Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°6 - 1993 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane
ALDO TOFFOLI

Minima Flaminiana - 1

A SERRA VALLE UN PALAZZO "CHE PARLA"


Palazzo Cesana della (o di) Piazza è tra i bellissimi di Piazza Flaminio, e tutti i vittoriesi - i serravallesi in particolare - hanno salutato con gioia il suo restauro, che lo ha salvato da una rovina che era facile pronosticare prossima:
tale era, e tanto evidente, il livello del suo degrado. Resta ora in molti un filo di perplessità, perché è chiaro che chi ha curato la ripulitura e il trattamento di conservazione del volto esterno del Palazzo, quindi soprattutto delle sue due facciate principali, a sud e a est, una volta messo in luce quello che resta dei primitivi intonaci e delle antiche decorazioni non ha "osato" fare il passo ulteriore, che pure ci si sarebbe attesi, del restauro integrale della facciata, beninteso con la salvezza della struttura e degli spazi di interesse storico e! o artistico. Ma non è questo il tema di cui qui si intende trattare. Lo spunto per questa nota è suggerito dalla singolare abbondanza di messaggi che dalle facciate di Palazzo Cesana emergono, e il tentativo è di interpretarne il senso.
Palazzo Cesana è un palazzo "che parla": le sue facciate, infatti, riportano numerosi detti di varia origine, simboli, medaglioni. È evidente che chi ha costruito l'edificio intendeva da esso, o meglio, con esso, dire qualcosa. Che cosa?
La risposta all'interrogativo è difficile, perché l'ingiuria del tempo ha provocato danni irreparabili e reso alcune parole indecifrabili; e alcuni problemi preliminari non trovano, al momento, soluzione compiuta. Si veda, ad esempio, la data di apposizione delle lapidi e delle scritte: non è da escludere che si tratti di date diverse, ma solo una approfondita analisi dei materiali potrebbe darci risposte certe. Per ora possiamo, su tale problema,


ALDO TOFFOLI scrittore di poesia, di letteratura e di storia, autore di numerose pubblicazioni. Da sempre è impegnato nel mondo della politica e della cultura locale.

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avanzare solo ipotesi, con indice vario di attendibilità.
Nel tentativo di decifrare e interpretare quello che il Palazzo Cesana intende "dirci" con le sue scritte e i suoi segni, dobbiamo quindi essere prudenti.
L'ipotesi di lavoro da cui parto - che comunque mi sembra anche la più fondata - è che le scritte e i vari simboli siano stati apposti alle facciate del palazzo nel corso della sua costruzione, e che quindi i messaggi che dal Palazzo si esprimono abbiano cominciato a "parlare" fin dal primo apparire della magnifica costruzione sulla Piazza maggiore di Serravalle.
Il raccoglitore e propositore dei messaggi, la cui voce ascoltarono i serravallesi che per primi videro il Palazzo, è colui che il Palazzo fece costruire e per primo lo abitò: Donato Cesana.
Se dobbiamo credere al più attendibile degli storici di Serravalle, mons. Carlo Laurenti(1), autore delle Memorie che possono essere di qualche uso per la Storia di Serravalle, Donato Cesana - della nobilissima e vasta famiglia comitale le cui radici note risalgono, nel Trevigiano e nel Bellunese, al sec. XII - apparteneva ad uno dei tre rami della famiglia (i Bonaccorsi, i Dal Colle e i Mozzi) che dal '400 si trasferirono a Serravalle.
Il Laurenti specifica che le famiglie dei Cesana Mozzi a Serravalle erano due: quella dei Ce sana Mozzi della Riva e quella dei Cesana Mozzi di Piazza, così chiamati questi ultimi proprio dal Palazzo costruito sulla Piazza Maggiore da Donato. Ma non è qui il caso di impigliarsi nelle complicatissime questioni riguardanti la storia dei Cesana, che forse non saranno mai dipanate.
Fermiamoci a Donato.
Donato Cesana, figlio di Piero, visse a Serravalle nel tempo in cui Giovanni Antonio Flaminio(2), padre di Marcantonio(3) vi esercitò la sua attività di pubblico maestro(4), ed ebbe con lui rapporti molto cordiali. Entrambi fecero parte del Serravallese Collegio dei Notai e collaborarono in due successive occasioni(5) alla revisione dello Statuto del Collegio. Il Flaminio traccia del Cesana un bel ritratto, in un carme latino indirizzato al figlio di Donato, Tito, quando gli perviene la notizia della morte di suo padre. Il carme, pur non sfuggendo, qua e là, a certa enfasi, è sostanzialmente sincero nelle sue espressioni di amicizia e di rimpianto per l'amico scomparso, cittadino di quella Serravalle a cui il Flaminio si sente ancora profondamente legato.

  AD TITUM CAESANUM SERA VALLENSEM
Nuncius infelix nostras modo perculit aures:
Et gravis invasitpectora pulsa dolor,
Carpere non dulces huius Tite luminis auras
Amplius atque tuum luce carere patrem.
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Quod simul accepi constansque hoc fama secuta est,
Scriptaque fecerunt undique missa fidem
Non secus indolui quam charifunerefratris.
Et nostrae lachrimis immaduere genae.
O quali infelix, et quanto orbatus amico
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Ingratum vitae nunc ego tempus ago.
Solvitur hoc omnis iam pene obducta cicatrix
Vuinere crudescunt et mala nostra magis.
Defuit hoc nostris unum tot casibus actis.
Hic demum cumulus debuit esse malis.
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0 qualem cives civem lugetis amici.
O qualem immo aetas perdidit ista virum. Sed nullum tangit clades, nullique dolenda est
Ista magi laute(' quam Seravalle tibi.
Hic tua concussit magis edita moenia longe:
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Quam modo, cum bello pulsafuere gravi. Arx Donatus erat tibi munitissima, firmum
Praesidium, et nullo tempore quassafides.
Quando ullum invenies similem tibi? tamque colendum? Quando ullum invenies Mesuli terra parem?
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0 rara probitate virum: quem laude perenni Posteritas omnis non tacitura ferat.
Vulneris istius vis ingens, maxima cladis
Accepta plaga est vix toleranda tibi:
Ut desyderio: tibi quod succrescere in horas
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Credimus: et lachrymis vix queat esse modus. Quidfaciam? Solerne tuum Tite chare dolorem?
Atqui: nefaciam: non sinit ipse dolor.
Est etiam nobis nimis alte vulnus adactum:
Nec quam te clades me minus ista premit.
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Talia scribenti lachrymarum flumine largo Ingruit: ac prohibet scribere plura dolor(7).

A Tito Cesana Serravallese

Una triste notizia mi ha or ora raggiunto e un grande dolore ha invaso il mio cuore straziato: tuo padre, o Tito, non respira più l'aria di questo mondo e per lui la luce si è spenta.
Appena ebbi l'annunzio, e la voce diffusa e le lettere pervenutemi da ogni parte lo confermarono, ne soffrii come per la morte di un amato fratello, e il mio volto si bagnò di lacrime.
E ora vivo una ben triste stagione della mia vita, privato di un amico, ahimè, quanto buono e quanto caro!
Per questa ferita si riaprono ora nel mio cuore le piaghe che si erano appena chiuse, e crescono i miei mali.
A tutte le disgrazie che mi hanno colpito mancava questa sola: questa doveva essere alla fine il colmo delle mie pene.

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O quale grande concittadino piangete, cittadini amici miei! Meglio: quale uomo ha perduto questo tempo!
Ma questa perdita non colpisce nessuno, da nessuno può essere pianta più che da te, o splendida Serravalle!
Questa notizia ha squassato le tue alte mura molto di più di quanto è accaduto poco tempo fa, quando furono percosse da una tremenda guerra.
Donato era per te una rocca munitissima, una solida difesa, una garanzia in nessun tempo messa in forse.
Quando troverai uno simile a lui, degno di altrettanto amore, quando troverai uno a lui pari, o terra del Meschio?
O uomo di rara onestà, che i posteri tutti ricorderanno ed esalteranno con lode perenne!
O caro Tito, il dolore bruciante di codesta ferita, la terribile perdita che hai subito hanno provocato in te una sofferenza intollerabile, cosicché al rimpianto, che sento crescere in te ogni ora di più, e alle lacrime, non c'è ormai più limite.
Che cosa posso fare? Dirti parole che leniscano il tuo dolore? No, non lo farò:
è la stessa immensità del dolore che me lo impedisce. Anch'io ho subito una ferita troppo profonda, che mi fa soffrire non meno dite. Mentre ti scrivo queste cose il dolore mi assale con un fiume di lacrime, e mi impedisce di dire di più.

L'intento del carme, anche se in forma di lettera al figlio dello scomparso, è celebrativo, ma ciò non compromette l'importanza obiettiva dei dati che ci comunica, dai quali emerge una figura nobilissima di cittadino, amante della patria e della famiglia, decoro autentico della sua terra. Il carme ci è utile anche perché ci fornisce elementi per individuare il tempo, se non la data, della morte di Donato. Il fatto che sia indirizzato a Tito ci dà il terminus ante quem, che è la data della morte di questi, avvenuta il 27 agosto 1514(8). L'accenno del v. 15 alla "guerra di poco tempo fa" che squassò le "alte mura" di Serravalle, non può che riferirsi allo scontro tra le milizie della Lega di Cambrai, che nel luglio del 1509 avevano invaso Serravalle, e quelle di Giovanni Brandolino, che dopo feroci scontri ripresero la città (20 luglio 1509) abbandonandosi quindi a violenze di ogni genere, per cui, dice Giovanni Bonifacio, "...patì Serravalle grandissima calamità, essendo crudelmente saccheggiato.. "(9)o Giovanni Antonio Flaminio subì, da queste violenze, danno irreparabile, per cui dovette tornarsene in quello stesso anno a Imola, sua vecchia patria, presso i suoi genitori, portando con sé la moglie Veturia, il figlio Marcantonio, l'unico rimastogli, e poche cose che era riuscito a conservare (10) Questo chiaro riferimento all 'annus belli (così viene citato più volte nel Libro de' Notai di Serravalle il 1509(11), ci dà il terminus post quem: la data della morte di Donato Cesana deve essere quindi collocata tra il 1509 e il 1514. Non escludo poi che la sequenza di sventure cui il Flaminio accenna nei versi 11-14, sequenza che egli dice culminare nella perdita di Donato, comprende anche la scomparsa di Veturia, che sappiamo avvenuta nell 513. In questa ipotesi, gli anni probabili della morte di Donato si ridurrebbero a due: 1513-1514.

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Sappiamo che Donato ebbe tre figli: Tito, Pietro Andrea, Girolamo. Gli unici due serravallesi citati nelle sue lettere da Marcantonio Flaminio, il celebre figlio di Giovanni Antonio, sono proprio Tito e Girolamo. Di quest'ultimo Marcantonio parla nella lettera scritta a Gasparo Contarini da Sessa, l'li novembre 1538: lo dice "homo di ottimo ingegno et dottore eccellente et lungamente versato nel foro... homo di costumi gentilissimi et molto religioso..." e afferma di amarlo "come fratello"(12). Di Tito parla nella lettera latina inviata ad Alessandro Marzoli, poco dopo la morte dell'amico. Anche su di lui il Flaminio si esprime in termini altamente laudativi: lo dice "...juvenis in omni litterarum genere praeclarus, litteris graecis aeque ac latinis imbutus, natura vero ad respoeticas adeo excitata, ut nihil esset quod ab eius ingenio sperare non posses"(13). E più avanti afferma essergli stato, Tito, l'amico più caro di tutti(14). Coincidenza suggestiva e commovente:
anche Marcantonio, scrivendo della morte di Tito, è interrotto dalle lacrime, e dice di non poter più proseguire: "Sed de Tito hactenus: nam plura prae lacrimis scribere non possum" (15)
Così, a pochi mesi di distanza, Flaminio padre parla della morte dell'amico Cesana padre, e il pianto lo interrompe, e Flaminio figlio parla della morte di Cesana figlio, anch'egli interrotto nel suo dire dalle lacrime.
Un pianto, quello di Marcantonio, che ci fa un poco ricredere del giudizio con cui bolliamo di enfasi letteraria il "fiume di lacrime" da cui Giovanni Antonio si dice travolto mentre parla della morte dell'amico Donato.
Non è certo se Marcantonio Flaminio, nel suo carme a Francesco Robortello, con il nome di Sicco (Sicus) intenda ricordare uno dei fratelli Cesana, ma lo ritengo probabile:

"Sicus,
elegans iuvenis, domo venusta,
te laetum accipiet libens".
(Sicco, giovane squisito, ti accoglierà con gioia nella sua bella casa, e ne sarai contento).

E più avanti, nello stesso carme, Marcantonio immagina che il Robortello lo rimproveri di stare lontano da Serravalle e gli ricordi i luoghi dei suoi sollazzi infantili:

"Non hanc ludere per viam solebas
puer cum pueris?"
(Non eri solito giocare per questa strada, con i ragazzi tuoi pari?)(16).

Per la strada (via Tiera), nella Piazza, il Flaminio ebbe certo a compagni di gioco - come si è detto più sopra - Tito e Girolamo e Pietro Andrea Cesana, e certo frequentò la loro bella casa, magari mentre i rispettivi padri, Giovanni Antonio e Donato, se ne stavano in conversazione.
Probabilmente i ragazzi si saranno più volte fermati davanti alle nume

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rose scritte che decoravano la casa e, forti del loro latinuccio, avranno compitato e forse tentato di interpretare le frasi misteriose. Giovanni Antonio, maestro dilatino a Serravalle(17), li avrà certo aiutati.
Noi, oggi, a più di cinquecento anni da allora, potremmo probabilmente farcela anche senza i sapienti suggerimenti del buon Giovanni Antonio, ma dobbiamo combattere con un nemico invincibile, il tempo, che ha cancellato numerose lettere e ha reso indecifrabili alcune parole. La completa "lettura" di Palazzo Cesana non potrà quindi che essere integrata, per noi, da alcune ipotesi, relative alle frasi e alle parole mutile.

Per "leggere" Palazzo Cesana è necessario partire dalla lapide esistente sulla facciata orientale, a fianco della seconda finestrina dell'ammezzato, a partire da sud.
Lo scioglimento delle abbreviazioni, e quindi l'interpretazione, non pongono particolari problemi.
Leggiamo, ponendo tra parentesi l'integrazione delle parole abbreviate.

DONATUS CAESAN(US) P(ETRI) F(ILIUS) PATRIAE ORNAMENTO SIBI ET SUIS POSTERISQ(UE) DUCE MARIA EIUS MATRE
PIENTISS(IMA) DEI GRATIA V(IVUS) EREXIT MCDLXXXV PISA-
NO TAR(VISINO) ARCHITEC(TO).

Traduzione.
DONATO CESANA FIGLIO DI PIETRO, A DECORO DELLA SUA PATRIA, PER SÈ E LA SUA FAMIGLIA EI SUOI DISCENDENTI, PER GRAZIA DI DIO E CON L'AIUTO DI MARIA PIISSIMA MADRE SUA, NEL CORSO DELLA SUA VITA COSTRUÌ. ANNO 1485. ARCHITETTO PISANO TREVIGIANO.

Il senso dell'epigrafe è chiaro. Si tratta, per così dire, della "firma" del committente dell'opera.
Donato Cesana è orgoglioso del suo palazzo, che a quel tempo doveva essere tra i più alti, se non il più alto, di Serravalle, e tra i più belli. Capisce che esso è di ornamento alla sua città, e dichiara che proprio questa è stata la sua prima intenzione nel decidere di costruirlo.
Egli è uomo di fede, e afferma che quel che ha fatto è stato possibile solo perché la Vergine Maria, cui è dedicata la Chiesa Maggiore di Serravalle che sta proprio di fronte al palazzo, lo ha guidato, e Dio lo ha fatto segno della sua benevolenza. V(IVUS) EREXIT, esprime una sorta di contenuta esultanza: Donato Cesana vuole con quelle parole dirci che egli ha deciso l'opera, ne ha seguito la costruzione (durata probabilmente alcuni anni) e ora gode di vederla finita, bella come l'aveva voluta. È il 1485. La lapide è l'atto conclusivo dell'impresa: e il committente vuole che accanto al suo nome sia segnato anche quello dell'architetto (cioè, insieme, progettista, direttore dei lavori, forse anche responsabile dell' "impresa di costruzione"): è chiaro che

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egli è soddisfatto del lavoro e del suo autore.

Letta per prima l'epigrafe che, da Palazzo Cesana, ha cominciato a parlare per ultima, ora possiamo leggere le altre scritte secondo l'ordine della loro presumibile apposizione.
Le facciate sud ed est del palazzo portano, sotto il cornicione, una serie di frasi a contenuto sapienziale, scritte in sequenza in bei caratteri maiuscoli, a formare una sorta di fregio.
Il tempo le aveva cancellate pressoché del tutto, ma fortunatamente il primo dipintore si era aiutato con dei segni graffiti sull'intonaco, per cui i recenti restauratori non hanno avuto molte difficoltà a seguire quei segni e a rifare le scritte. Questo almeno per gran parte del "fregio", perché in due punti di esso siamo indotti a pensare che la "lettura" dei graffiti, e quindi il restauro delle lettere, non siano corretti.
Leggiamo il fregio nell'ordine della scrittura, e quindi partendo dalla facciata a sud, ponendo tra parentesi le lettere integrate su nostra congettura.
(D)EUM COLE - PXMDICS - TE IPSUM - O - (N)OSCE - TEMPORI PAREAS - FINEM RESPICE - N(IL) NIMIS.
Traduzione.
ADORA DIO. Le lettere che seguono sono senza senso, per cui si deve ritenere che il restauro sia errato.
CONOSCI TE STESSO. La scritta riproduce la versione latina della celeberrima frase greca (gnòthi seautòn) che, scritta in lettere d'oro sul frontone del tempio di Apollo in Delfo (la frase era attribuita da alcuni a Talete, da altri a Solone; c'era chi, come Giovenale nella satira 11(v. 27) la diceva venuta direttamente dal Cielo) rappresentava per gli antichi greci il principio universale della sapienza.
Per la lettera O che occupa il centro della prima canna fumaria della facciata est valgono le osservazioni svolte sulle lettere indecifrabili della facciata sud.
OBBEDISCI ALLE LEGGI DEL TEMPO. Cioè non affrettarti né ritardare mai.
STA ATTENTO ALLE CONSEGUENZE. È la parte conclusiva di un proverbio latino che suonava così: QUIDQUID AGIS PRUDENTER AGAS ET RESPICE FINEM. Significa: qualunque cosa tu faccia, falla con prudenza, e sta attento alle conseguenze.
NIENTE È DI TROPPO. Tutto può essere utile. Ma l'interpretazione può essere anche: non fare niente di troppo. E un frammento di un comico romano non identificato, riportato da Seneca (Epistole a Lucilio, 94, 43).
L'insieme delle scritte, tutto sommato, contiene un insegnamento morale di alto valore, un programma nobile di vita, valido per ogni tempo.

Il Palazzo porta sulla facciata sud, quella che dà sulla piazza, tre lapidi con

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altrettante massime. Due lapidi (quelle collocate appena sotto i poggioli del primo piano) hanno le scritte incise, quella centrale in rilievo.
Le due lapidi incise. Quella a sinistra di chi guarda porta la scritta:
PECUNIA AVARO SUPLICIUM EST - LIBERALI DECUS - PARICIDIUM PRODITORI.
Traduzione
IL DENARO, IN MANO ALL'AVIDO È UN SUPPLIZIO, IN MANO AL GENEROSO È UN ORNAMENTO, IN MANO AL TRADITORE È LA ROVINA DELLA PATRIA.
Non ho trovato la fonte e non escludo che la frase sia di invenzione dello stesso committente.
Sotto il poggiòlo di destra l'altra scritta: CONTENTUM SUIS REBUS ESSE MAXIM(A)E SUNT CERTISSIMAEQ(UE) DIVITIAE.
Traduzione.
CONTENTARSI DI QUEL CHE SI HA È LA RICCHEZZA PIÙ GRANDE E PIÙ SICURA.
È un passo dei Paradoxa stoicorum (VI, Si) di Cicerone, esprimente uno dei princìpi fondamentali, e il più diffuso, dell'etica stoica.
Nella lapide centrale la scritta in rilievo ha la prima lettera abrasa, ma, per recuperarla, la congettura è facile. Si legge: (P)ATERE ET ABSTINE, e significa: SOPPORTA E ASTIENTI. E il celeberrimo precetto del Manuale di Epitteto, il filosofo frigio del I - Il secolo d.C., che invita a sopportare con rassegnazione tutte le vicende esteriori e a rinunciare insieme ad ogni desiderio diretto alle cose esterne, che possa intaccare la libertà interiore. Più diffusa è la forma "sustine et abstine", assunta come motto da numerose casate nobiliari.

Concludendo, il giudizio che si può esprimere su quello che "dice" il Palazzo Cesana è che si tratta di un insieme di ammonimenti di grande significato morale, un alto e nobile programma di vita ispirato in larga parte alla filosofia greca, ma riconducibile a piena sintesi nella morale cristiana.
A ciò concorre anche un altro elemento, decorativo e insieme eloquente, reperibile sulle facciate sud, est e nord del Palazzo: il monogramma di San Bernardino, un disco con corona di raggi fiammeggianti portante al centro il segno IHS (le iniziali di lesus Hominum Salvator o, forse, le tre prime lettere del nome di Gesù parzialmente traslitterato dal greco Jesous).
Gli storici locali raccontano che San Bernardino da Siena - che era solito accompagnare le sue prediche con l''ostensione di una tavoletta col monogramma di Cristo - abbia predicato a Serravalle intorno alla metà del 1423, e che ivi la sua parola, contrariamente a quanto era accaduto a Ceneda, abbia ottenuto buoni frutti "perché ancora si scorge il segno IHS sopra molte case, ch'eran quelle delle famiglie riconciliate dalle sue sante predicazioni" (così il Laurenti nella sua Storia di Serravalle). La predicazione serravallese di San Bernardino appare confermata dal fatto che pressoché tutte le chiese

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serravallesi possiedono immagini di San Bernardino e del suo monogramma, ma l'affermazione del Laurenti relativa ai monogrammi sulle case non trova riscontri, anche perché delle case di abitazione esistenti a Serravalle ai tempi di San Bernardino non ne restano che due otre. I tre monogrammi sulle facciate di Palazzo Cesana, costruito a più di sessant' anni di distanza dalle prediche serravallesi del Santo di Siena, debbono quindi essere stati posti solo a ricordo del memorabile evento e delle sante lezioni che nell'occasione apprese il popolo di Serravalle. Lezioni la cui eco probabilmente risuona anche nelle scritte che abbiamo letto. (E a proposito di quella sotto il poggiòlo di sinistra, di cui si ignora la fonte, è interessante rilevare la rassomiglianza tra la prima frase di essa - Pecunia avaro suplicium est - e il passo dell'Ecclesiaste, 5, 9 - Avarus unquam satiabiturpecunia: il denaro non saziarà mai l'avido, commentato da San Bernardino in una delle sue prediche senesi).
Ma la facciata a sud di Palazzo Cesana tenta di dirci ancora qualcosa. Essa porta infatti, sopra ciascuna delle due finestre principali del secondo piano, due medaglioni dipinti, con profili umani rivolti l'uno verso l'altro. Di chi siano i profili non è possibile sapere, anche se è probabile trattarsi di personaggi della famiglia Cesana.

Per concludere facciamo un passo appena fuori della piazza, su per via Roma. Lì, adiacente al vecchio Municipio, sta un altro Palazzo Cesana, costruito negli anni a cavallo del 1500 dai fratelli Salgardo e Vettor, del ramo Cesana del Colle. Sotto l'unico poggiòlo del Palazzo, in collocazione identica a quelle del Palazzo Cesana della Piazza, è infissa una lapide con la scritta: MELIUS EST BONUM NOMEN Q(UAM) DIVITIAE MULTAE
- MCCCCCII DIE XX VII OCTOBRIS. Il significato è chiaro: È MEGLIO POSSEDERE UN BUON NOME CHE MOLTO DENARO. Segue la data della conclusione dei lavori di costruzione dell'edificio: 27 OTTOBRE 1502.
La frase, presa del Libro dei Proverbi (22, 1), richiama nello spirito quelle che abbiamo letto più su. I due edifici, dimora di due famiglie tra loro parenti, si scambiano, a poche decine di metri di distanza, come un cenno d'intesa.


NOTE

Si ripropone - largamente rivisto e ampliato - il testo di tre articoli, intitolati al Palazzo Cesana,
apparsi sull'Eco di Santa Maria Nova, n. 3-4, Maggio-Giugno 1989, n. 5-6, Luglio-Agosto
1989, n. 1, Gennaio-Febbraio 1990.
1) Serravalle, 1740-1817.
2) Serravalle, 1498 - Roma, 1550.
3) Imola(?), 1464 - Bologna, 1536.
4) Giovanni Antonio Flaminio insegna a Serravalle in tre periodi: dal 1486 al 1491, dal 1502

al 1509, dal 1517 al 1520.
5)11 Flaminio è ammesso al Collegio dei Notai di Serravalle l'li ottobre 1506 ("... ommesso il consueto esame, troppo nota essendo la sua dottrina...") e già il 20ottobre di quell'anno èchiamato a far parte, con Giambattista Mantovano e Donato Cesana, di una commissione incaricata della revisione dello Statuto del Collegio. Il 7 luglio 1508 viene formata un'altra commissione, per un'ulteriore revisione, ancora con la partecipazione del Flaminio e del Cesana, e Guidotto Raccola al posto del Mantovano. (Notizie e citazioni da: Gianagostino GRADENIGO, "Se Giannantonio e Marcantonio Flaminio si possano chiamar serravallesi. ., lettera.., al signor d. Bartolomeo Sabbionato, Sacerdote Mottense"; in Nuova Raccolta di opuscoli scientifici efilologici, torno ventesimo quarto, Venezia, 1773).
6)11 testo a stampa porta lautum, il che comporterebbe la concordanza con Serravalle-is (neutro della terza declinazione): ma tutti i testi latini che citano la località usano Seravallumi (neutro della seconda declinazione). Preferisco emendare con laute, che comporta una forzatura più lieve, ammettendo il pentametro dattilico la sillaba breve prima della cesura, sia pure in via eccezionale.
7) loannisAntonii FlaminiiForocorneliensis Silvarum libri/I. Eiusdem Epigrammatum libri III, Bologna, 1515. 11 carme è l'ultimo del lI libro delle Silvae.
8) GRADENIGO, op. cit.. p. 44.
9) Giovanni BONIFACCIO, Istoria di Trivigi, Venezia, 1744, ripr. anast. Sala Bolognese, 1981, p. 506.

10) Di questa triste avventura parla lo stesso Flaminio in una lettera al cardinale Raffaele Riario, scritta poco tempo dopo la fuga da Serravalle. Dopo aver fatto un p0' la storia della sua vita, e detto della splendida accoglienza riservatagli dai Serravallesi al suo ritorno da Montagnana (1502) e dei successi della sua attività di maestro, prosegue: "Ibi usque ad proximum bellum, quo aJflicta plurimum Veneta resfuit, prospere nobis omnia cessissent; nisi de tribusfiliis maribus, primis illis mei reditus mensihus duos perdidissem. Bello deinde aucta calamitas est, oppido capto, et crudelissime direpto. Ubi quantam ego tum lihrorum et lucubrationum mearum, cum rei familiaris jacturam frcerim, non scribo: Tibi cogitandum relinquo, qui harbariem, ac immanitatem no.ltri temporis militum non ignoras. Collegi parva( quasdam reliquias; et cum uxore ac unico filio M. Antonio Flaminio mdc fugam arripui, ac me in veterem Patriam et ad meos recepi. Ubi praecipuum mihi solatiumfuit in tot malis, quodpatrem meum tum sexagenarium, quam item charissimam genitricem vivos et incolumes reperi (Joannis Antoniii Flaminii forocorneliensis Epistolae Familiares... editae... a Fr. Dominico Josepho Capponi, Bologna, 1744, pp. 16-17).
("Lì, fino alla guerra di questi ultimi tempi, da cui fu gravemente investito il territorio Veneto, tutto mi andò bene, se non fosse stato perla morte di due dei miei tre figli maschi, che perdetti pochi mesi dopo il mio ritorno a Serravalle. Poi la guerra moltiplicò le mie disgrazie, a seguito della presa della città e del terribile saccheggio che ne seguì. Delle perdite che ebbi a subire in quella circostanza, dei miei libri, dei miei lavori, del mio patrimonio, non sto a dire: te lo lascio immaginare, a te che conosci bene la barbarie e la ferocia dei soldati di questi tempi. Radunai le poche, piccole cose rimastemi e con mia moglie e l'unico figlio Marco Antonio fuggii di lì e mi rifugiai presso i miei, nella mia vecchia patria. Dove mi fu di grande conforto in tante sventure trovare mio padre allora sessantenne e così la mia amatissima madre, vivi e in buona salute").
11) GRADENIGO, op. cit., p. 30.
12) Marcantonio FLAMINIO, Lettere, a cura di Alessandro Pastore, Roma, 1978, p. 56.
13) "... giovane di grande dottrina in ogni genere di lettere, profondo conoscitore del greco come del latino, con un'attitudine così vivace alle cose della poesia, che non c'era niente che non si potesse sperare dal suo ingegno".
Marcantonio FLAMINIO, Lettere cit., p. 216. Il testo porta litteram: si tratta di un evidente
errore di stampa per litterarum.

Nella lettera al Manzoli il Flaminio dice che Tito è morto hoc anno. La lettera è senza data
e il curatore della raccolta ipotizza per essa il 1515. La data va corretta in 1514 (cfr. prec. n.
8).
14) "Video.., me... amicum amisisse quem ceteris omnibus anteponebam".
15) "Ma di Tito basta: le lacrime mi impediscono di scriverne ancora".
16) Marci Antonii... Carmina, Padova, 1743, p. 179 (Carminum lib. VI, XXIX).
17) È assai probabile che Giovanni Antonio sia stato maestro anche di Tito Cesana. A favore
di questa ipotesi sta l'Epigramma 59 del 1.1 (v.n.7), indirizzato aTito, in cui Giovanni Antonio
rassicura il giovane Cesana - con tono e argomenti di maestro - che gli restituirà quanto prima
con le sue osservazioni il lavoro su Ercole (certamente l'ElegiaAdulescentiaHerculis lodata
da Marcantonio nella lettera citata - cfr. nn. 13, 14, 15 - ad Alessandro Marzoli). La conferma
può venire dal fatto che proprio a Tito, e non ai suoi fratelli, Giovanni Antonio si rivolge
all'annuncio della morte di Donato.


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