intitolato, il polito". Venne pubblicato dal Tolomei sotto altro nome ed è un dialogo tra seguaci e critici dell'innovazione trissiniana. Gian Giorgio Trissino aveva proposto una riforma dell'alfabeto con la "Canzone a Clemente VII" e colla "Sofonisba" stampando quest'ultima opera con nuovi caratteri (lettere) dell'alfabeto (Luigi Sbaragli, op. cit. pp. 15-25). Com'è noto la proposta del Trissino non andò in porto salvo la distinzione tra il segno u per la vocale ed il segno v per la consonante, mentre prima di lui consonante e vocale si scrivevano con l'unico segno u. Un riassunto della grafia proposta invece dal Tolomei è nella lettera di Fabio Benvoglienti a Mino Celsi, raccolta nelle "Lettere, libri sette" di Claudio Tolomei, Venezia, 1553 (pp. 288-29 1). Sullo stesso argomento figurano, nel volume appena citato, parecchie missive indirizzate dal Tolomei ad Alessandro Citolini.
5) Verso la fine del 1529 convennero a Bologna per l'incoronazione di Carlo V i più famosi letterati allora in circolazione e per l'inaugurazione dell'Anno Accademico bolognese il friulano Romolo Amaseo pronunciò l'orazione "De linguae latinae uso retinendo" in favore del latino come lingua universale. Erano presenti tra gli altri Pietro Bembo, Gian Giorgio Trissino, Claudio Tolomei, Marcantonio Flaminio e Giulio Camillo. È probabile che al seguito del Camillo ci fosse Alessandro Citolini che forse in quest'occasione ebbe modo di conoscere il Tolomei. La risonanza di quest'orazione provocò una dura reazione del Tolomei che ampliò il suo Cesano in difesa del volgare facendone circolare molte copie manoscritte. Quest'opera fu data alle stampe solo nel 1554 a Venenzia, quando la polemica sull'uso del volgare era quasi inutile, in un'edizione scorretta ed incompleta, giunta così fino a quelle dei nostri giorni. (Sbaragli, op. cit. pp. 204-5).

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del cardinale Ippolito de' Medici e sullo slancio della ripresa morale che investe la città dopo il Sacco del 1527, il Tolomei fonda l'Accademia della Virtù. Nelle due adunanze settimanali si discuterà un po' di tutto, dalla letteratura all'architettura, ma non erano infrequenti le facezie e le burle(6). Dopo la morte del suo protettore (1538)1' Accademia, mutando nome si chiamerà: della Poesia nuova. Una ricerca compiuta da una nutrita schiera di letterati, sotto la guida del Tolomei, approda nel 1539 alla pubblicazione dell'opera "Versi, et regole de la nuova poesia toscana", dove sono contenute tre poesie di Alessandro Citolini(7). Buon pubblicista, il Tolomei aveva fatto precedere l'uscita del volume con la circolazione di qualche saggio manoscritto, spedito ad alcuni dei suoi numerosi corrispondenti. In luogo di approvazioni, come si aspettava, gli giunsero però severe critiche, particolarmente cocenti quelle di Paolo Giovio e Benedetto Varchi(8).
È improbabile che Alessandro Citolini possa aver fatto parte attiva nelle Accademie del Tolomei(9), ma è certa la sua familiarità con il senese e la maturazione di scelte e convinzioni comuni. Riprova ne è la sua prima pubblicazione, quella "Lettera in difesa de la lingua volgare" dedicata a Cos(i)mo Pa1lavicino(10), finita di scrivere a Roma il 10 settembre 1540 e

6) L'Accademia si riuniva in casa del Tolomei, come asserisce Luca Contile nella sua corrispondenza: "Vo per ordinario ogni giorno in casa di Mons. Tolomei, dove frequento l'Accademia della Virtù, la quale oltre che sia ricca di tutte le lingue possiede anco tutte le scienze". (Luca Contile, Lettere, Pavia, 1564, vol. I, p. 19) e ne parla anche Annibal Caro nella lettera a Benedetto Varchi del 10 marzo 1538. (Annibal Caro, Lettere familiari, Firenze, le Monnier, 1957-61, vol. I, p. 69).
7) Si tratta di un'antologia comprendente i versi di una dozzina di poeti tra i quali il Tolomei stesso, Annibal Caro, Dionigi Atanagi, Antonio Renieri, Pavolo Gualterio ecc. Alla fine delle poesie segue una specie di programma intitolato "Regolette della nuova poesia toscana" in cui vengono codificate - in maniera assai sbrigativa - le norme del poetare in lingua italiana secondo gli accorgimenti metrici quantitativi e fonici della poesia classica. (Diz. delle opere Bompiani, Milano, 1981, voi. VII, p. 702).
La metrica classica dei Tolomei e seguaci non riuscì ad affermarsi nella nostra letteratura. Tuttavia essa non cadde interamente in oblio, fu ripresa nel secolo scorso dal Carducci prima nelle sue "Odi Barbare" e poi con la pubblicazione dell'antologia da egli stesso curata "La poesia barbara nei secoli XV e XVI", che ripresenta ed allarga l'esperienza del Tolomei. (Bologna, Zanichelli, 1881 ed ora ristampa anastatica 1985).
8) Per le lodi e critiche di queste poesie, assai documentato è lo Sbaragli. (Op. cit. pp. 57-65).
9) Potrebbe averne fatto parte l'altro grande serravallese Marcantonio Flaminio. (Cfr. Alessandro Pastore, M.F. Milano, Angeli, 1981, p. 153).
10) Cosimo Pallavicino, frate carmelitano come il suo più famoso fratello Giovanni Battista. Quest'ultimo fu più volte imprigionato per sospetta eresia luterana, anche nel 1540 a Roma. Cosimo lesse al re Francesco I due orazioni scritte da Giulio Camillo per impetrare la scarcerazione del fratello a Parigi, con successo. Doveva quindi far parte come il Citolini del gruppo dei seguaci del Camillo perché è citato in una poesia di quest'ultimo: "Cosmo, ch' ornate il nobil secol nostro, I Voi, che '1 gran Re nel culto dir facondo I Legaste con stupor

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stampata a Venezia nel dicembre dello stesso anno sotto i torchi del Marcolini(11). Un'analisi sufficentemente dettagliata è quella a suo tempo compiuta da Giovanni Presa(12).
Ora ne proponiamo un' ulteriore rilettura, approfittando della recente ristampa anastatica della rara edizione del 1

Innanzitutto Citolini ci fa sapere che vuol rispondere ad una lettera "scritta da non so cui contra la lingua volgare(14)" piena di un odio manifesto contro l'uso di quest'ultima. Egli dichiara che non vuol parlar male del latino per dimostrare che il volgare è migliore, ma affrontare il problema smontando i tre ragionamenti che l'autore ignoto palesa a sostegno delle sue tesi, che sono: essere la lingua latina più nobile, secondo più ricca, al terzo più comune, cioè compresa da molti.

di tutto 'I mondo, / Rendendo luce al dolce frate vostro;" (Giulio Camillo, Opere, Venezia, Giolito de' Ferrari, 1560, p. 267). Cfr. pure: Il luterano G.B. Pallavicini e due orazioni di Giulio Camillo Delminio, in "Nuova rivista storica", Società Ed. Dante Alighieri, gennaio-aprile 1974, fasc. I-Il, pp. 63-70.
I I) È stato più volte scritto che la "Lettera" venne stampata ad insaputa del suo autore, per ultimo Massimo Firpo, curatore della voce Citolini per il Diz. Biogr. degli Italiani (1982):
"opuscolo, edito all' insaputa dell'autore, come risulta da una lettera del tipografo all'Aretino stampata sul verso del frontespizio di alcuni esemplari del libro". Di questa lettera ne parla per la prima volta Gian Maria Mazzuchelli, autore nel 1741 (ed in sec. ed. nel 1763) di una biografia sull'Aretino, in cui scrive: "Il Marcolini, che gli indirizzò una lettera di messer Alessandro Citolini in difesa della lingua volgare". (cfr. Lettere sull'arte di Pietro Aretino, Milano, Ed. del Milione, 1957, voI, terzo, tomo primo, p. 59). Non esiste, che io sappia, un'edizione della "Lettera", nelle varie biblioteche che la custodiscono, che contenga la dedica al famoso poeta e d'altra parte non si trova neppure nei sue volumi di lettere di vari, indirizzate all'Aretino, nessuna, fra le tante del Marcolini, che possa riferirsi a questa circostanza. Giudico invece molto probabile che Citolini stesso abbia presenziato alla stampa del suo opuscolo, come afferma Scipione Casali quando scrive: "L'edizione è corretta, e mostra di essere stata assistita dall 'Autore, anche per la particolare ortografia e punteggiatura introdottavi: imperoché non usò mai disporre lettera majuscola in principio di periodo dopo il punto, quand' anche sia daccapo... e l'e congiunzione, che soleasi a que' tempi scrivere e stampare alla latina et, pare fusa appositamente per questa Lettera del Citolini in singolar forma, cioè una specie di apostrofo attaccato all'occhietto della vocale: la qual cifra non trovo usata in nessun'altra edizione marcoliniana". (Scipione Casali, Gli annali della Tipografia veneziana di Francesco Marcolini, Bologna, 1861 e ristampa a cura di Alfredo Gerace, 1953, pp. 130-31).
12) Giovanni Presa, A. Citolini, V. Marcellino e V. Marostica nella vicenda d'una lettera in difesa del volgare, in "Studi in onore di Alberto Chiari", Brescia, Paideia, 1973, voI. Il, pp. 1001 e segg.
13) "La lettera de la lingua volgare" a cura di Nilo Faldon, Conegliano, Litografia Battivelli, 1990.
14) Si son fatte più ipotesi sull'autore ignoto che costrinse Citolini a rispondere con la "Lettera", ma con nessun certo fondamento sulla sua identità.

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Per nobiltà l'autore ignoto intende più antica ed il Citolini risponde che se ciò fosse vero le lingue oramai morte degli ebrei, caldei, assiri, ecc. sarebbero più nobili della latina perché più antiche. Spostandosi nel campo dell'arte Citolini dice che per lo stesso motivo le opere "ch' oggidì escono da lo scalpello, e dal pennello del gran Michiel'agnolo" sarebbero inferiori a quelle antiche "per esser - quest'ultime - già da gran tempo fatte". Il serravallese continua sostenendo che la nobiltà non sta affatto nell' antichità, altrimenti scrittori latini antichi come Livio Andronico, Accio ed Ennio, sarebbero migliori di altri più moderni come Cicerone, Cesare e Virgilio; che questo non sia vero lo possono giudicare facilmente tutti. La lingua volgare è vile - sostiene l'ignoto autore - perché è nata da "genti strane, ferigne, e barbaresche" e Citolini di rimando risponde che è abbastanza evidente comprendere come la lingua volgare derivi in gran parte dalla latina e pochissimo dipenda dai barbari venuti dall'esterno. Tante cose poi venute dal basso, da umili origini - continua Citolini - sono diventate eccellenti e questo vale anche per gli uomini. David diventa re pur essendo nato pastore e da umili origini escono pure Socrate, Euripide, Demostene ed Omero. Anche se non si può negare che la nuova lingua sia nata dalla corruzione della latina, ciò non significa che sia vile, poiché la corruzione di una cosa è la generazione di un'altra. Nondimeno la latina è nata per corruzione di una precedente lingua, quindi per lo stesso motivo biasimando l'una si dovrebbe biasimare anche l'altra.
Prendendosela poi con quello che alcuni studiosi "oltramontani" dicono non essere l'Italia al presente nobile come nel passato, ma degenerata per la mescolanza di tanti barbari, Citolini sostiene con forza che il nostro paese èsempre sotto lo stesso cielo e ciò è sufficente a far mutare anche la natura degli uomini che vi vanno ad abitare: "Io vi dico, che la Italia è quella, che sempre fu, perciocché ella è sotto quel medesimo Cielo che sempre fu, et esso Cielo le piove in grembo quelle medesime gratie, che sempre piové, et essa produce quei medesimi frutti, che sempre produsse". Consapevole inoltre della grandezza del genio italiano del Rinascimento, Citolini prosegue "e vi ricorderei infiniti de' nostri huomini ne le scientie, nel mestier de l'arme, et in molte eccellentissime arti pari a i nostri antichi famosi Padri, e non pochi superiori". Queste affermazioni dovrebbero servire a convincere gli scettici che la lingua volgare, già da gran tempo uscita alla luce, sta per superare la latina.
Il secondo punto, e cioè che la lingua latina è ricchissima di scrittori, mentre la volgare ne è poverissima, il Citolini lo affronta partendo dalla considerazione che intanto la lingua latina è sepolta nei libri, mentre la volgare è viva ed alimentata dalla parlata della popolazione. Se anche non avesse scrittori o ne avesse pochi non per questo la lingua sarebbe meno ricca. Se uno al giorno d'oggi volesse - continua Citolini - scrivere i fatti e gli avvenimenti in latino come potrebbe, parlando ad esempio della guerra,


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descrivere in questa lingua parole come: galeoni, caravelle, bocche di fuoco, ecc., non potrebbe di certo farle terminare in "bus" o in "orum".
Non è giusto neppure ricorrere a giri di parole poiché "... voi non trovereste mai tra tutte le masseritie de la lingua italiana vesti, che stiano bene a tutti questi concetti". Quindi se la lingua latina generò la volgare e se questa si gode l'eredità della latina morta non potrà essere rigenerata dalla sua figliola con l'aggiungerle vocaboli nuovi. Ciò non toglie - prosegue Citolini
- che ogni uomo di cultura non abbia a possedere la conoscenza della vecchia lingua latina per imparare le cose che in quella vi sono scritte. Ma fatto questo si deve parlare, scrivere, comporre ed esercitarsi nella lingua volgare.
Il Citolini passa poi ad analizzare il nome da dare alla nuova lingua che l'autore ignoto chiama toscana. Suo consiglio è che, o volgare, o toscana, la nuova lingua debba contenere tutto quello che di bello e buono c'è nelle diverse regioni d' Italia ed abbandonare quello che di brutto c'è anche nella Toscana. E a testimonianza della sua asserzione fa intervenire gli esempi del Petrarca e del Boccaccio che usarono nei loro scritti non solo parole provenienti dalla propria terra, per cui, conclude Citolini: "Io voglio starmi nella toscana, ma non come in una prigione, ma come in una bella, e spatiosa piazza, dove tutti i nobili spiriti d'Italia si riducono".
Il terzo concetto manifestato dall' ignoto autore a sostegno delle sue tesi è che la lingua latina è sparsa in tutti i paesi europei, mentre la volgare non esce dai confini italiani. Il serravallese sostiene invece che la nostra parlata è conosciuta da molti in Francia(15) ed in altri paesi, dice inoltre che se si scrivesse in latino, ciò sarebbe inteso da qualche straniero, ma pochi in Italia lo comprenderebbero, al contrario del volgare capito da tutti. Altra asserzione dell'ignoto autore è che la lingua volgare è efficace solo per narrare favole e storie d'amore, ma non si presta per discorrere di filosofia, astrologia e materie consimili. Citolini confuta tale convinzione dicendo che sono oramai tradotti nella lingua volgare filosofi greci, scrittori latini, testi evangelici, trattati di architettura, libri di storia e scienze(16) e questo dimostra che con la nuova lingua si possono esprimere tanti concetti e renderli comprensibili al maggior numero possibile di persone, che non conoscendo le vecchie lingue ne verrebbero escluse.
Gli scrittori del volgare sono pochi, dice l'autore ignoto, solo Petrarca e Boccaccio, mentre i latini sono molti ed inoltre quei due non eguagliano i grandi scrittori del passato. Ad impugnare queste affermazioni il Citolini fa

15) La "Lettera" ha più di un riscontro sui viaggi compiuti in Francia dal Citolini.
16) Con l' avvento della stampa iniziarono ben presto i "volgarizzamenti" ossia le traduzioni
nella nostra lingua dei classici greci o latini da parte dei più famosi umanisti del primo
Cinquecento. In pochi decenni quasi tutto il pensiero e la letteratura classica, nonché trattati
di scienza e storia furono a portata di mano di un consistente numero di lettori.

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scendere in campo l'autorità di due contemporanei: Giulio Camillo(17) 7) e Bernardino Daniello(18) a sostegno della grandezza poetica del Petrarca, e lo scrittore di origine greca Marullo(19) a sostegno del Boccaccio. Quanto poi alle lodi che l'ignoto autore fa nei confronti di due scrittori contemporanei che scrivono in latino, il Bembo(20) ed il Molza(21) Citolini afferma che sebbene Petrarca e Boccaccio scrivessero anche in latino, la loro fama èesclusivamente legata agli scritti in volgare.
Quindi il Citolini se la prende con coloro che al giorno d'oggi parlano e scrivono in latino, i Pedanti(22), derisi nelle Accademie allo stesso modo in cui venivano scherniti dai latini coloro che si ostinavano a parlar greco. La conclusione del lungo discorso del nostro autore è l'invito a tutti di proseguire sull'impiego della lingua volgare in ogni attività umana, lodandone la ricchezza di parole, la dolcezza e soavità della sua espressione "per la temperata mescolanza de le vocali con le consonanti" ed è per questo - egli sostiene - che ogni giorno esce un nuovo scrittore. Perché dunque contrastarla? "Perché non più tosto amarla et abbracciarla? Amiamola, seguiamola, abbracciamola adunque; poi che si vede chiaro; che quelli che fanno altramente sono in error3(23)".

17) Il Citolini lo chiama semplicemente Messer Giulio, senza aggiungervi il cognome, ma ècerto trattarsi del suo maestro Giulio Camillo (Delminio). Se anche in vita egli non pubblica quasi nulla, pur tuttavia andò famoso tra i contemporanei per i suoi commenti sul Petrarca. In paste si trovano racchiusi nell'edizioni postume delle sue opere con il titolo: "Esposizione sopra il primo e secondo sonetto del Petrarca". (cfr. G. Camillo, Opere, Venezia, Giolito de' Ferrari, 1566, Tomo Il, pp. 99-122).
18) Bernardino Daniello (1500-1565), autore di un commento sul Petrarca pubblicato nel
1541 e, come anche ricorda il Citolini, di una "Poetica volgare" (1536), in forma di dialogo, che ebbe ai suoi tempi celebrità ed autorità.
19) Michele Marullo (1453-1500) nato a Costantinopoli, trasferitosi fanciullo a Napoli e poi a Firenze. Amico del Pontano e del Sannazaro scrisse in latino ed in lingua volgare.
20) Pietro Bembo (1470-1547) famoso per gli "Asolani" e le "Prose della lingua volgare" scrisse altresì in latino. Qualche contemporaneo (Pietro da Barga) sosteneva malignamente che il Bembo esortava gli altri a scrivere in volgare per rimanere da solo a primeggiare nel greco e nel latino.
21) Francesco Maria Molza (1489-1544). Autore inizialmente di numerosi versi latini, si diede poi al volgare e la sua opera più importante è considerata oggi il poemetto in ottave "La ninfa tiberina". Vissuto per molto tempo a Roma (fino al 1543), fu protetto dal cardinale Ippolito de' Medici e fece parte dell'Accademia della Virtù dei Tolomei. Il Citolini potrebbe averlo conosciuto proprio nei suoi soggiorni romani.
22) Pedante è il tipico personaggio della letteratura e della commedia cinquecentesca che impersona il maestro presuntuoso, saccente, con una pomposa quanto approssimata parlata latineggiante. Ne ha delineato un gustoso ritratto Arturo Graf: I Pedanti, in "Attraverso il Cinquecento", Torino, Chiantore, 1926.
23) La lettura della "Lettera" si presterebbe ad altre analisi interessanti la personalità artistica e la formazione di A.C. Una per tutte: gli elementi, sparsi qua e là nel testo, di critica agli ordini

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La pubblicazione di quest'opera diede al serravallese una discreta notorietà nell' ambito dei letterati che nel Cinquecento dibattev ano il problema dell'uso della lingua volgare e l'edizione andò rapidamente esaurendosi.
Dieci anni più tardi Alessandro Citolini ricevette la richiesta di una copia della "Lettera" dal conte Vinciguerra di Collalto(24), ma per quante ricerche si facessero presso i librai di Venezia, non ci fu verso di reperirla. Alla fine se ne scovò un'esemplare, piuttosto mal ridotto dall'uso, nella biblioteca privata del patrizio Bernardo Zane. La "Lettera" venne prontamente ristampata a cura del poligrafo-letterato Girolamo Ruscelli, insieme ad un altro lavoro del Citolini e con una lunga lettera del curatore stesso, nel settembre del 1551(25).
Nel 1553 lo stesso Ruscelli pubblica i: "Tre discorsi a M. Lodovico Dolce", il secondo dei quali: "Intorno alle osservazioni della lingua volgare", per sua stessa ammissione, è germogliato dai colloqui sull'argomento di continuo intrattenuti con il serravallese. Tuttavia l'opera contiene quasi esclusivamente una puntigliosa reprimenda contro i contenuti ed i concetti espressi dal Dolce nei suoi trattati di lingua e grammatica(26).
Con lo scritto del Citolini ha invece notevole attinenza "L'Oratione in laude della lingua toscana" di Alberto Lollio edita per la prima volta nel
1555(27)


ecclesiastici ed alla gerarchia cattolica, mentre prefigurano una chiara scelta luterana, pur tuttavia si mantengono ancora dentro l'involucro di un irreprensibile nicodemismo.
24) Vinciguerra III conte di Collalto (1527-1558) abate di Narvesa o Nervesa, poeta e fratello del più famoso Collaltino. Tutti e due i Collalto furono per qualche tempo legati all' ambiente culturale veneziano di Pietro Aretino, di cui faceva parte con una certa frequenza pure Alessandro Citolini. Nell' epistolario dell'Aretino (Parigi, 1609) si possono leggere più lettere indirizzate ai fratelli Collalto tra gli anni 1545-1550 e due al Citolini rispettivamente del febbraio '45 e gennaio '46.
25) Tutto ciò è descritto nella lettera dedicatoria di Girolamo Ruscelli (Venezia, 5 settembre
1551) al conte Vinciguerra di Collalto, premessa alla riedizione della "Lettera" e de "I Luoghi" di Alessandro Citolini.
26) Girolamo Ruscelli (1504-1566) poligrafo e letterato vierbese operò prima a Roma e dal
1548 stabilmente in Venezia. Pubblicò alcuni lavori riguardanti la filologia della nuova lingua ed un fortunato rimario della lingua italiana riedito di continuo fino alla metà del secolo scorso. Commentò inoltre le opere del Petrarca e del Boccaccio. L'opera in oggetto: "Tre discorsi a Messer Lodovico Dolce" comprende appunto: "Le osservazioni della lingua volgare" ed è un trattato polemico contro gli scritti del Dolce, accusato dal Ruscelli di superficialità e di spregiudicatezza nelle sue pubblicazioni sul volgare. L'opera del Dolce presa di mira venne pubblicata nel 1550 a Venezia ed ha per titolo: "Osservazioni nella volgar lingua".
27) AlbertoLollio (1508-1568) fu autore di scritti grammatici e di alcune orazioni. "L'orazione in laude della lingua toscana" prima di venir pubblicata venne recitata ai membri dell'Accademia dei Filareti di Ferrara. Fu ripubblicata nel 1565, nel '69 ed ancora nell'84.

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Seguendo i concetti già espressi a suo tempo dal Bembo e dal Tolomei, non trascura quelli più recenti pronunciati dal serravallese, ricalcandone in qualche punto anche le conclusioni. Riportiamo un solo esempio, che sembra estrapolato dalla "lettera" citoliniana. Parlando delle lingue greca e latina egli così si esprime: "... le quali sono già state buon tempo e meritatamente da gli huomini in pregio et in honor grandissimo tenute, a poco a poco, si come suole ordinariamente di tutte le cose del mondo avvenire, sono andate mancando; né altro più di loro habbiamo al presente, che alcune poche reliquie sparse et sepolte nelle carte et ne' libri, di maniera che non più lingue con verità si possono chiamare, ma carta et inchiostro solamente, dove la toscana non pur vive et spira tuttavia nelle menti e nelle bocche d'ogn'uno, ma ella si trova anco nella più fresca, nella più verde et più fiorita età che mai fusse, percioché essa tiene nota in Italia il medesimo luogo et il medesimo grado, che tenne già la latina mentre ella visse(28)".
Arriviamo così al 1564, alla pubblicazione de "Il Diamerone" che racchiude un ennesimo trattato sulla lingua volgare. Come afferma il Citolini nella lettera dedicatoria al Cornaro, lo scritto del Marcellino, compresa "La lettera intorno a la lingua volgare", giaceva negletto in qualche ripostiglio già da alcuni anni, esattamente dal 10 aprile del 1561, data in cui Valerio Marcellino firma la presentazione e la dedica del lavoro a Pietro Zane. Ricordiamo che più o meno nello stesso tempo il Citolini dava alle stampe la sua opera principale: "La Tipocosmia".
Cerchiamo ora di compiere l'operazione già eseguita con la lettera citoliniana, rileggendo e riassumendo i principali concetti che stanno alla base del discorso del Marcellino.

Prendendo l'esempio da Cicerone il Marcellino afferma di voler scrivere nella lingua del comune parlare per potersi esprimere con tutte le possibilità offertegli da una lingua viva. Sostiene che chi volesse spiegarsi in latino non sarebbe in grado di trovare parole adeguate alle innumerevoli cose trovate o scoperte ai nostri giorni. L'esempio classico, già presentato a suo tempo dal Citolini, è quello dei nuovi vocaboli usati nella guerra, che mancano nella lingua latina. Sono da scusare - afferma il Marcellino - i casi dei poeti Bernardo(?) Navagero e Marc'Antonio Flaminio(29). Soltanto la loro autore


28) "Delle orationi volgarmente scritte, da diversi huomini illustri de' tempi nostri" a cura di Francesco Sansovino, Venezia, Altobello Salicato, 1584. A p. 135 una postilla, a fianco del testo sopra riportato, ricorda la "Lettera" di Alessandro Citolini.
29) Marcantonio Flaminio (1498-1550) era stato rimproverato da Basilio Zanchi per aver inventato l'aggettivo "floricomus" nel suo "In carmine ad Guidum Posthumum" con il verso:
Jam ver floricomum, Posthume, verticem...

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volezza li perdona dall' aver inventato nuovi vocaboli nella lingua morta per inserirli nelle composizioni latine, in ciò imitando Lucano e Virgilio. Ma certo non si dovrebbero chiamare latine le nuove voci, poiché il popolo che parlava questa lingua non c'è più e se risuscitasse non potrebbe comprenderle. Segue un convincente discorso inteso a dimostrere che non si deve usare la lingua ora morta, ma quella viva "... la quale dal ventre materno portiamo in bocca, et sempre habbiamo ne gli occhi, et nel cuore". E vero dice il Marcellino, che gli antichi scrittori del volgare (Dante, Petrarca, ecc.) hanno usato vocaboli tolti in gran parte dal latino, ma spesso solo perché condizionati dalla necessità di rima e pertanto al di fuori di questa circostanza è meglio apprendere le parole dal popolo, che Quintiliano chiama il padre delle parole. Il popolo è quindi un maestro e da lui deve attingere chi vuole acquistare lodi e fama dai suoi componimenti.
Per dimostrare questa tesi il Marcellino si lancia in un lungo ragionamento rivolto a far comprendere che il volgare ha un sommo grado di altezza, di dignità, di armonia, "... che in esso i nostri moderni, caminando con questi piedi, hanno cominciato a scrivere in tutte quelle forme di poesia nelle quali scrissero già i greci, e i latini: tra 'quali il primo - per quanto io ne odo - fu
M. Claudio Tolomei, il quale tra 'dotti de' nostri tempi, s'è potuto - senza punto passare il vero - chiamar maestro di color che sanno(30). I cui lodati vestigi hanno poi seguitato i dottissimi, et nelle lingue, et nelle scientie M.


(M.A.F., Carmina, Prato, Guasti, 1831, p. 84).
Il Flaminio replicò allo Zanchi con una lunga lettera (Op. cit. pp. 275-279) e facendosi forte degli esempi di Cicerone ed Orazio affermò che è lecito creare nuovi vocaboli, non solo per necessità, ma anche per ornamento. Ma la giustificazione non doveva aver molto convinto i suoi critici se ancora nel 1561 - forse la mano del Citolini dietro quella del Marcellino - (e con il Flaminio già morto da oltre dieci anni) si continuava a tirare in ballo questo esempio negativo, oramai diventato un classico. La lettera allo Zanchi non è datata, ma si fa risalire agli anni romani del Flaminio (1547-1550). (Alessandro Pastore, Marcantonio Flaminio, Milano, Franco Angeli, 1981, p. 156). Nella medesima lettera il Flaminio difende pure il suo amico Andrea Navagero (1483-1529), poeta e diplomatico veneziano, dalla stessa accusa per aver inventato il vocabolo "silvipotens". Rimarchiamo che nel testo del Marcellino il Navagero viene erroneamente chiamato (o scambiato) con il nome di un suo nipote Bernardo, anch'egli poeta, ambasciatore e più tardi cardinale.
30) Che Claudio Tolomei godesse ai suoi tempi di straordinaria fama e fosse considerato tra i più dotti letterati del Cinquecento lo confermano, ad esempio le lettere di Pietro Aretino a lui dirette. In più, nei "Ternali in gloria de la regina di Francia" l'Aretino lo descrive con questa iperbole:
"Il Tolomei, a Homero conforme, (Anzi è maggior, perchè il poeta invitto Qualche volta dormì, ei mai non dorme)."
(Pietro Aretino, Lettere, Parigi, 1609, Libro VI, p. 26

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Dionigi Atanagi, et M. Alessandro Citolini: de quali io ho veduto poemi in quella via, che peravventura agguagliano i più culti, et vaghi latini(31)".
Perché dunque, continua il Marcellino, si deve abbandonare una lingua così ricca, rotonda e regolata come la nostra che la natura stessa ce la da a bere con il primo latte, per andar mendicando le vesti ai nostri pensieri tra le miserie di quella latina? Alcuni sostengono che si deve continuare a scrivere in latino poiché questa ha un poeta (Virgilio) ed un oratore (Cicerone) ai quali nessuno nella nostra lingua piò stare alla pari. E vero, sostiene il Marcellino, che scrivendo oggi in latino non si sarebbe capaci di eguagliarne l'altezza, ma ciò solo perché lo spirito di quel tempo, oltreché lontano, è del tutto morto, ed in questo idioma sarebbe impossibile riprodurre le sensazioni e la freschezza degli antichi poeti. Se Omero si leggesse in latino e Virgilio in greco perderebbero gran parte di "... quegli effetti maravigliosi, che fanno nelle loro lingue natie, avvenga che i medesimi concetti, i medesimi colori et le medesime figure fossero col medesimo ordine dall'una all'altra lingua portate... Senza che sono alcuni modi di dire, alcuni colori, alcune figure, et alcune particolarità, che sogliono essere proprie di quelle lingue nelle quali sono nati, che in ogni altra lingua perdono gratia et bellezza".
Se i più grandi conoscitori della lingua latina, prosegue il Marcellino, si mettessero a tradurre le novelle del Boccaccio, anzi se Cicerone stesso risuscitasse e volesse portarle nella sua lingua "... io ardisco di dire, che egli in quella favella non ce le potrebbe mettere davanti con quei vivi et naturali colori che ha fatto il Boccaccio nella nostra volgare". La lingua latina visse già una volta e fu acconcia a vestire eloquentemente i concetti dei propri tempi, come oggi la nostra è atta a vestire "leggiadramente" tutti i pensieri che ci possono passare per la mente.

Ogni grande scrittore del passato è tale per aver utilizzato la lingua parlata dal popolo: Omero la greca, Virgilio la latina e Dante la volgare. Quando quest'ultimo finge di rivolgersi a Virgilio con la famosa terzina(32), egli


31) Dionigi Atanagi (1504 ca. - 1573 ca.). Originario di Cagli, nelle Marche, nel 1532 si stabilisce a Roma entrando in contatto con il Tolomei. Nella pubblicazione dell'opera "Versi et regole de la nuova Poesia Toscana" (1539) - cfr. nota 7 - 1' Atanagi vi contribuì con oltre venti liriche.
In queste circostanze è probabile che abbia fatto conoscenza con il Citolini. Qualche anno più tardi lo incontriamo a Venezia in qualità di poeta, letterato ed editore. Una sua edizione di liriche: "De le rime di diversi nobili pòeti toscani", pubblicata a Venezia nel 1565, contiene una poesia del Citolini ed alcune del Marcellino. L'Atanagi ed il Marcellino dovevano essere amici poichè uno dei principali interlocutori de "Il Diamerone" è proprio l'Atanagi.
32) "Tu se' lo mio maestro e il mio autore..." (Inferno, I, 85-87), versi riportati per intero nel testo.

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intende dire di voler imitarlo e di cercare ispirazione nello stile, ma non certo di voler esporre i concetti nella lingua di Virgilio.
Se oggi non c'è ancora nella nostra favella un grande scrittore, ma Marcellino ne dubita, come a suo tempo il Citolini, questo non vuol dire che la lingua sia imperfetta, si può solo accusare gli scrittori di essersi scarsamente applicati nella nuova lingua, sdegnandola per molti secoli, senza prendersi cura di coltivarla, di accrescerla, di farle prendere vigore. Ciò fino ai tempi di Dante. Egli ed altri "chiari intelletti" presero l'ardire di scrivere nella lingua parlata dalla gente, al punto che Petrarca e Boccaccio, succeduti a quelli, la fecero salire all'altezza che oggi si vede. E come è stato osservato dal Bembo, non è detto che si sia già arrivati all'apice della possibilità stilistica della nuova lingua.
A duecento anni di distanza è curioso rilevare che il Petrarca venne incoronato poeta in Campidoglio per i suoi versi latini, divenendo celebre in tutta Europa. È però con il suo "Canzoniere toscano" che oggi si è acquistato fama e gloria immortali. Siccome ai nostri tempi - prosegue il Marcellino il rifiuto di scrivere in volgare da parte dei dotti, è quasi completamente scomparso, sarebbe auspicabile di volger nella lingua volgare, non solo tutti i testi del passato, ma anche i codici e le leggi e mettere così al bando il latino dall' attività giuridica e forense, latino peraltro oramai ridotto ad un barbaro guazzabuglio.
Solo nei testi religiosi e nella liturgia il Marcellino è contrario a ricorrere alla nuova lingua, per continuare ad usare il latino. A suo avviso ricoprire con il velo della lingua antica le cose sacre serve a proteggerle dal volgo: "il quale spesso è così audace e presuntuoso, come rozzo, et ignorante in voler intender le cose, di ch'egli non è capace(33)".
A sostegno di questa tesi tira in ballo i romani ed i greci che nascondevano i misteri della religione sotto la copertura di lingue antiche e desuete.

33) Non era questa l'opinione di Alessandro Citolini che nella sua "Lettera", parlando del volgare, scrive in proposito: "Habbiamo la santa legge dal nostro Dio insieme col suo commento, in lingua più vera, che non è la latina". E si riferisce alla traduzione in volgare del Nuovo Testamento di Antonio Brucioli, stampata per la prima volta a Venezia nel 1530, seguito a distanza di pochi anni da tutta la traduzione della Scrittura, accompagnata da importanti commenti. I volgarizzamenti della Scrittura furono considerati uno tra i più efficaci veicoli di trasmissione della Riforma protestante in Italia e pertanto osteggiati, quindi proibiti e messi all'indice dalla Controriforma, alla luce delle disposizioni emanate dal Concilio di Trento in materia. A questa restrizione sulla stampa e all'intolleranza che prevedeva la pubblica distruzione dei libri posti all'indice, solo Venezia, in tutta Italia seppe alle volte coraggiosamente resistere. Il Marcellino, come si evince dalla sua opera, è invece un osservante delle disposizioni tridentine in fatto di stampa religiosa. Disposizioni che prescrivevano una lettura dei testi evangelici esclusivamente sotto il magistero della Chiesa e della sua gerarchia.

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Per scrivere in volgare oggi si incontrano due opinioni. La prima - dice il Marcellino - è di coloro che sostengono si debba seguire il Boccaccio ed il Petrarca ed usare solo voci che si trovano nelle loro opere. La seconda èquella che professa esser lecito servirsi di qualsiasi voce, modo di dire, proveniente da ogni parte d'Italia ed anche di usare parole straniere. Afferma il Marcellino, di non essere né per il primo avviso, né per il secondo. Il suo parere è di usare principalmente la lingua toscana poiché i due scrittori più famosi, l'uno in verso e l'altro in prosa (Petrarca e Boccaccio) hanno raggiunto alte vette di perfezione. E necessario però continuare ad alimentarla con voci provenienti da altre regioni d' Italia e pure con straniere quando queste siano già entrate nell'uso comune. A tal proposito il Marcellino cita l'esempio della parola brindisi proveniente dal tedesco, creanza dallo spagnolo, avanguardia e trincea dal francese.
È poi possibile innovare partendo dall'uso del comune parlare, come si è fatto per esempio con la parola piacere, dalla quale è nato piacevole e piacevolezza e da gelosia, ingelosire. Aggiungere nella lingua toscana parole tolte da altre contrade d' Italia è non solo lecito, seguendo in questo l'esempio del Boccaccio, ma a volte necessario. Gondola e bucintoro devono venir usate così come sono state create dal popolo veneziano, quando si parla di Venezia, ma ciò va fatto sempre in modo circostanziato e specifico. Per questo motivo, aggiunge il Marcellino, oggi si accusa Dante, di aver avuto poco riguardo accogliendo nei suoi scritti senza discriminazioni parole e voci provenienti da ogni parte d'Italia e straniere. Quindi se egli è considerato un sommo per erudizione e dottrina, non è altrettanto lodato dal Marcellino come scrittore, per la troppa libertà che si è preso nella lingua. E considerato altrettanto sbagliato, come inutile affettazione, usare però acriticamente tante parole tolte dalle opere del Petrarca, del Boccaccio e da altri scrittori antichi del volgare, oggi cadute in disuso e che non si trovano più sulla bocca del popolo. Volgendo alla fine del suo discorso egli spezza una lancia anche nei confronti della lingua veneziana, che sebbene poco apprezzata dal Bembo: "anch'ella sarebbe atta a condurci a più che mezzana grandezza, s'ella fosse di tempo in tempo da dotta et leggiadra mano coltivata".

Quali considerazioni e confronti si possono ricavare dopo la lettura dei due discorsi e la loro sintetica esposizione? Se ne sono precedentemente occupati due studiosi: Lina Fessia nel 1939(34) e Giovanni Presa nel

34) Lina Fessia, A.C., esule italiano in Inghilterra, in "Rendiconti del Reale Istituto Lombardo
di Scienze e Lettere", Milano, Hoepli, 1939-40, volume LXXIII, IV della serie III, pp. 213-
243.
35) Cfr. nota 12.

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La prima ritiene il discorso del Marcellino "una parafrasi con qua e là piccole aggiunte della lettera del Citolini del '40. Ricorrono - ella scrive - non solo tutte le ragioni del Citolini, per cui il latino è insufficente, come lingua parlata, alla vita dei tempi, ma si ritrovano anche gli stessi esempi, le stesse parole tedesche e lo stesso modo di latinizzarle per cui io penserei che questo discorso sia largamente opera del Citolini che lo pubblicò(36)".
Un po' più articolate, ma non propriamente convincenti, sono invece le conclusioni tirate da Giovanni Presa. Egli scrive apertamente "di non condividere il giudizio della Fes sia sulla puntuale corrispondenza o, addirittura, sulla presunta equivalenza della lettera citoliniana del '40 con la lettera marcelliniana del '64: le due lettere sono, sì, sostanzialmente le stesse per i concetti fondamentali e per la meta cui tendono ed a cui giungono, ma si diversificano per una più abile, direi più avvocatesca difesa del volgare nella lettera marcelliniana, per le più erudite disgressioni, e per le più ricche variazioni tematiche: come si converrebbe appunto alla capacità critica, alla informazione storiografica ed alla abilità polemica del Citolini, maturatesi, arricchitesi ed affinatesi in più di vent' anni, quanti ne intercorrono appunto dal '40 al '61, in quanto la lettera, over discorso, che va sotto il nome del Marcellino, fu composta nel
Di sicuro ha più ragioni il Presa della Fessia.
Però bisognerebbe compiere una approfondita ricognizione nell' ambiente accademico veneziano e padovano tra gli anni '40 e '60 e studiare in particolare i dibattiti svoltisi intorno alla lingua. Non sono da sottovalutare, per riferirsi solo ai due nomi maggiori, gli scritti lasciatici da Sperone Speroni(38) e dal suo allievo Bernardino Tomitato(39). Non è neppure da trascurare la traccia affidataci da Ruscelli nellaletteradedicatoria aVinciguerra

36) Op. cit. p. 221.
37) Op. cit. p. 1006.
38) Sperone Speroni (1500-1588), padovano, letterato, filosofo, critico ed animatore dell'Accademia degli Infiammati, era tenuto in grande considerazione dall'Aretino, che gli riconosceva il titolo di maestro. Si occupò del problema linguistico in più occasioni. Nel "Dialogo delle lingue", pubblicato nel 1542, ma scritto già da alcuni anni, egli prende una netta posizione per il volgare, seguendo però le teorie del Bembo per un volgare toscaneggiante, incline a poche aperture verso le lingue delle altre regioni italiane. Nelle successive opere che trattano della lingua egli si fa invece portavoce del superamento del toscanesimo, ritenendo necessario il suo arricchimento ed ampliamento con vocaboli e forme suggerite dalle altre parlate italiane. (Cfr. Maurizio Vitale, La questione della lingua, Palermo, Palumbo, 1984, pp. 68-70).
39) Bernardino Tomitano (1517-1576), discepolo dello Speroni pubblicò nel 1545 i:
"Ragionamenti della lingua toscana (poi ampliati e ripubblicati nel 1570), sostenendo un modesto allargamento del toscano alla parlata delle altre regioni, forse anticipando le convinzioni che seguirà più tardi il suo maestro.

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di Collalto, premessa alla pubblicazione degli scritti del Citolini nel 155 1(40).
Vi cogliamo una tangibile prova che il serravallese, continuando negli anni ad interessarsi di problemi linguistici, veniva invitato a tenere pubbliche relazioni alla presenza di autorevoli uomini di lettere, e di vedersi pertanto riconosciuto un credito non indifferente in questo campo.
E di notevole levatura era esattamente la figura - ricordata dal Ruscelli di Trifone Gabriele(41), patrizio e letterato veneziano che aveva fatto delle proprie ville di campagna e della casa in Murano un cenacolo di letterati, tra i più esclusivi del suo tempo. In una di queste riunioni, scrive il Ruscelli al Collalto: "... l'udimmo (il Citolini) con molta maraviglia et piacer di tutti, discorrere alla presentia di M. Trifon Gabriele(42)" sopra le ragioni in difesa del volgare. Questo personaggio, è bene ricordarlo, è anche il dedicatario dell'opera: "Discorso in materia del suo theatro" di Giulio Camillo De1minio(43) e godeva di un grande prestigio e rispetto - cosa non facile - agli occhi di Pietro Aretino. Così ancora una volta si stringe il cerchio delle amicizie letterarie veneziane di Alessandro Citolini.
Nei medesimi ambienti si può ipotizzare sia cresciuto Valerio Marcellino, avvocato veneziano, impiegato nell' amministrazione della Serenissima, ma con una forte propensione agli studi letterari ed alla poesia. Non mi sembra sia stato ancor rilevato che fra gli interlocutori della "Tipocosmia" prenda parte, dalla seconda giornata, proprio il"... gentilissimo M. Valerio Marcellino, giovane di singolare aspettazione" per dirla con le parole dello stesso Citolini(44). Questa circostanza e reputando la "Tipocosmia" scritta qualche anno avanti la sua pubblicazione(45), fanno pensare che il discorso sulla

40) Cfr. nota 25.
41) Trifon (e) Gabriele (1470-1549) era chiamato il Socrate veneziano, poiché aveva trasformato i sui palazzi in scuole ed accademie, dove dava lezioni gratuite ai discepoli ed accoglieva gli amici per riunioni intellettuali. Rifiutò la sede vescovile di Treviso e più tardi quella di patriarca a Venezia per dedicarsi completamente allo studio. I suoi ospiti più assidui erano: Gian Giorgio Trissino, Francesco Sansovino, Girolamo Molino e Giulio Camillo Delminio.
42) Cfr. nota 25.
43) Composto intorno all 530, ma pubblicato, come tutti i restanti scritti del Camillo, dopo la sua morte avvenuta a Milano nel 1544. (Il "Discorso in materia del suo theatro" ora si può leggere in G. C. D., "L'idea del Teatro e altri scritti di retorica", Torino, Edizioni RES, 1990). 44) "Tipocosmia", p. 59.
45) L'opera maggiore del Citolini, stando a quanto afferma il suo autore nella lettera dedicatoria al vescovo di Arras, era già stata partorita da dieci anni ed inoltre a p. 1 scrive che venne composta: "... nel tempo, che per lo Eccellentissimo d'Urbino era appresso la Serenissima Signoria ambasciatore il signor Giangiacopo Leonardi Conte di Montelabate...". Gian Jacopo Leonardi (1498-1562), fu creato dai duchi d'Urbino conte di Montellabate e inviato a Venezia in qualità di ambasciatore dagli anni trenta fino agli inizi del 1553. Era un esperto di ingegneria militare ed in ottimi rapporti con l'Aretino. Quindi la stesura della

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lingua, precedente "Il Diamerone", sia frutto di esposizioni letterarie sostenute dal Citolini in qualche accademia o casa patrizia, alla presenza del Marcellino. Passando in rassegna gli interlocutori della "Tipocosmia" e de "Il Diamerone", cogliamo se non gli stessi personaggi, almeno il gruppo orbitante attorno a Domenico Verniero(46), figura centrale e preminente nei dialoghi delle due opere.
Potrebbe così venir dimostrata, almeno per via indiretta, la consuetudine del Citolini e del Marcellino a ritrovarsi negli stessi circoli culturali e ben presto fra i due si sarebbe manifestata reciproca stima ed affinità, nonostante li separasse un divario di età più che generazionale.
E quindi fuori luogo il so spetto di p1 agio compiuto dal Marcellino ai danni del Citolini come insinua il Presa e riporta acriticamente Maurizio Vitale(47). Cadrebbero inoltre le ipotesi che il Citolini, oramai braccato dagli inquisitori per sospetta eresia, fosse costretto a mimetizzarsi dietro altrui nome per aggiornare il suo lavoro del '40, lasciando così il merito al Marcellino. Non si comprende allora perché abbia potuto tranquillamente firmare la lettera dedicatoria ad Alvise Cornaro!
Al di là di tante congetture, ed a meno di ulteriori scoperte, mi sembra più facile ritenere che il Marcellino fosse sollecitato, proprio dal Citolini, a porre per iscritto ciò che più volte gli aveva sentito esporre(48).
Credo che il serravallese si rendesse ben conto che era ormai tempo di porre la parola fine ad un dibattito esauritosi con la definitiva vittoria del volgare sul latino e chiudere così le polemiche che avevano coinvolto tanti letterati per tutta la prima metà del sedicesimo secolo.


"Tipocosmia" si può ragionevolmente far risalire subito dopo il 1550 ed il manoscritto potrebbe essere stato letto dal Marcellino e dal suo circolo, molti anni avanti la pubblicazione, avvenuta a Venezia solo nel 1561.
46) "Il Diamerone" ha un preciso riferimento cronologico per stabilire la datazione della sua composizione. A p. 5 della prima giornata si legge che: "... un famigliare del Magnifico M. Giorgio Gradenigo portò alcune lettere, che venivano da Roma al suo padrone: il quale presele et apertane una, che era del Magnifico M. Bernardo Cappello, vi trovò dentro due bellissimi sonetti, fatti nella morte della Signora Ireine di Spilimbergo". Ebbene Irene di Spilimbergo morì il 17 dicembre 1559 e l'eco di questa improvvisa dipartita colpì profondamente l'ambiente aristocratico e letterario di Venezia, tanto che nel 1561 uscì, sempre a Venezia, a cura di Dionigi Atanagi il volume di poesie: "Rimedi diversi nobilissimi et eccellentissimi autori, in morte della Signora Irene di Spilimbergo". "Il Diamerone" è indubbiamente composto tra il '60 ed il '61 e i dialoghi si svolgono nella casa di Domenico Venier (o). Costui, nato nel 1517 e morto nel 1582, patrizio veneto e poeta, rimase paralizzato alle gambe a 32 anni; per questo motivo dedicò il resto della sua vita a raccogliere in casa propria poeti e letterati, seguaci sopratutto del Bembo e della corrente di poesia del petrarchismo cinquecentesco.
47) Op. cit. p. 50.
48) Soprattutto per quanto sottolineato con nota 33, ritengo che l'opera sia indubbiamente uscita dalla penna del Marcellino, senza revisioni, rettifiche o correzioni da parte del Citolini.


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