Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°6 - 1993 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane

Rassegna Bibliografica

SEVERINO DAL BO, Primavere cenedesi e altre stagioni, Vittorio Veneto, De Bastiani, l99l,pp. 162.


Devo ammettere di aver provato un p0' di invidia nel leggere questi piacevolissimi bozzetti di Severino Dal Bo. Invidia suscitata dal fatto che solo lui, stando sene a Milano da cinquant'anni, può ricordare le cose di qui come le racconta. Per noi, indigeni radicati al sito natale, esse si stemperano nella stratificazione delle emozioni e degli accadimenti, tanto da non essere più sostanzialmente quelle dei tempi andati.
Per noi è un mondo perduto, ed egli sa farcelo riguadagnare, avendo mantenuto, nella dimensione di lontananza spazio/temporale, lo stupore con cui si guardano con occhio e animo vergine le cose nell'età favolosa.
Qui egli ha conosciuto i primi trasalimenti della fantasia e del sentimento, le prime rivelazioni dell'infanzia a contatto con l'infinita, intatta natura, il senso di quei giorni uguali, senza tempo, legati a una realtà naturale e umana apparentemente immobile.
E così vengono avanti nella rievocazione i ricordi netti ed intatti dei luoghi, dei profumi, delle sensazioni, delle situazioni, delle persone, delle esperienze... Non è nostalgia: è una vita che scorre sotterranea e parallela a quella concreta quotidiana di oggi.
Alla base di tutto una sconfinata ammirazione per questa terra, per questo insieme di monti, di vallette, di colline, di stradicciole tra il verde, con epicentro la Cervada. Neanche il più esercitato autocontrollo ancorato all'ironia (perché la rivisitazione non degeneri nel sentimentale), può esimere dal ritenere che questo angolo sia il più bello e godibile del mondo, capace di comunicare al corpo e allo spirito piaceri segreti e supremi.
Poi la simpatia umana per la gente, le sue virtù, le sue debolezze, "l'economia e la cultura del corti-vo", i costumi, l'eloquio.
Emergono dal flusso della memoria potenzialità ignorate o dimenticate del nostro dialetto e della sua espressività, vocaboli che pur costituiscono il patrimonio lessicale di base per ciascuno di noi, ma che acquistano una freschezza e un'efficacia sorprendenti, spontaneamente mescolati alla lingua italiana. Ciò nell'istintiva convinzione che l'espressione dialettale, usata con tutta la compiaciuta complicità di un codice segreto, abbia qualcosa di più, quella sfumatura che rende meglio un'idea, una sensazione, uno
stato d'animo. Ad arricchire la capacità comunicativa dell'autore, qui trova cittadinanza a pieno titolo il lessico scientifico. Nella convinzione umanistica del medico-scrittore (si pensi a Leonardo: "Se vogli avere vera notizia della forma delle cose comincerai alle particule di quelle...") in natura non c'è nulla di trascurabile o di insignificante. Ed allora egli si china a compiere la mansione che fu affidamento divino al primo uomo, quella cioè di dare un nome a ciascuna erba, a ciascun fiore, a ciascun cespuglio, a ciascun insetto, a ciascun uccello.
La memoria del bambino aveva prodigiosamente catalogato tutte queste entità ed ora la conoscenza scientifica soccorre ad evocarle più in concreto, perchè chiamate non genericamente.
C'è in tutta questa vivace composizione un legante: ed è il modo sottilmente ironico e sorridente e comprensivo di guardare e di giudicare. Richiama certe argute e finissime osservazioni del miglior Nievo e, quasi indipendentemente dalla volontà del nostro autore, è una specie di omaggio a quell"esprit de San Fris", che è stato riconosciuto come una delle impareggiabili prerogative dei cenedesi.
Sono pagine davvero godibili perché vi si ritrova finezza di cultura, eleganza di scrittura, fascino narrativo, autentica poesia.
E soprattutto - benché con una certa civetteria Severino si consideri fortunato di portare 'scarpe da vecchio' - vi trascorre un alitare sereno e impagabile di fanciullezza, di eterna giovinezza.

Mario Ulliana

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