Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°8 - 1995 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane

FLAVIO DE BIN

I SENTIERI DELLA MEMORIA

1. DINTORNI DI VITTORIO VENETO

L'attività mineraria

Le zone montane e collinari non sono state sfruttate dall'uomo per i soli beni presenti sopra terra, come i pascoli, il bosco, ecc., ma anche per i prodotti del sottosuolo, come rocce, minerali ecc.
Anche l'alta collina e la zona pedemontana trevigiana hanno conosciuto uno sfruttamento del sottosuolo, specie nei secoli passati, che ha contribuito in maniera non marginale alla economia, all'occupazione ed al benessere delle popolazioni residenti. Potremmo affermare che l'attività mineraria ha frenato, anche se solo parzialmente, l'esodo e l'emigrazione delle zone agricole o più svantaggiate del territorio.
Di questa attività mineraria, oggi notevolmente ridotta, rimangono ben visibili le testimonianze.
Potremmo definire in quattro tipologie lo sfruttamento minerario:
i - l'estrazione dell'argilla per la fabbricazione di laterizi;
2 - l'estrazione della pietra arenaria;
3 - l'estrazione di materiale calcareo ed argilloso;
4 - l'estrazione di lignite

L'itinerario
La partenza dell'itinerario che ci farà percorrere i luoghi ove un tempo attiva era la utilizzazione del sottosuolo, avviene dalla piazza di Sant'Andrea o della Pieve di Bigonzo, vicino ad una fabbrica dell'Italcementi, ora solo parzialmente in funzione.


FLAVIO DE BIN. Laureato in Scienze Forestali, insegnante. Autore di numerosi saggi e ricerche sulla morfologia agraria e forestale del territorio della Comunità Montana.

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Proprio a questa struttura giungevano dalle montagne vicine i carrelli col materiale, dal quale, una volta cotto, si otteneva il cemento. I carrelli arrivavano tramite una teleferica che da quota 200 m. s.l.m. raggiungeva quota 1573, il punto più elevato del Monte Pizzoc da dove si estraeva il materiale.
Con un po' di pazienza ed attenzione possiamo notare l'allineamento dei piloni che sostenevano la teleferica dismessa circa trent'anni or sono.
Superate le piccole borgate di Borghel e Rindola bassa, si lascia la strada bianca per una carrareccia che poi diventa sentiero e ci conduce al santuario della Madonna della Salute (secolo XVI), posto a metà del rilievo Costa di Fregona.
Il sentiero riprende a lato della costruzione e sale lungo le linee di massima pendenza sino a raggiungere una selletta ed i rimboschimenti di latifoglie e conifere a rapido accrescimento.
Notevole si presenta il panorama (siamo a quota 450), che si estende sulle colline e sulla pianura vittoriese.
Obbligatoria a questo punto una deviazione che ci consente, dopo circa 300 metri, di giungere ad una cava di estrazione della cosidetta "piera dolza" (= pietra dolce, perchè di facile lavorabilità), la pietra arenaria utilizzata per architravi, stipiti, decorazioni varie ecc. Interessante notare il metodo di estrazione praticato: essendo gli strati di roccia inclinati anche oltre i 45°, lo stacco del materiale, che si otteneva con grossi scalpelli dei quali rimangono ben visibili i segni, avveniva a blocchi, con l'avvertenza di lasciare delle colonne inclinate anch'esse a sostegno della volta.
Ritornati sul sentiero, che corre su bancate di conglomerato ed arenaria, si giunge in località "Grotte del Caglieron", ove sono ubicate numerose cavità in parte naturali ed in parte artificiali alquanto suggestive. Lungo il torrente Caglieron, infatti, da una profonda forra e numerose cascate, alte parecchi metri e con alla base enormi marmitte, si dipartono e si alternano cavità artificiali dalle quali sin dal 1500 si estraeva la già citata "piera dolza".
Lasciate le Grotte, l'itinerario ci porta alle borgate di Piai e più su a Sonego, caratteristica, quest'ultima, per le case dall'aspetto di piccole roccaforti. Su lastricato di cemento, si sale lungo il torrente Canon, prendendo poi una stradina che incrocia l'Alta Via dei Silenzi N. 6 e conduce alle ex cave Italcementi, site a quota 750. Si possono notare i grandi ripiani della cava ormai invasi da una vegetazione rustica e pioniera. A Valle, invece, si possono notare alcune strutture, abbandonate da tempo, che servivano per lo sminuzzamento del materiale che poi veniva trasportato su automezzi al cantiere principale di Pieve di Bigonzo.
Proseguendo lungo l'Alta Via, che corre lungo il crinale della Costa di Serravalle, si giunge ai ruderi di una antica fortezza, che la credenza popolare attribuisce a Re Matruc, re longobardo e padre della santa venerata a Serravalle. Più sotto, invece, rimane il santuario di Santa Augusta, con

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l'annesso vecchio convento, ora trasformato in Osteria.
La via selciata e la grande scala ci portano a Piazza Flaminio a Serravalle. Seguendo la "via dei sassi", ora via Roma, si sale verso Sangusè, fiancheggiando i resti del sistema difensivo della città: un doppio cordone di mura intervallato da torri di avvistamento.
Dalla borgata rurale si prende per una carrareccia che tra coltivi e boschi di castagno porta in località "Le Selve", in comune di Revine Lago. Si scende, poi, in una piccola piazzetta, caratteristica per una grande vasca ed una fontana coperta tutta in pietra. Via Nogarolo, in direzione ovest, conduce alle Fornaci Tomasi. L'attività consiste nella estrazione di materiale argilloso per la fabbricazione di laterizi. Tuttavia, durante l'estrazione del materiale, vennero anni fa alla luce un centinaio di tronchi fossili, tutti in posizione di crescita. Appartengono alla specie Larix decidua (Larice europeo) e presentano un diametro variabile da 25 a 70 centimetri. La successiva datazione al radiocarbonio ha rilevato un 'età di circa 15.000 anni!


Sentiero delle vecchie borgate

Dall'antica Piazza Flaminio, dietro il Duomo di Serravalle, si prende per una grande scalea che conduce al Santuario di Santa Augusta, Patrona dei serravallesi.
Salendo lungo la mulattiera con fondo acciottolato, si incontrano numerose cappelle votive, immerse nella pineta.
Passati sotto una torre di difesa medioevale, si arriva alla base di una lunga scalinata che porta direttamente al santuario.
Dall'ampio prato di fianco alla chiesa, si stacca un comodo sentiero che, rimanendo in quota, raggiunge l'abitato di Naronchie. Il toponimo, secondo gli studiosi, deriva da "rancus" = rovo o da "recandus" - da sarchiare: luogo pieno di rovLche deve essere sarchiato, pulito. Si deve anche ricordare "ruca", la roncola, e cioè lo strumento di taglio utilizzato per dissodare i terreni da cespugli ed altre infestanti.
Naronchie è un piccolo borgo abbandonato, circondato da prati, piccoli vigneti, boscaglie di nocciolo, carpino nero ed orniello. Pianta tipica è però il castagno, che forniva paleria per lavori agricoli, legna da ardere, una buona produzione di frutto, nonchè lo "strame", un insieme di fogliame ed erba secca utilizzata come lettiera per il bestiame in stalla.
Il cammino prosegue incrociando un piano, sino ad arrivare, dopo poco più di un chilometro, ai piccoli borghi di Pradal centro e Pradal alto (il toponimo "Pradal" deriva dal latino "pratum" - prato, ovvero luogo prativo) dove troviamo una fontana d'acqua fresca.
Si percorre poi una mulattiera che in leggera discesa, passando vicino a dei fienili, arriva nel fondovalle ove si guada il Rio Pradal. Proprio da questo

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punto è possibile compiere una breve deviazione, tutta in ripida salita, e giungere ad un'altra località: Scarpedal. E un vecchio borgo di case che si estende su una piccola conca, tra alte pareti, circondato da fitta vegetazione a carpino nero e castagno con ricca flora erbacea che risente dell'abbondante presenza di acqua.
La via principale porta, invece, alla borgata di Valscura, quota 559, ultimo luogo abitato da dove si dipartono i sentieri che conducono ai pascoli ed alla cima del Monte Pizzoc (m 1573). Le abitazioni, dai caratteristici ballatoi in legno e dai muri in pietra, sono raggruppate su pianori ricavati modellando i pendii meno ripidi dei versanti. Anche le coltivazioni agricole hanno trovato posto sugli ampi terrazzi, sostenuti da muretti a secco, ma ormai il bosco, causa l'incuria e l'abbandono, sta riappropriandosi dei suoi antichi spazi.
Da Valscura si scende alla borgata sottostante di Maren percorrendo una mulattiera che fiancheggia la strada prima percorsa. Maren rappresenta il punto di convergenza di tutte le borgate minori sin qui incontrate, vuoi per la maggiore estensione, vuoi per il più facile e veloce raggiungimento da valle. Il piccolo "centro" si sviluppa su una lunga spianata, in posizione panoramica sulla valle Lapisina e sulla pianura vittoriese.
Frate rustiche abitazioni, una si fa notare per la sua forma architettonica:
si tratta di un vecchio convento di suore che nell'antichità ospitò forse Soprana Da Camino. Il fabbricato è riconoscibile per la sua forma quadrilatera e per gli archi caratteristici che sorreggono un ballatoio.
Superato l'abitato, si scende verso Sud lungo la strada asfaltata che traversa campi coltivati, prati interrotti qua e là da alberi da frutto.
Dopo circa 500 metri si lascia la strada principale e si imbocca una stradina per Valcalda. Questo borgo, il più meridionale, è formato da due piccoli nuclei abitati, posti su un terrazzo a conca, con le costruzioni poste a semicerchio, immerse tra ciliegi e cipressi secolari, quasi ad isolare questa ridente conca col resto del paesaggio.
Sotto un tunnel di vegetazione e su una mulattiera per lunghi tratti lastricata, si tocca il fondovalle in località La Sega, quota 180 metri.
Il toponimo ricorda come le acque del fiume Meschio venissero utilizzate per far funzionare i mulini, una segheria e dei magli, famosi nel Rinascimento perchè con essi gli ottimi artigiani riuscivano a lavorare delle "lame", spade, che per la loro qualità facevano concorrenza a quelle famose di Toledo!
Giunti a Porta Cadore siamo ormai entrati nella città: il rumore delle auto che veloci percorrono la statale Alemagna ci ributta nel frastuono di una civiltà che ha perso il senso del tempo e del silenzio.

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Il sentiero dei malgari

Pian delle Femene è una località sita a m 1.140 della catena Cesen - Col Visentin e la sua strana denominazione deriva molto probabilmente dal fatto che in tempi antichi era il luogo ove le donne dei paesi della vallata attendevano i loro uomini che ritornavano dai traffici commerciali (ed a volte dal contrabbando...) della Val Belluna.
Numerose sono le casere, le baite disseminate qua e là tra le vallecole ed i rilievi arrotondati che si dispongono lungo la catena montuosa. Molte di queste costruzioni sono di recente edificazione, altre, invece, sono state ristrutturate. Accanto a queste si possono notare ancora i resti di vecchie teleferiche a sbalzo, un tempo utilizzate per portare a valle fieno e legname. Incamminandoci verso Est, lungo sentieri o stradine bianche, possiamo ammirare la diversità del paesaggio: a nord si estende la vallata del Piave delimitata dalle cime del gruppo montuoso dello Schiara, a sud, invece, si allarga la pianura trevigiana, movimentata nella sua parte più alta dai rilievi morenici lisciati dal ghiacciaio del Piave in epoche preistoriche.
Casere Frascon è la prima casera che incontriamo a quota 1174.
Recentemente riattate, queste costruzioni risalgono al 1866, come ricorda una incisione sullo stipite della porta d'ingresso, all'ombra di un maestoso abete rosso. Curioso notare come le zone a pascolo, ormai abbandonate, siano rigidamente squadrate da lunghi e bassi muriccioli di pietra a secco, che segnano il confine delle superfici attribuite alle diverse casere secondo il carico di bestiame portato all'alpeggio. Intuibile come il materiale per i muriccioli e per la costruzione delle casere sia stato reperito in loco, operando in tal modo anche un dissodamento ed uno spietramento dei pascoli. E questo lavoro tutto, ovviamente, manualmente, trasportato il pietrame con le gerle sulle spalle!
Si sale poi lungo il crinale di Monte Cor, camminando su uno stretto sentiero fino a casere Col delle Poiatte (m 1303). La parola "poiatte", di origine bellunese (=poiat o pojat) sta ad indicare la "carbonaia", cioè le cupole di legname che bruciando molto lentamente si trasformavano in carbone. Si può quindi desumere che questo luogo fosse adatto a far carbone, a far, cioè, il "poiat". Attorno al colle, infatti, sul versante a Nord, c'era il bosco che forniva il legname, mentre a Sud, in luoghi più riparati dal vento, venivano probabilmente costruite le piazzole, volgarmente dette "jal", sopra le quali si erigevano le cataste di legna, i "poiat". Le piazzole circolari appena ricordate esistono tuttora e sono state trasformate in "lame", pozze d'acqua, per l'abbeveraggio degli animali.
Il complesso delle casere, in stato di degrado e rovina, è costituito da quattro costruzioni di varie dimensioni, disposte quasi a formare una croce. La costruzione di maggiori dimensioni era sicuramente la stalla per il bestiame di grossa taglia, cavalli e bovini, mentre gli ovini erano sistemati

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in una vicina, ma di minori dimensioni. Le altre due costruzioni più ridotte erano utilizzate per l'abitazione dei malgari, ripostiglio, ecc. Infine, poco lontano sorge una costruzione piccola piccola, chiamata "caserin", che serviva per la conservazione del latte e dei formaggi.
Le vecchie Casere Cor sorgono non molto distante, sempre alla stessa quota delle precedenti. Vicino, però, ci sono pure le nuove strutture, profondamente diverse nella architettura, certo più funzionali ed adatte alle esigenze della gente che vi lavora e vive sola per buona parte dell'anno.
Risalendo sempre verso Est il Monte Pezza, lungo il confine delle province di Treviso e Belluno, si incontrano, poco sotto la cima sul versante a sud, le Casere Pezzetta, in stato di rovina e forte abbandono: delle sei costruzioni alcune conservano il tetto in lamiera, altre solo i muri perimetrali in pietra. Diversamente dagli altri gruppi di casere, queste sono disposte a semicerchio, a ridosso del monte.
Dalla cima, si scende verso una valletta, si risale sul colle successivo, si ridiscende sul fondo di un impluvio ove è stata ricavata una grande lama e poi si risale fino alla cima del Monte Agnelezze (quota 1502). Da qui si raggiunge forcella Zoppei dalla quale si stacca un lungo sentiero, denominato "troj de mez", che mantenendosi sempre in costa, taglia tutto il versante sud del monte Col Visentin (m 1763).
Numerose sono le casere che troviamo cammin facendo, a testimonianza di una attività agricola che un tempo era molto forte e che garantiva una presenza costante dell'uomo in montagna.
Casere Collon sono le prime costruzioni alle quali ci conduce la breve mulattiera che si prende dalla forcella, e che ci possono dare un buon riparo. Meraviglioso il panorama che si stende sotto i nostri occhi e che abbraccia tutta la Val Lapisina, coi suoi laghi, la sua torre romana, i suoi boschi e, purtroppo, con la sua autostrada che la attraversa in tutta la sua lunghezza.
Si risale brevemente e, superati alcuni ruderi, si incontrano Casere Botteon, caratteristica costruzione che sembra una fortificazione più che una malga. Casere Piccin distano poco più di 500 metri, e successivamente Casere Marin, ormai ridotte a ruderi.

L'antica via romana

L'itinerario segue quella che per tradizione viene considerata la strada romana Claudia Augusta Altinate. Questa, partendo da Altino (VE) incrociava la Postumia, anch'essa via romana che traversa la zona a nord di Treviso, risaliva la riva sinistra del fiume Piave nei pressi di Susegana, passava sotto San Gallo, prendeva la valle del fiume Soligo e raggiungeva il centro di Follina. Da qui, proseguiva sulla destra orografica del torrente Corin, superava le Case Volpera, passava ad ovest di Valmareno, saliva Cal Maor

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e percorrendo la base della parte rocciosa di Croda Rossa, raggiungeva il passo di Praderadego.
Attualmente, il tracciato è ben visibile a partire nella zona di Croda Rossa, che si raggiunge dall'abitato di Valmareno per una comoda strada asfaltata che si lascia dopo circa 2 chilometri. Si sale a destra lungo una strada bianca, sino ad arrivare ad un piccolo slargo da dove si prende per il sentiero. I boschi di castagno osservati più a valle, lasciano il posto a specie come il carpino nero ed il faggio, che in certi tratti ombreggiano la via.
Il sentiero percorre a semicerchio l'ampia valle di Banche, si supera un curioso intaglio nella rocca a quota 625, e sempre in salita, alternata a falsipiani, si arriva sotto le strapiombanti pareti di Croda rossa.
L'aridità del versante influisce anche sulla vegetazione che, lasciate le rigogliose forme arboree, si manifesta con forme cespugliate e specie erbacee di tipo xerofilo.
Terminata la parte esposta del sentiero, ci si inoltra in una valletta, ove la vegetazione arborea riprende vigore, l'umidità si fa sentire e scarsa è la penetrazione dei raggi solari. Si salta sulla strada e si arriva al capitello di San Carlo: poco manca all' arrivo al passo. Si imbocca una specie di canalone che, in vicinanza del passo, si apre sui prati.
Oltre il passo, la strada passava per l'importante Castello di Zumelle ove attraversava il Piave, per incrociare, subito dopo, un'altra strada romana militare, la Feltre-Belluno, per raggiungere Cesio Maggiore.
Il percorso descritto sarebbe stato di tipo militare, perchè quello commerciale, invece, deviava da Soligo per Vidor, Fener, Seren del Grappa e Feltre.
Numerose sono le testimonianze di ritrovamenti romani lungo questa direttrice: la torre di San Gallo e la tomba romana trovata a case Volpera, con monete dell'imperatore Commodo, le tracce di una probabile torre al passo di Praderadego ed infine il basamento del Castello di Zumelle riconducibile all'epoca tardo-romana.
Lo stesso tracciato ha delle particolarità non riscontrabili in altri sentieri:
l'intaglio sulla roccia a quota 625, alcune rampe con larghi gradini sempre intagliati nella roccia, certi muraglioni di sostegno troppo larghi per l'attuale sentiero ed altri intagli ancora.


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