Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°9 - 1996 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane
PIER ANGELO PASSOLUNGHI


I CISTERCENSI A FOLLINA E NELLA MARCA TREVIGIANA*

Una pur sintetica panoramica sulla presenza cistercense nella diocesi di Ceneda e di Treviso coglie subito nell'area pedemontana delle Prealpi trevigiane la sede del suo primo e più importante insediamento avvenuto in Follina, dove la vallata di Mareno confluisce in quella del Soligo. Qui verso metà secolo XII venne a stanziarsi una colonia di monaci provenienti, per alcune fonti da S. Maria di Chiaravalle milanese, per altre da S. Pietro di Cerreto lodigiano che Chiaravalle aveva per altro appena riformato cistercense.
Radicatasi grazie alla protezione della contessa Sofia da Colfosco e del marito Guecellone considerato il capostipite della casata dei Caminesi, quella che fu la prima casa cistercense del Veneto di terraferma diede immediato avvio ad un' azione di bonifica e colonizzazione battezzando in forma d'auspicio l'implaudata valle di Mareno in "Val Sana", tanto da assumere il nome di S. Maria di Sanavalle.
Contraddistintisi nell' iniziativa di sboscamento, nella capacità di drenaggio, nella perizia della messa a coltura di aree sino ad allora improduttive, i cistercensi eressero ben presto nella Valmareno, nel Felettano, lungo la sponda sinistra del Piave una serie di granze o fattorie agricole, che caratterizzandone l'impegno agrario concorsero nel promuovere il recupero umano di un territorio ampiamente selvaggio quale allora si presentava la Sinistra Piave.

* Testo aggiornato ed integrato della relazione tenuta al Convegno trivento su s. Beranrdo di Clairvaux svoltosi il 27ottobre 1990 a Vittorio Veneto nella ricorrenza del IX centenario della nascita.


PIER ANGELO PASSOLUNGHI. Studioso e ricercatore di storia veneta, esperto di storia religiosa per cui collabora a varie riviste nazionali, ha curato varie pubblicazioni, in particolare di Storia e Bibliografia della Sinistra Piave.

19

A favorire il decollo della nuova colonia monastica, come si è detto, furono i coniugi Sofia e Guecellone. La prima grande donazione signorile avvenne nella primavera del 1170, ailorchè alla presenza del patriarca di Aquileia la contessa donò ad un ormai eretto monastero una nutrita serie di chiese del pedemonte sparse tra Serravalle, Trichiana, Lago, Valmareno, Colfosco, Longano e Fonte. Intrecciando fede e calcolo politico, il suo fu un disegno ad ampio respiro che mirava alla rivalorizzazione sociale di aree abbandonate che il matrimonio con Guecellone lasciava ipotizzare destinate a divenire l'epicentro di un rinnovato impianto feudale proteso tra monte e laguna. Così se nel 1170 fra le prime a venir donata figura la chiesa di 5. Margherita sita in quel castello di Serravalle che cerniera tra i possedimenti sofiani dislocati tra pedemonte, collina e pianura ne controllava i flussi, pochi anni dopo fu (e non a caso) la volta di Guecellone che favorì l'insediamento patrimoniale dei monaci in Stabiuzzo, località presso quel castello di Camino che stava per dare nome di lì a poco all'emergente casato comitale. A distinguersi fra i discendenti fu poi il nipote di Sofia, il conte Gabriele III, che nel testamento dell 224 dotò il monastero di vasti e contigui territori soprattutto della Valle di Mareno.
A contraddistinguere la crescita e la pluri secolare continuità patrimoniale del monastero furono i lunghi periodi abbaziali dell'abate Anselmo, che governò il monastero dal 1204 al 1235, e dell'abate Nordio, che lo resse dal 1319 al 1359.
L'età anselmina, destinata a fare di Follina non solo il maggiore monastero della diocesi di Ceneda ma anche la più prestigiosa casa veneta dell'ordine cistercense, vide i cistercensi proiettarsi in un vivace dinamismo agricolo. Il radicamento patrimoniale avvenuto all'inizio del Duecento in Sottoselva presso 5. Lucia a mezza strada per Stabiuzzo portò ben presto all'erezione di una nuova fattoria agricola. Poco dopo furono superate le insidiose pretese del monastero di S. Fermo di Verona che accampava diritti di filiazione rivendicando una propria fondazione antecedente l'arrivo dei cistercensi stessi. Nel 1224 divenne oggetto del ricordato testamento di Gabriele III da Camino, svolse quindi su diretta richiesta di Citeaux ripetuti e delicati interventi ispettivi sui monasteri lagunari di 5. Maria e 5. Tommaso di Torcello, ed avviò infine (come si dirà più avanti) l'introduzione della regola cistercense nel decaduto e non distante ospedale di S. Maria del Piave.
L' ancor più lungo quarantennio nordiano, interessato come appare a districarsi nelle vicende che coinvolgevano il casato fondatore e ad amministrare il patrimonio terriero piuttosto che ad aumentano con nuovi grandi acquisti, fu segnato invece dalla conservazione. L'accrescimento terriero più che agli acquisti puntò infatti sulle donazioni, che continuarono a non mancare.
Custode della regola cistercense in anni di ormai precipitata crisi degli ideali monastici, Nordio continuò a vigilare sulla condotta dei rissosi

20

confratelli lagunari di Torcello e sulla scarsa osservanza di quelli più vicini di 5. Maria del Piave, tanto che nell' ultimo anno in cui lo si rinviene in carica personalmente seguì l'elezione del nuovo abate plavense.
Se l'accurata gestione anselmina mise le condizioni per cui poco dopo il suo termine si realizzarono le condizioni economiche che consentirono l'erezione del tuttora presente chiostro in muratura avvenuta nel 1268 ad opera dell'abate Tarino come ricorda una lapide in caratteri gotici immurata nel lato nord dello stesso chiostro, l'ancor più longevo governo abbaziale di Nordio garantì il completamento della nuova grande chiesa, che iniziata all'inizio del Trecento dall'abate lodigiano Gualtiero venne ultimata nel
1335.
Poco dopo la morte di Nordio, in un processo temporale quasi parallelo allo spegnersi del casato caminese che nei suoi riguardi non era mai venuto meno ai propri compiti di patrocinio, il monastero precipitò in quella generalizzata crisi del secondo Trecento che da tempo stava scuotendo gli stessi ideali monastici e che avrebbe portato allo spegnersi di ogni forma di vita comunitaria anche in Follina.
All'atto del suo esaurirsi, la comunità cistercense aveva ormai tracciato indelebili segni nella vita economica, sociale ed artistica della pedemontana. Un catastico del 1400 ricorda, solo per restare all'area collinare, come l'intervento agrario e patrimoniale del monastero avesse interessato le ville di Arfanta, Campea, Cison, Combai, Farrò, Lago, Mareno, Miane, Preamor, Revine, Rolle, Tarzo, Tovena. Ma granze grandi e piccole erano sorte lungo tutta la valle del Piave dal montano Cadore alla lagunare Cessalto e presso il Livenza da Godega a Cordignano a Codognè. L'erezione di chiesa e chiostro, ove il romanico fondendosi nel gotico, lasciava poi esempio di uno dei più notevoli impianti architettonici d'arte monastica del Veneto.
Tralasciato non va poi di cogliere il segno religioso anche se, prodighi nell' aprirsi sul territorio allorché si trattava di operarne il risanamento agricolo, i cistercensi follinesi in realtà gelosamente si rinchiusero nel proteggere la loro ascesi, tanto che seguendo il rigido costume dell'ordine volutamente rifuggirono i contatti esterni, alfine di vivere in forma appartata e riservata la propria scelta di vita monastica.
Il segno dell'avvenuto stimolo spirituale lo attestano però il non piccolo numero di chiese ed oratori dipendenti sparsi nel territorio e l'ininterrotta serie di lasciti non solo testamentari disposti da nobili e popolani. Negli anni antecedenti la crisi non mancarono poi i casi di laici desiderosi di vivere, in qualità di oblati, presso il monastero. Non si trattò solo di vedovi desiderosi di emettere la professione di novizio, ma anche di coniugati, pronti a trasferirsi con la moglie dai centri vicini per trascorrere, da esterni, la giornata in preghiera e meditazioni.
Peculiarità tipicamente cistercense, essendo stato proprio san Bernardo di Clairvaux (1090-1153) diffusore in Italia dell'ordine fondato a Citeaux,

21

in Borgogna, nel 1098 a rendere popolare in tutta Europa il titolo di "Signora" da lui dato alla Madonna, altra duratura impronta lasciata nel territorio fu la particolare pietà mariana. Se proprio non avviarono, i cistercensi di Follina comunque prontamente ripresero e rinforzarono la radicata venerazione locale verso un' immagine in pietra della Vergine con Bambino di fattura medievale. Non a caso nell'ottantina scarsa di codici, registrati da un tardo inventario dell'anno 1400, si rinviene la presenza del Liberprocessionis beatae Marie virginis e del De laudibus Mariae. Si tratta in quest'ultimo caso della nota opera di san Bernardo nella quale viene esaminato e sottolineato il ruolo centrale svolto dalla Vergine nella salvezza umana.

Già ricordata per la sua subordinazione ispettiva a Follina ed in particolare all'abate Nordio, la seconda casa cistercense oggetto della presente panoramica è 5. Maria del Piave, antico ospedale sorto presso un'importante zona di guadi sul medio corso del fiume.
Inizialmente si trattò di una chiesa con funzioni ospedaliere affidata ad una comunità di cui non si conosce la regola professata. Nato o rinato attorno al Mille nel fervore della ripresa religiosa e commerciale, fra i suoi compiti c'era l'ospitalità a viandanti, pellegrini e mercanti che guadavano il Piave.
Sorto all' incrocio tra le vie ungarica e alemanna presso un boschetto di pioppi in località (appunto) Talpon non distante da Mareno, l'ospedale aveva accresciuto la propria importanza all'epoca delle Crociate allorché si era trovato sul percorso via terra per la Palestina. Nel 1120 i conti di Treviso, di Colfosco, di Ceneda ed i signori da Montaner ne avevano congiuntamente fatto oggetto di importanti donazioni e ben presto, a garantirne la protezione dagli appetiti degli ordini militari che ne avevano tentato il rilevamento, erano arrivate le bolle di protezione papale. Fra le chiese dipendenti per lo più dislocate lungo il Piave che papa Lucio III nel 1177 aveva posto nel patrocinio apostolico, ne figuravano pure alcune presso il Livenza: si trattava in quest'ultimo caso delle cappelle di Santo Stefano di Meschio (Pinidello) e San Gottardo di Cordignano.
Poichè agl'inizi del Duecento, l'ospedale risultava in piena decadenza spirituale e materiale, nella primavera del 1229 papa Gregorio ne aveva disposto la riforma, affidandolo al controllo dell'abate di Follina. L'arrivo di monaci del non distante monastero della pedemontana produsse gli effetti desiderati, inducendo quelli che vi vivevano già ad accettare la regola cistercense tanto che ben presto la casa plavense potè riprendersi.
La perdita d'importanza rispetto ai flussi verso la Terra Santa del secolo precedente e i distruttivi passaggi d'eserciti dovuti alle continue guerre che tra Due e Trecento coinvolsero la Marca gravando sui guadi, finirono però col farsi ben presto sentire in forma negativa. I maggiori danni venne però ad arrecarli il Piave con le sue piene distruttive: nel 1368 un' onda del fiume

22

più violenta del solito completamente circondò l'area ove sorgevano le fabbriche, riducendolo ad isola.
Sorto in diocesi di Ceneda sulla sponda sinistra, il monastero si trovò così in mezzo al guado, tanto che finì col venir indicato appartenere ora alla diocesi di Ceneda, ora a quella di Treviso. Colpito da ulteriori inondazioni, ed ormai in piena crisi vocazionale, a metà Quattrocento subì una pesantissima distruzione che lo abbattè dalle fondamenta. Il commendatario Venceslao da Porcia ne ricercò nel 1459 pronta riedificazione presso la più sicura riva destra a Lovadina, ma essendo le nuove fabbriche rimaste vuote per mancanza di monaci, a fine secolo il suo beneficio economico venne unito alle monache di S. Maria degli Angeli di Murano.
In analogia a quanto documentabile per S. Maria del Piave, i cistercensi di Follina svolsero forse iniziali azioni di controllo pure sulla casa di S. Maria Nova sorta nel primo Duecento a Treviso. Si trattava di una comunità di monache cistercensi, migrate dall' ospedale di Ognissanti. Nel 1231 erano ormai una quarantina le religiose impegnate nella preghiera, nella lettura, nei lavori manuali. La loro vita comunitaria era controllata da tre monaci che, per la prossimità geografica e il concomitante ruolo ispettivo che andava Follina in quegli anni svolgendo sulle altre fondazioni venete dell'ordine, si può presumere fossero venuti proprio dalla pedemontana cenedese. Forse si erano trasferiti da Follina per affiancarsi ai due conversi, segnalatici da alcune carte archivistiche, con lo scopo di tentare in città l'avvio di una parallela comunità maschile. Se ci fu, il tentativo non riuscì e i monaci e gli stessi conversi rientrarono a Follina o al Piave. Certo è che poco dopo le monache rimasero sole e divennero autonome, tanto che agli inizi del Trecento si eleggevano liberamente la badessa, responsabile della disciplina e dell'interpretazione della regola oltreché della gestione economica dei beni.
Le guerre, che nel secondo Trecento coinvolsero la città di Treviso, per due volte provocarono la distruzione delle fabbriche ove la comunità si era inizialmente raccolta. Per due volte le monache dovettero cambiare sede. Il monastero era inizialmente sorto in borgo Santi Quaranta, ma dopo le rovine provocate dalla guerra veneto-ungherese (1356-5 8), venne inizialmente ricostruito non distante dai precedente. Abbattuto per le vicende del 1378-81, le monache si trovarono costrette a prendere nuova, ma momentanea, dimora in località Panciera. La necessità di una più sicura sede interna alle mura cittadine, portò all'erezione di un nuovo impianto monastico, la cui chiesa fu consacrata nel 1395. Al superamento delle conseguenti difficoltà economiche concorse certo l'apertura di un piccolo educandato per ragazze. Vi erano accolte le figlie di buona famiglia (filiae bonorum civium civitatis Tarvisii) con la speranza che alcune di loro potessero avviarsi alla vita claustrale. Nel corso del Quattrocento vi risultavano rappresentati alcuni facoltosi casati quali gli Arpò, i Coppo, i Sinisforte, i Venier. Da famiglia di

23

notai proveniva la badessa Margherita Dotto, che nel 1439 ricevette il visitatore generale dei cistercensi in Italia, dom Giovanni Garlonis. Questi ispezionò il monastero, interrogò le religiose, indicò le linee di condotta claustrale. Le vicine comunità di Follina e del Piave, su cui inizialmente si erano appoggiate per le questioni riguardanti la loro ascesi cistercense le monache di 5. Maria Nova, erano di fatto spente e per gli aspetti relativi alla loro vita spirituale le religiose trevisane si appoggiavano ormai esclusivamente sul vescovo cittadino e sui sacerdoti da questi inviati.
Lungo tutto il Cinque ed il Seicento la presenza cistercense che aveva inizialmente trovato nella pedemontana cenedese il proprio fecondo centro irradiativo, rimase così limitata alla sola città di Treviso. Troppo momentanee risultavano infatti le vicende delle comunità avviatesi in Mestre (ove tra fine Quattrocento ed inizi Cinquecento alcune giovani friulane si erano sistemate presso la chiesa di 5. Maria delle Grazie indossando l'abito bianco prima di passare alla regola agostiniana) ed in Busco, antico priorato pomposiano presso Ponte di Piave, ove nel 1547 il commendatario Paolo Giustinian vi aveva chiamato alcuni cistercensi ponti nell' abbandonano nel
1614.
A rappresentare nelle diocesi di Ceneda e di Treviso l'ideale cistercense rimasero lungo la rimanente età veneziana le sole monache di 5. Maria Nova. All'inizio del Settecento si trattava di una comunità ancora fiorente, formata tra monache, converse e novizie, da oltre cinquanta religiose, a cui si aggiungevano una decina di educande: su di essa si abbattè all'inizio del secolo successivo la soppressione disposta dalle leggi napoleoniche.
In diocesi di Belluno, che con quelle di Ceneda e Treviso pare qui il caso di non trascurare per il suo rientrare in quell'ambito storico-spaziale che va sotto il nome di Marca Trevigiana, si ebbe poco dopo l'ondata soppressiva la pronta ripresa di una comunità femminile, destinata neanche un secolo dopo a trasferirsi presso Ceneda.
Si trattava di un'antica casa medievale sorta a Belluno all'inizio del Ducento, allorchè un gruppo di pii fedeli, formato da fratres et sorores desiderosi di vivere in comunità, si era radunato presso la chiesa dei Ss. Gervasio e Protasio. Mentre la componente maschile si esaurì sul finire dello stesso secolo, quella femminile inizialmente animata dalla nobile Acega riuscì ad attecchire. Previo assenso del vescovo, nel 1212 costei ottenne da Baldovino, decano del capitolo cittadino, la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio. La donazione della chiesa, che garantiva al gruppo la stabilità della sede, e l'accettazione del controllo vescovile sulle regole di vita comunitaria, ne garantirono il decollo, tanto che nel 1266 la nuova comunità potè liberamente eleggersi come prima badessa donna Benedetta.
Non sono ancora noti tempi, circostanze e modalità che videro le religiose assumere la regola cistercense, certo è che a seguire la loro osservanza monastica fu nuovamente chiamato l'abate di Follina, che nel 1379 se ne

24

vide assegnato in via continuativa da papa Urbano VI il compito.
Tale compito continuò anche dopo il 1527 allorchè nel chiostro follinese venne introdotta la regola camaldolese. Quando poi nell 771 il governo della Repubblica veneta soppresse la comunità follinese imponendole la ricongiunzione in S. Michele in isola, il controllo ispettivo sulle monache passò, fino alla soppressione napoleonica del 1810 di entrambi i monasteri, agli abati lagunari.
La restaurazione austriaca permise una pronta neimplatazione delle cistercensi bellunesi, tanto che nell 818 cinquanta monache e venti educande avevano già ottenuto di potersi riunire nell'antico monastero. Con l'unione del Veneto al Regno d'Italia si ebbe però una nuova indemaniazione dell'edificio. Alle cistercensi venne consentito di rimanervi sino a che la comunità, su cui gravava l'obbligo di non accettare nuove monache, non si fosse ridotta a sette unità, dopo di che sarebbe stata considerata estinta e la confisca sarebbe divenuta esecutiva. Essendo sul punto di verificarsi nel 1909 una tale evenienza, su interessamento del canonico bellunese Benedetti, venne ricercata una nuova sede presso Ceneda, ove vennero comprate in San Giacomo di Veglia due barchesse di proprietà dei conti Grotta di Venezia, che erano state messe all'asta.
L'adattamento degli ambienti agricoli vide la scuderia divenire il coro, mentre le sale di ricevimento degli ospiti il luogo per le meditazioni e le preghiere. L'insediamento delle monache in S. Giacomo potè così avvenire il 20luglio 1909. La ratifica dell'eretta clausura da parte del vescovo Andrea Caron giunse il 26 agosto 1912, quella papale fu firmata da Pio X il 20 agosto 1913.
Partita dalla pedemontana cenedese, era nella pedemontana cenedese che la presenza cistercense aveva trovato occasione di nuovo, e sia pur diversificato, radicamento.

<<< indice generale

http://www.tragol.it