Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°7 - 1994 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane
MAURO PITTERI

I BENI COMUNALI DELLA VALDOBBIADENE NEL SECOLO XVII


Un grande storico francese ha scritto che "un sistema agrario non ècaratterizzato soltanto dall'ordine in cui si avvicendano le colture", poiché è anche il centro "di una complessa rete di norme tecniche e di principi di organizzazione sociale(1) Specie in montagna, in tutta Europa, l'antica preponderanza dell'economia pastorale ha dato sempre origine ad una vita comunitaria notevolmente diversa da quella della pianura e delle prime pendici collinari, che, tra l'altro, ha favorito a lungo la preminenza della proprietà collettiva rispetto a quella privata. Dunque, la stessa morfologia della Valdobbiadene ha determinato il consolidarsi di forme digestione della terra che hanno origine giuridica nei tempi del Comune trevisano. Dopo la conquista veneziana, è solo a partire dalla fine del secolo XVI che le autorità di governo si preoccupano di por mano a questa materia, con risultati che si discostano da quelli riscontrabili negli altri Stati italiani di antico regime(2).
La Repubblica ha avocato a sè ogni decisione sulla natura giuridica dei terreni utilizzati in comune dai vari villaggi del suo dominio, istituendo, nel 1576, un'apposita magistratura, quella dei Provveditori sopra Beni Comunali. Infatti, lo Stato veneziano ha rivendicato l'eminente dominio sui fondi pubblici, riconsegnandoli solo in utilizzo alle varie comunità rurali. Si tratta perciò di terreni demaniali concessi in uso ai residenti dei villaggi trevisani, senza alcun esborso di denaro, a patto che questi li mantengano ad uso di pascolo o di bosco, e vietandone espressamente la messa a coltura, a meno di specifiche deroghe, accordate caso per caso.
La prima operazione importante della nuova magistratura è stata quella


MAURO PITTERI. Laureato in lettere, ha pubblicato vari saggi sui beni comunali nel Veneto in riviste specializzate. È presente con saggi e articoli su Storiadentro (Conegliano) e in storie locali, prevalentemente del trevigiano nord-occidentale.

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di compilare un censimento di tutti i beni comunali esistenti nel Trevisano e nel Friuli, podestarie che ne erano ritenute particolarmente ricche. Elenco utile non solo per avere un quadro esatto del patrimonio regio, cui attingere in caso di necessità, ma soprattutto per combattere gli abusi, ossia gli "usurpi", le illecite appropriazioni di suolo pubblico operate da privati.
Nel 1605, i periti agrimensori al servizio della Magistratura veneziana sono arrivati pure nella vallata del Biadene, dove hanno interrogato i vari capovillaggio e gli anziani perché indicassero i beni utilizzati in solido dai comunisti. Se si eccettua Bigolino, dove han potuto perticare circa 225 campi di pascoli presso il Piave, negli altri villaggi si sono visti mostrare solo alte montagne e inaccessibili, tanto che non si sono potute misurare. Poche decine di campi a pascolo rimanevano nei pressi di Coldovré, Martignago e Zanzago; e una ventina nelle grave del Piave di Segusino(3).
I testimoni citati dai due patrizi incaricati di compilare il catasto, hanno però sempre affermato che nei monti a pascolare "vanno con tutta la vallada"; ad esempio, così accade per il monte Dola, giurisdizione di Col di Martignago, per il monte Curta di Barbozza o per il Col de Lep di Zanzago. Pur essendo attribuiti ai villaggi più vicini, in realtà, questi monti vengono pascolati da tutti gli abitanti della vallata, indistintamente; ossia, si tratta di una "comunanza", termine tecnico con cui si indica un terreno a disposizione di due o più comunità.
Infatti, circa 181 campi di pascolo vengono sì attribuiti a San Vito, ma anche alla "vallada", quasi a confermare che si tratta di terreni aperti al pascolo di tutti e non solo degli allevatori di quel villaggio. Dunque, ci troviamo di fronte ad una prima complicazione giuridica delle molte che riscontreremo in questo breve studio; esistono fondi demaniali che possono essere utilizzati da un solo villaggio ed altri dove tutti gli abitanti della vallata possono recarsi con i rispettivi animali.
L'atto amministrativo con cui la Repubblica affida l'uso dei beni comunali, l'investitura, rende ancora più movimentato il quadro. Per rispettare le consuetudini secolari in uso in ogni realtà locale, la legislazione veneziana permetteva ad ogni villaggio di continuare a "bandir per far fieno", ossia, distribuire delle quote di prato naturale da falciare a chi ne aveva diritto, ma su una superficie comunque non superiore ad un terzo di quella concessa in usufrutto. Le quote così ricavate venivano chiamate prese, e questo spiega, forse, la vasta presenza di questo toponimi in tutto il Veneto. Ogni anno, dovevano essere ridistribuite e "sopra quelle gettate le sorti", così da evitare che ad una famiglia toccasse sempre lo stesso appezzamento. In questo modo, si vuol impedire che "alcun non possa mai appropriarsi alcuna minima parte di detti comunali" perché posano goderne tutti quelli "che hanno loco et foco nella villa" e che contribuiscano solidarmente al pagamento delle "pubbliche fationi", le imposte dell'epoca raccolte in ciascun villaggio.
Ecco spiegato il perché dell'assegnazione ad ogni singola villa di un

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monte. Quando il pascolo è aperto, tutti possono condurvi il bestiame; ma quando occorre chiudere una parte per ricavarne le prese da segare, solo i membri di quella comunità possono partecipare al sorteggio. Inutile dire che proprio la restituzione dell'appezzamento avuto in usufrutto sia una della clausole più disattese del privilegio d'investitura. Ottenuta la pezza prativa, molti vi hanno edificato una stalla, piantato delle viti o dei gelsi e non si son curati di riaprirla al libero pascolo una volta falciata l'erba. Difatto, le famiglie l'hanno considerata come fosse di loro piena proprietà.
Essendo particolarmente complicata la situazione giuridica dei pascoli della vallata, spesso i Magistrati veneziani hanno inviato sul posto propri periti agrimensori che han prodotto delle mappe d'insieme del territorio valdobbiadenese. Una delle più belle e interessanti è del 1635, disegnata per tentare di risolvere una vertenza che vede contrapposte le regole di Barbozza e Zanzago e Bartolomeo Righini, componente di una delle famiglie più ricche della vallata(4). Si tratta di stabilire una volta per tutte i confini fra terra pubblica e privata, così da verificare la liceità della proprietà Righini o invece la sua eventuale riapertura. Nella mappa, il perito schizza realisticamente in prospettiva tutti i villaggi della valle, dominati da una grande montagna, indicata come "monte Suvignana che si pascola da tutta la vallada". Tra la linea di fondov alle e la sommità del monte, vengono individuate varie fasce di suolo a seconda della sua destinazione d'uso. La prima, quella più a valle e prossima ai villaggi, comprende i terreni di proprietà privata, quasi sempre ridotti a coltura. Da qui, si sale per ritrovare la seconda fascia, delimitata ai due lati esterni da altrettanti boschi pubblici, dunque anch'essi di proprietà demaniale ma concessi in utilizzo ai comunisti; uno è chiamato Col Longo e si trova in prossimità di Ron, l'altro, il bosco di Curta, sta nelle pertinenze di Barbozza e Zanzago. Essi erano già stati censiti a metà '500, quando al loro interno allignavano più di un migliaio di querce del tipo rovere, riservate all'arsenale di Venezia per la costruzione delle navi.
Tra queste due selve, vengono tratteggiati dei prati "ad uso di fieno", chiusi al pascolo e riservati alla falciatura. Qui si trovano le prese dei vari villaggi e difatti vengono schizzati tre comunisti muniti di falce nel classico atteggiamento di chi sta segando l'erba. Poco discosta da loro viene indicata una stalla, loro rifugio in caso di intemperie ma anche fienile e ricovero per gli animali. Riprendendo a salire il pendio, si arriva ad una nuova fascia, dove viene apposta una dicitura poco chiara, ma che allude certamente ad un "pascolo comunale" che ha quattro nomi di cui sono leggibili "Col Longo" e "Pianezze". In questa parte del monte Sovignana è possibile incontrare del bestiame lasciato al pascolo, tanto che il nostro perito ha disegnato delle pecore, poi due animali somiglianti a dei cavalli o a dei muli ed infine alcuni bovini mentre brucano l'erba. Poco distante e sulla stessa linea, è segnalata una sorgente che alimenta un corso d'acqua che scorre verso il bosco di Curta, probabilmente un afferente del rio Tormena; ed infine "un terreno di

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beni particolari".
Ancora più in alto, viene evidenziata un'altra fascia di suolo divisa in nove sezioni, tante quanti sono i villaggi a fondovalle, designate come "rate di monte delle ville di VaI Dobiadene a uso di fieno" e perciò quote di prati naturali ripartite fra le varie regole. Infatti, in quest'area non vengono schizzati armenti ma di nuovo dei paesani in atto di falciare. Finalmente, si guadagna la sommità del monte, dove pecore e vacche possono nuovamente pascolare indisturbate. Completano il quadro d'insieme stalle e "caselli", piccole costruzioni in legno, disseminate di qua e di là, lungo le pendici del monte Sovignana.
In modo suggestivo, come una sorta di istantanea, la mappa descritta rimanda all'utilizzo dei monti comunali durante l'antico regime. Anche se ridotti d'estensione rispetto al periodo comunale, nella montagna trevisana allignano ancora boschi di roveri e di castagni che però, in buona parte, hanno lasciato il passo ai prati naturali, divisi in prese e chiusi prima del taglio, ai pascoli perennemente aperti, ma anche a coltivi cinti di fossi odi siepi, tenuti a cereali; oppure a rive ove si inerpica la vita a sostegno vivo. L'uso comune si mescola con quello privato, spesso, entrambi praticati da chi si è ritagliato un appezzamento da dissodare mentre portava gli animali al pascolo pubblico o faceva legna nel bosco comunale. Il modo e i tempi di questo frammischiarsi fra individualismo e gestione collettiva vengono regolati da antiche consuetudini, da leggi della Repubblica, ma, soprattutto, dai rapporti di forza esistenti all'interno di ogni comunità.
Esclusa la cima crodosa e sterile, tutto il monte Sovignana è suddiviso in nove sezioni, ed è forse questo lo scopo precipuo per cui è stata redatta la mappa appena descritta; stabilire, sia pure in linea di masima, la porzione di prato naturale da assegnare ad ogni villaggio per la ripartizione in prese fra i suoi residenti, lasciando il rimanente al libero pascolo, aperto a tutti quelli della valle.
Il disegno non scioglie tutti i nodi giuridici, anzi. Infatti, non viene chiaramente identificata la separazione fra il suolo di eminente dominio della Repubblica e quello, sempre di uso collettivo, ma di pieno possesso delle comunità vi villaggio, terreni che gli stessi contemporanei definivano beni comuni per distinguerli da quelli comunali. Problema questo che si pone per tutte le aree montane, comprese quelle di Segusino, di Vas e della Valmarino che si vedono qui tracciate rapidamente sullo sfondo del Sovignana.
Aiuta meglio a comprendere la distinzione fra beni comuni e comunali, un sondaggio effettuato fra i protocolli di un notaio che ha rogato nella vallata per tutto lo scorcio del secolo XVIII(5). Le carte confermano come i contadini che hanno ricevuto una presa non l'abbiano più restituita all'uso pubblico, rivendicandone il dominio utile perpetuo grazie ad una speciale concessione regia. In pratica, mentre il dominio diretto della presa rimane di proprietà della Repubblica, quello utile diviene di chi l'ha ricevuta, senza che

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questa venga più restituita alla regola, come vorrebbe il privilegio d'investitura, che così ne può disporre liberamente, fino ad alienarla. Ad esempio, nel 1662, un trevisano acquista da un Francesco Cecotto di Martignago "tutte le ragion di fatiche ch'esso ha e haver potesse sopra un pezzetto di terra comunale giarosa incolta et infertile di sua quantità con nuove piantadelle", sulle pendici del monte Curta, con la clausola che "sia sempre salva et riservata la proprietà del diretto dominio di Sua Serenità(6)".
In pratica, i miglioramenti apportati al suolo, chiamati "ragion di fatiche", appartengono a chi lo ha lavorato, dissodandolo e seminandovi cereali o piantandovi viti novelle. Molti altri contratti di compravendita contengono una clausola analoga, ossia, che "è salvo però et sempre riservato el diretto dominio a Sua Serenità(7).
Sicuramente, la cessione delle migliorie è contraria alle disposizioni di legge, poiché la Repubblica aveva concesso una deroga al divieto della riduzione a coltura solo per soccorrere i più poveri, i "pisnenti" dei vari villaggi; se si aliena il dominio utile, quell'intento viene meno. Col passare del tempo, la consuetudine di disporre di quegli appezzamenti come se il domino utile fosse di privata proprietà ha prevalso sulle leggi dello Stato, tant'è che il notaio non si preoccupa delle conseguenze che potrebbe sopportare per aver pubblicamente registrato una compravendita illegale. Evidentemente, i villaggi della vallata pretendono di godere particolari privilegi, poiché nessun censo annuo viene corrisposto al Principe detentore del dominio diretto, mentre il ricavato continua ad essere esente dall'imposizione fiscale, essendo quei fondi di natura demaniale.
In questo modo, vien quasi meno la distinzione fra proprietà privata e pubblica. Infatti, ad esempio, nel 1688, alcuni privati di Zanzago assieme ad un loro appezzamento prativo nel Pian di Farné con stalla, alienano pure "certa ragion di terra comunale(8)". E solo uno dei tanti esempi di contratti di questo genere. Oramai, i proprietari di appezzamenti in monte, magari acquisiti in passato a seguito di usurpi, considerano di propria assoluta disponibilità la confinante quota di pascolo pubblico, tanto che si sentono in diritto di venderla assieme al loro fondo, senza incontrare opposizione alcuna. In sostanza, sembrano effettivamente aperti all'uso comune solo i pascoli più elevati, mentre le prese di erba da sfalcio sono divenute praticamente di dominio di chi è riuscito ad ottenerle parecchio tempo addietro, mentre avrebbero dovuto essere annualmente redistribuite mediante sorteggio.
Ma le carte del notaio offrono ulteriori sorprese; infatti, sono le stesse regole dei vari villaggi ad affittare al miglior offerente le prese prative. Ciò significa che assieme ai campi di proprietà regia ne esistevano alcuni di pieno possesso di una o più regole della vallata, ossia, beni comuni. Nel 1679, quelli di Funer, che non risultano disporre di beni comunali, poiché non sono registrati dal catasto del 1605, mettono all'incanto le prese del monte Cao di

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Tro per "la porzione spettante alla villa per due anni". E nel 1677 un'asta analoga avevano effettuato i regolieri di San Vido(9). Nonostante appartenga a tutta la vallata, lo stesso monte Sovignana vien affittato da quelli di Pieve e Martignago ai conti Pola(10); e ciò favorisce la penetrazione dei privati che riescono ad aggiudicarsi le quote migliori del terreno, come, ad esempio, quelli che, nel 1673, hanno stalle e prati nelle "Pianezze comunali(11).
In questo contesto si spiega la frequenza delle liti per questioni confinarie, poiché non si riescono più a distinguere gli esatti limiti fra i vari villaggi. Il tutto poi è stato complicato dalle alienazioni di beni comunali operate dalla Repubblica a partire dal 1646, per far fronte alle spese notevoli sostenute contro i Turchi durante le guerre combattute a difesa di Candia e della Morea.
Dunque, in questa congerie di elementi resa complessa dalla sedimentazione di vari interventi legislativi, che si sovrappongono l'un l'altro, si mescolano beni comunali, comuni e di privati, più o meno legalmente detenuti.
Le vicinie pretendono di amministrare economicamente i pascoli posseduti, senza preoccuparsi di verificare se ne avessero effettivamente diritto, protestando la lunga consuetudine a chi glielo contestasse. Così, occorre pagare un pedaggio per condurre gli animali nei fondi pubblici. Infatti, ad esempio, nel 1687, i villaggi che detengono le prese a prato sul monte Cao di Tro eleggono dei provveditori col compito di riscuotere il denaro da chiunque vi conduca bestiame al pascolo, ovviamente dopo il taglio del primo o del secondo fieno. Con il ricavato si pagheranno "le pubbliche gravezze", le imposte dovute solidarmente da quei villici al Governo, "acciò che ogni persona di che condition et grado esser si voglia ne sia per sentir utile". In questo modo, riceve un beneficio maggiore chi avrebbe dovuto contribuire con una quota più alta, perché bastevolmente ricco. E solo in apparenza uniforme la distribuzione degli utili ricavati dalle prese, perché, in realtà, sono i più agiati a trarne profitto, aggiudicandosele all'incanto ed evitando di pagare le imposte. Poi, sarà compito di questi provveditori impedire "il pascolo de le prese" dal 25 marzo fino al giorno di Ognissanti e "d'impedir ancora che animalli d'altre ville non pascolino sopra detto monte(12)".
Con queste disposizioni si vuole preservare l'erba estiva dal morso e dal calpestio per ricavarne buon foraggio; e ribadire che solo i residenti della vallata hanno diritto a condurvi animali, anche se solo dopo il pagamento di un censo per ogni capo.
In teoria, anche il monte Sovignana è aperto a tutta la vallata, ma, come si è già notato, anche i suoi prati naturali vengono affittati. Nel 1687, per meglio tutelarne i diritti d'uso, i rappresentanti delle varie regole vengono riuniti dal parroco di Bigolino davanti ad un notaio per decidere ufficialmente come "impedir alli danni che vengono inferti ne' luochi boschivi, tagliando della legna, e ne' pascoli con bestiame" proveniente da altre

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località. Poi, occorreva reagire alla "usurpation che facesse il comun di Vas nella vai Scaletta"; ed infine bisognava stabilire i metodi più opportuni "per astringer tutti quelli che hanno mandato li suoi animali nel monte di Sovignana l'anno passato, al pagamento(13)".
La penuria sempre maggiore di pascoli aperti e di prese prative, spesso usurpate e ridotte a coltura, è un'ulteriore spiegazione della frequenza di scontri che vedono contrapposti comuni fra loro e contro i privati, come, nel 1695, quello fra Barbozza e il patrizio Condulmer. Questi rivendicava diritti di proprietà su terreni che invece il villaggio sosteneva di aver ricevuto direttamente dalla pubblica clemenza del Senato(14).
L'assetto della proprietà del monte Sovignana si complica ulteriormente a partire dal 1670, quando il nobile Martignago vi acquista una parte delle 14 molte, forse, termine che sta ad indicare le quote in cui era ripartito il pascolo delle pecore, assieme ad un censo "che annualmente si scode dalli pascolatori per ogni sorte de' animali(15)". Il titolato trevigiano continuerà per molti anni ad impadronirsi di porzioni dello jus pascendi(16), forse di origine feudale, così intricando ulteriormente lo stato giuridico di quella montagna brulicante di uomini e animali.
Al di là della questione di chi sia l'effettivo titolare dei beni di montagna, ciò che conta è il loro uso e chi lo detenga. Infatti, la legislazione veneziana stabiliva che in ogni caso i monti dovevano essere lasciati a pascolo e bosco, essendone vietati i dissodamenti. In realtà, le cose procedono diversamente.
Nel 1639, i Provveditori inviano il loro notaio in queste contrade per appurare come vengano effettivamente utilizzati i beni del demanio e se venga rispettato il privilegio d'investitura, specie per quel che riguarda la redistribuzione delle prese, col potere di citare come testi i capi e gli anziani dei vari villaggi. A Venezia, interessava soprattutto sapere se vi fossero usurpi, se venissero affittati parte dei terreni e l'impiego dell'eventuale guadagno in denaro. Poi, i criteri adottati nella distribuzione delle prese, specie di quelle ridotte a coltura, dietro concessione del Senato, nel 1577, che però dovevano essere distribuite solo ai più poveri mediante sorteggio annuale, rimanendo comunque proibita la coltivazione di piante arboree. Ed infine, appurare se la riduzione a coltura di parte di quei monti abbia arrecato danni al libero fluire delle acque ed in particolare degli afferenti del Piave.
L'inchiesta in qualche modo conferma la vocazione all'allevamento di bovini e alla pastorizia di queste contrade. Il notaio veneziano raccoglie anche dei dati riferitigli dai vari testi che ha interrogato e che perciò non sono il risultato di un vero censimento, ma che tuttavia possono offrire delle utili indicazioni.
Bestiame allevato sui beni comunali da alcuni villaggi di monte della Valdobbiadene.

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villa grossi minuti
Barbozza 100 400
Col di Martignago 40 200
Bigolino 600 300
Coldovré 50 290
Guietta 150 1.000
Ron 120 300
Pieve di Martignago 60 350
San Stefano 100 200
Totale 1.320 3.040

Anche se sono da prendere con beneficio d'inventano, perché dati indicati da testi interessati a celare il vero quantitativo di bestiame, temendosi sempre interventi del fisco, e che per di più fanno appello alla sola memoria, le informazione raccolte sembrano indicare una prevalenza delle pecore in tutti i villaggi, ad eccezione di Bigolino, che è quello disposto più a valle. Qui, l'alto numero di bovini denuncia la presenza di fertili prati, tanto che quella regola ne separa una parte dagli altri, chiudendola con un fossato per difenderla dal calpestio degli animali. Poi, l'erba viene messa ogni anno all'asta e con il ricavato si corrispondono "le angarie che fa bisogno pagar a detta villa(17)". Dunque, non si tratta di prese prative distribuite mediante sorteggio, ma bensì affittate annualmente. A San Stefano, cinque campi siti al Pascolo del Cartizze, oggi altrimenti famoso, sono stati delimitati da un fosso "per salvar le erbe che li animali non le mangino" per essere anch'esse probabilmente rivendute. Anche a Barbozza, "le prese da segar" vengono affittate all'incanto e con le lire incassate si fa fronte alle esigenze del fisco.
Tuttavia, più si salgono le pendici del monte Sovignana, più si diradano le quote di prato naturale e aumentano i pascoli aperti tutto l'anno. Infatti, nel 1659, forse con qualche esagerazione, quelli di Guia sostenevano che il loro monte, esteso 400 campi, si era così isterilito da potervi condurre solo "animali menuti". Nel 1635, il meriga di Barbozza affermava che i pastori del villaggio "vanno a pascolare sul bosco di Curta" e "nella montagna di Sovignana la quale pascola tutta la vallada". Ed anche a Zanzago quelli rimasti vengono goduti tutti in comune. Tuttavia non sempre il loro uso ègratuito. Ad esempio, a Col di Martignago ogni allevatore deve pagare al comune "doi o tre lire se voleva andar a pascolo" che servivano per pagare le spese della lite contro il vicino villaggio di Bigolino. E già nel 1628, a Segusino, per far fronte ad un'altra vertenza di tipo confinano, i pascoli migliori vengono suddivisi in prese poi concesse a chi sborserà cento lire annue d'affitto; chi invece ne anticipava 50 riceveva mezza presa. Il sistema funziona in modo così proficuo che verrà ripetuto nel 1649, "peri! benefitio delle campane da farsi al presente et per restaurar il campanile(18)". Addirit14
tura, non essendo sufficiente il denaro ricavato dal solo uso annuale delle erbe si è passato a venderle ai privati per periodi più lunghi di tempo. Gli acquirenti "in quel monte abbino a godere secondo l'ordinario e consueto dell'istesso comune, qua! è di segare un anno la parte di dentro e l'altro la parte di fuora, dovendo quella parte che non è segata quell'anno nimaner ad uso di pascolo e così successivamente(19)".
Dunque, spesso i pascoli erano solo nominalmente aperti tutto l'anno al libero vagare degli animali poiché quasi tutte le comunità di villaggio ne delimitano una parte per affittarla.
Ciò che però interessava di più al notaio veneziano era appurare l'effettiva estensione della superficie lavorata a colpi di zappa, perché, se troppo ampia, avrebbe potuto compromettere il delicato equilibrio idrologico del bacino del Piave.
Schizzata nel 1637 per dirimere questioni confinarie, una mappa del territorio di Segusino ne descrive l'abitato attorno alla chiesa parrocchiale, poi i monti definiti "beni comunali" e in mezzo un'ampia fascia di terreni dove viene apposta la dicitura "zapati". La pratica è alquanto diffusa. Il meriga di B arbozza ammette che "si sappa su li monti del nostro comun come poveretti" e, del resto, lui stesso si è impadronito di "un puochetto de terra sappada" e su di un altro appezzamento ha "impiantato alcune vide, cioè vinti". Egli sembra considerare lecito il suo operato, perché afferma di conoscere "diversi che ne sappano, quasi tutti ugualmente, tanto ricchi quanto poveri godono delli sappati che sono beni comunali". In realtà, si contravviene doppiamente alla legge veneziana che limitava l'uso delle prese zappate ai soli poveri e per la sola coltura del suolo. Invece molti si sono fatti lecito di impiantare viti e gelsi poiché erano evidentemente sicuri di mantenere a lungo il possesso della terra ricevuta in usufrutto. Infatti, ancora, il meriga di Barbozza conferma che su quei terreni "non si buttano le sorti, ma quelli che sappano se li godono in sua particolarità".
La mancata redistribuzione annuale delle prese è confermata dal meriga di Coldovrè, quando fa notare che "se si buttasse le sorti non si cavarebbe cosa alcuna", perché nessuno dissoderebbe un terreno senza essere sicuro di godere poi dei frutti della propria fatica. A Ron, viene "sappato, arato e impiantato" un intero "monte comunale", dove, in pratica, le prese vengono assegnate sempre alle medesime famiglie come se fossero di loro piena proprietà. La stessa cosa accade a Guia, dove "ognuno ha la sua porzione chi in un luoco e chi in un altro et alli tempi andati toccarono in sorte alli antenati delli suddetti", facendo presupporre addirittura uh passaggio d'uso per via ereditaria del suolo pubblico.
Nel 1639, la regola di Guietta ha fornito al notaio veneziano l'elenco di tutti gli appezzamenti dissodati sui beni comunali, a volte specificando pure il genere coltivato. A colpi dì zappa si fanno allignare soprattutto cereali inferiori, che meglio resistono al freddo e bene attecchiscono in terreni poco

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fertili; così, in quelle prese protette da fossi ma a volte anche da siepi, troviamo soprattutto "formenton" e "sorgo rosso", ossia grano saraceno e saggina. Sono pure presenti colture arboree, viti un po' dappertutto, a sostegno vivo oppure "piantà alla refusa"; ma anche castagni o "polli de castegnari", qualche noghera, dei "salgheri" e dei "talponi", ossia i pioppi. E non mancano "piedi de olivari", coltivati assieme alle viti o da soli e anche in modo intensivo, come dimostrano i 116 sempreverdi che un Bortolomio Girotto ha in un solo campo assieme ad "una vigna piantada de vide et arbori(20)".
È probabile che tale varietà culturale sia diffusa in tutte le ville della vallata. Infatti, sempre nel 1639, a San Vito, si è deciso il sequestro del ricavato da 46 campi messi iliegalmente a coltura, che è ammontato ad 11 botti di vino, 24 sacchi di frumento, 27 di mais, 9 si sorgorosso ed infine uno solo di avena.
Visti gli ottimi risultati è scontato il lento ma inarrestabile dissodamento del patrimonio boschivo. Ancora nel 1682, un Zuanne Rachin di Segusino, assieme al figliolo, "si è preso ardire e autorità di tagliare e ha fatto tagliare più di 50 piedi roveri de' grandi e ogni sorte nel Covolon"; poi, ha "anco tagliato sette in otto morari grandi d'un pover"omo", il tutto "senza timore di giustizia e castigo". Inoltre, "ha usurpato una gran quantità di terreno comune et tagliatovi diversi piedi di castagnari". Non si tratta di un caso isolato. Infatti, sempre a Segusino, un Piero Furlan con quattro figlioli "prepotenti et arrogantissimi" ha tagliato "da quattro in sei piedi di roveri grandi e grossi in la Fratta" e per di più ha usurpato "una gran quantità di terreno communale con il disboscare e cavar diversi piedi di castagnari grandi et grossi". Questo porta "gran danno alli poveri di Vostre Eccellenze da quali castagnari si sostengono qualche tempo". Come se non bastasse, da più di 30 anni quella famiglia ha usurpato un terreno comunale dove ha fabricato "una fornase da calcina a causa della quale ha cavato e brugiati più di cento piedi di castagnari et anco han cavato una quantità di nogari parte nel communale con gran pregiudizio e danno de' sudditi(21).
Questa denuncia è la spia di un aspro conflitto all'interno della comunità di Segusino per la gestione dei boschi, bene raro e prezioso, così importante per offrire d'inverno nutrienti castagne e noci, specie nelle annate di carestia.
Poi, non manca chi lamenti l'avanzare dei coltivi a danno dei pascoli e dei prati naturali. Nel 1639, sono proprio dei pastori che denunciano i danni arrecati al Piave dal dissodamento dei monti al notaio veneziano incaricato di appurare l'esatta condizione dei comunali. Così, un Vettor Zardin di Col di Martignago sostiene che lo zappare "fa gravissimo danno non solo alla Piave ma anco alle campagne et anco alle ville che mena giù materia che per il sappar si move dalli monti e che causa gran rovina. Conclude la sua interessata deposizione sostenendo che "se non si sapasse sarebbe molto meglio et non si contentano del solo campo che il Principe li concede, che ne

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godono delli altri". Per taluni, i danni arrecati all'allevamento sono così gravi "che non si sa dove andar a pascolar; e per il sapponar" le acque "portano giù tutta la materia che è saponata e resta il nudo sasso e li nostri animali morono quasi di fame". Ancora a Segusino, però nel 1651, due pastori sostengono che coltivare i pascoli "sì che reca danno a tutti che si andranno drieto così, si converranno mangiare le vacche secche a vinti soldi la lira"; ed un altro lamenta che "gli animali non sano dove andare a mangiare avendo tolto fuori il pascolo".
Questo scontro vede naturalmente schierato dalla parte opposta chi coltiva le prese; ad esempio, a Col si sostiene che avere a disposizione "monti e grebani senza qualità", tanto che i membri di quella comunità sono "tutte persone bisognose e povere che non hanno di che vivere". Possono sperare di mantenere dignitosamente se stessi e la propria famiglia grazie all'uso di quelle strisce di terra comunale. Del resto è vero che "sarebbe meglio lasciar star de sappar et lasar venir pradi perché dalli animali si caverebbe più frutto". Tuttavia, senza quel fazzoletto di terra tenuto a cereali e vite, molti "non potriano sostenersi e continueriano ad abbandonar il paese". È proprio il meniga di Guia a cogliere con sorprendente lucidità quantosiano indispensabili i beni comunali,sia quelli lasciati al pascolo che quelli zappati, per impedire l'emigrazione definitiva dalle montagne e il loro conseguente spopolamento; e questo sì avrebbe causato il degrado di tutta la pedemontana.



NOTE

1) Cfr. M. Bloch, I caratteri originali della storia rurale francese, trad. it. Torino 1973, p. 42.
2) Sull'argomento per altro complesso dei beni comunali misi permetta di rinviare a due miei
brevi saggi da cui sono ricavate alcune di queste note: La politica veneziana dei beni comunali
(1496-1 797), in "Studi Veneziani", N.S., X (1985), pp. 57-80. E L'utilizzazione dei beni
comunali della podestaria di Treviso nel XVII secolo, in "Studi Trevisani", n. 7 (1988), pp.
9-33.
3) I cosiddetti "catastici" dei beni comunali del Trevisano sono conservati in Venezia,
Archivio di Stato, Provveditori sopra Beni Comunali, registri 276-7 8 e 225-27 (disegni).
4) La situazione dei villaggi di Col, Barbozza, Zanzago e Saccol è approfondita in un mio
saggio che sarà edito in un volume dedicato a San Pietro di Barbozza a cura di G. Follador,
di cui qui si danno alcune anticipazioni.
5) Si tratta del notaio Zorzi dalla Costa quondam Paolo che roga nella seconda metà del secolo
XVII. I suoi protocolli, sono conservati in Treviso, Archivio di Stato, Notarile I, buste 3865-
69.
6) Ivi, b. 3865, prot. A, 22 ottobre 1662.
7) Ivi, b. 3869, prot. 5, e. 64, 5 luglio 1697. Si tratta di un appezzamento situato a Coste di
Barbozza.
8) Ivi, b. 3866, prot. P, e. 163.
9) Ivi, b. 3867, prot. H, cc. 130 e 234.
10) Ivi, b. 3866, prot. L, cc. 8 1-82.
11) Ivi, b. 3866, prot. L, e. 38. Qui sono riscontrabili numerosi altri esempi simili a quello
citato.

12) Ivi, b. 3866, prot. N, cc. 380-82.
13) Ivi, b. 3866, prot. D, e. 288.
14) Ivi, b. 3866, prot. R, cc. 14-15. Nel 1695, la vicinia di Barbozza aveva "posto parte di
constituire un procuratore" per rimediare al tentativo operato dal patrizio Domenego
Condulmer d'impossessarsi di beni comunali, dandogli facoltà di recarsi a Venezia per
difendere i diritti del villaggio.
15) Nel 1670, un Antonio Righini cede al nbobile Girolamo Martignago "tutte le ragioni
ch'esso Antonio si ritrova sul monte Sovignana, cioè la sua portione delle 14 molte che
annualmente si scodono dalli pascolatori del monte" per lire 100. Lo stesso fanno un altro
Righini, Anzolo, per lire 52 e i consorti Mazzolini ancora per lire 100. Ivi, b. 3865, prot. B,
cc. 395-97.
16) Nel 1671, dei Fomaro di Martignago cedono sempre al nobile Girolamo "tutta la loro
portione delle quatordeci molte che annualmente li consorti delle molte riscodono dalli
pascolatori del monte Sovignana" per lire 40. Nello stesso anno acquista la quota ditali molte
da Vettor Florian (ivi, b. 3865, prot. C, cc. 2 e 33). L'anno dopo, è la volta dei Bottoia di
Martignago che cedono "il gius e portione" loro spettante di queste molte (ivi, prot. D, e. 52).
E nel 1679, un Donà Fabris vende "l'ottava parte d'un piede delle molte". Ivi, b. 3867, prot.
H, e. 233.
17) Venezia, Archivio di Stato, Provveditori sopra Beni Comunali, b. 334.
18) Ivi, b. 341.
19) Ibid.; quelle erbe sono state vendute per 2.443 lire.
20) Nel mio L'utilizzazione cit., pp. 32-33, l'elenco dei detentori delle prese zappative di
Guietta e le altre indicazioni qui riportate.
21) Venezia, Archivio di Stato, Provveditori sopra Beni Comunali, b. 341. Qui, nel fascicolo
Segusino, entrambi gli episodi citati.
22) ivi, b. 280.

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