Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°4 - 1985 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigianae
DANILO GASPARINI

ALLA RICERCA DI UN MERCATO
CONTADINI, ARTIGIANI, MERCANTI E BOTTEGHIERI
NELLA CONTEA DI VALMARENO. SECOLI XV-XVIII.

Introduzione

Un vecchio proverbio veneto recita così: "Ei mondo, mezo xe da vender, e
mezo da comprar" (1). E se c'è un luogo privilegiato e sede naturale dello scambio nella sua forma più elementare, questo è il mercato.
Chiunque di noi ha frequentato e tuttora si serve di questa arcaica e quanto mai viva e snella struttura di distribuzione. Non ci sono supermarket, grandi magazzini che possano sostituire e competere con l'immediatezza, la freschezza, la festosità del mercato settimanale, punto d'incontro di umanità varia e spontanea. In giorni fissi si ripetono settimanalmente in varie sedi, con la loro confusione, le loro grida, i loro ingorghi di gente, i loro odori violenti e la freschezza delle merci esposte. Non solo luogo di scambio e di compravendite, ma anche momento estremamente denso di incontri e rapporti sociali, di confronto e di scambio d'idee e di notizie. "D'altra parte - scrive F. Braudel - chi mai può davvero pensare di minimizzare il ruolo del mercato? anche quando è elementare, è il luogo d'elezione dell'offerta e della domanda, del ricorso ad altri, senza di che non esisterebbe economia nel senso comune del termine, ma solo una vita "chiusa" ("embededd" in inglese) nell'autosufficienza o la non economia. Il mercato è una liberazione, un'apertura, l'accesso a un altro mondo, una vera e propria emersione" (2).
E un tipo di scambio molto antico, testimoniato e praticato presso tutti i popoli, dalla Cina classica all'Egitto dei Faraoni. In Europa, con lo sviluppo della città in età medievale, riceve un ulteriore impulso. Anzi, proprio per la loro strategica importanza, i mercati vengono trasferiti dal contado dentro le mura cittadine, dove più facile è il controllo delle autorità sui prezzi e sul continuo afflusso delle merci dalla campagna. Ben rappresentò Antonio Pucci, letterato fiorentino del Trecento, la confusione e il concorso di popolo nella piazza in cui si teneva il grande mercato di Firenze: "Mercato Vecchio nel mondo è alimentato, sì che d'ogni altra piazza il pregio serra".


DANILO GASPARINI, di Vidor, ricercatore, si occupa di storia veneta e di storia economica in particolare; autore di saggi e studi frutto di intense ricerche negli archivi minori del Veneto.

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Legati indissolubilmente alle vicende della città e alle congiunture economiche, i mercati cittadini vivono momenti di alterna fortuna. Ma oltre le mura cittadine, nel contado, certi mercati resistono nel tempo, e nei momenti di grave crisi, diventano, per la città, vitale punto di appoggio per i propri bisogni. A questi mercati affluiscono merci e persone provenienti da un'area molto vasta ed esterna alla sfera d'influenza della città. La soddisfazione della domanda del territorio era affidata a questa rete di mercati diffusi (3).
Ma non sempre il tentativo d'istituire ex-novo un mercato, andava incontro a successo. Succede anche oggi. Quante amministrazioni comunali hanno tentato d'istituire mercati settimanali all'interno del capoluogo. Ma non basta la volontà e l'afflusso di qualche ambulante per garantire il successo dell'iniziativa. Un mercato secolare, come, ad esempio, quello di Montebelluna, dura e vive perché frutto, nel lungo periodo, di condizioni che lo hanno reso ottimale per sede, per scelta di giorno, per afflusso, per continuità e garanzia di concorso di merci e persone provenienti da una vasta area; perché è difficile mutare nel consumato-re una radicata abitudine e certezza che non bada alla distanza o a altri fattori marginali rispetto alla fiducia e alla sicurezza che in quel dato giorno sicuramente troverà da vendere o da comprare quello di cui abbisogna; sicuro che troverà persone che fanno al caso suo. Ma queste caratteristiche un mercato le accumula nel corso dei secoli, sicché il prodotto finale è frutto di una stratificazione secolare di diversi elementi di ordine economico, sociale e psicologico.
Ora, nel presente lavoro, cercheremo di ricostruire i tentativi, ripetuti nel corso di un secolo, d'istituire un mercato nella Contea di Valmareno, giurisdizione dei Conti Brandolini. Tentativi votati all'insuccesso per più motivi che verremo a spiegare.

Tutti al mercato: ma dove?

La nostra indagine prende le mosse dagli anni settanta del '500, per diverse ragioni. Innanzi tutto perché risalgono a questi anni i primi provvedimenti del governo feudale che testimoniano della presenza di un mercato settimanale; poi perché la grave congiuntura economica di quegli anni spinge il Conte, alcuni anni più tardi, a procedere all'organizzazione e alla regolamentazione del mercato.
Và subito detto che a cavallo tra cinque-seicento si diffondono i tentativi d'istituzione di mercati e le suppliche rivolte a questo scopo alle autorità veneziane testimoniano di un'opinione fatta propria da diverse comunità: l'istituzione di un mercato, per di più franco, avrebbe certamente risolto i problemi di approvvigionamento e rimesso in moto gli scambi e l'economia incappata in una crisi profonda.
La prima notizia riguardante il mercato della Valmareno è del 18 settembre 1575. Dal '72 è segnalata la presenza della peste in Friuli. Via via si avvicina. Viaggia con le persone ma soprattutto con le merci. Viene proibito ai "muezzari" di esporre merce nel ponte che divide Pieve del Contà da Pieve del Trevisan. Dunque, in modo informale, si tiene presso Pieve (attuale Pieve di Soligo) un mercato settimanale. Il proclama viene ripetuto il 23 luglio del '76 quando la virulenza del morbo preoccupa il podestà. Tant'é che in un proclama del 16 luglio si era stabilito che i mercanti provenienti da Venezia potevano entrare in Contea solo se muniti delle fedi di sanità. Ancora nel '77 sarà proibito "tuor stame" da filare a Venezia (4).
La presenza di questo mercato è testimoniata dalle proteste del pievano di Pieve che nell'agosto del '78 si lamenta presso il podestà della temerarietà di al-

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cuni che "si fanno lecito distender drappi, pelle, panni et lana, et anco porlar robbe da vender sul sa grado della chiesa et anco in essa chiesa (5).
Ci sono però altre testimonianze che segnalano la presenza di un mercato concorrente a Follina, oltre all'annuale Fiera della prima domenica di ottobre. Infatti nell'aprile del '76 si ordina che il successivo Venerdì Santo nessuno "metta bottega d'alcuna sorte da vender sopra il prado di essa fiera, se prima non haverà fatto sottoscriver la fede della sanità" (7). L'anno dopo, il 22 settembre 1577, per volontà del Conte, viene istituito anche un mercato annuale a Cison presso l'omonimo convento (8). Tre quindi le sedi deputate ad ospitare il mercato: Pieve, Cison (capoluogo politico) e Follina, importante centro artigianale. Alternativamente, nel corso degli anni successivi, il mercato verrà trasferito ora in uno, ora in un'altro dei tre villaggi, obbedendo a motivazioni via via diverse, ma a grave danno, conviene dirlo subito, della continuità e della stabilità, garanzie fondamentali per consumatori e mercanti. Tre mercati, più alcune fiere annuali (và aggiunta la fiera di San Simone e Giuda di Tovena) denotano una frammentazione e una dispersione eccessiva per un'area di 65 kmq. e per una popolazione di 6.000 abitanti circa. Inoltre, mentre Follina e Cison erano facilmente raggiungibili dagli altri villaggi, Pieve si trovava all'estremo sud della Contea e gravitava più verso la Trevisana. Sulla regolarità dei mercati e quindi sulla loro fortuna influivano negativamente le vicende sanitarie legate al diffondersi della peste. Paralizzate le attività economiche, i contatti con l'esterno della Contea si facevano difficili e pericolosi: l'8 settembre del '76 viene stabilito che alcuno della Pieve "si de là dell'a qua, come de qua dell'a qua ardisca andar a Montebelluna, né in altri luoghi de là della Piave" senza licenza dei Provveditori alla sanità della valle (9).
Passato il contagio, passata la paura, la vita economica riprende; i contatti con l'esterno vengono ristabiliti. Per volontà del conte Brandolino, il 18 marzo 1581, vengono emanati una serie di capitoli, otto, riguardanti l'istituzione ufficiale di un mercato settimanale a Follina, ogni martedì. Evidentemente si sente la necessità di regolamentare e controllare lo svolgimento del mercato, di garantire alcune condizioni e prerogative che dovrebbero attirare frequenza di merci e di consumatori, infatti il "pubblico mercato" viene istituito "a comun utile, et beneficio non solamente dei suoi sudditi, ma anco de'forestieri" (10). 11 primo capitolo dell'ordinanza stabilisce il giorno di svolgimento e il luogo. Viene scelto un prato comunale, il "Saletto", sufficientemente ampio e comodo, e "nel quale si possano far le botteghe, condurre ogni sorte d'animali, et ogn 'altra cosa...".
I successivi capitoli dettano condizioni, esenzioni, limitazioni importanti agli effetti della riuscita del mercato e della sua frequentazione. Viene posto subito un limite al libero commercio del bestiame: occorre l'espressa licenza del conte. Questo perché le beccherie della valle sono una privativa del signore. Gli animali vanno prima offerti al beccaio feudale. A parte questo limite, tutte le merci e gli animali possono essere condotti al mercato senza pagamento di dazi o gabelle. La merce acquistata può essere condotta fuori Contea pagando solo il dazio della "traversa" ai rispettivi daziari. Chi avesse poi condotto merce e bestiami per vendere e non avesse concluso affari poteva riportare fuori la mercanzia senza pagamento alcuno.
I capitoli sette e otto sono importanti per più motivi. Il primo dei due stabilisce che nessuno possa "comprar biave, che fossero condotte sopra esso mercato
per incanevarle sino a hore 22, ne far patto alcuno con li patroni di esse biave,

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affine che non le vendessero ad altri". Fondato il timore di possibili e frequenti fenomeni di accaparramento; inoltre c'è la preoccupazione di garantire ai ceti più poveri la possibilità di procurarsi grano a prezzo controllato. Ma il commercio dei cereali sfuggiva al controllo del potere, lo vedremo più avanti e ben poco era quello che raggiungeva la piazza del mercato. L'altro capitolo assicurava che nei giorni di mercato non si sarebbe proceduto a nessun pignoramento, sempre che le merci non fossero rubate. Importante garanzia, acciocché "a ciascuno sia libero et securo il venir et ritornare con le sue robbe et mercanzie".
Ora, così com'erano formulati gli ordini, risultava difficile l'afflusso di merci e persone, proprio per l'ingerenza del potere sulla libera disponibilità di poter commerciare bestiami e grani, due articoli, per così dire, molto richiesti. Questa ingerenza del signore è più esplicita alcuni anni dopo, allorché nel 1588, viene ripristinato a Follina il mercato del Martedì, evidentemente sospeso. Si dichiara infatti in modo inequivocabile che ". .. habbia a durar questo mercato per quel tempo che piacerà ad esso Ill.mo Sig Conte" (11). Prerogativa di cui si avvale il signore nella Quaresima dell'89, allorchè sospende il mercato e proibisce, nei giorni in cui è permesso, ". .. tenir hosteria, ne dar da mangiar ad alcuno per pagamento" (12).
Lo svolgimento del mercato viene quindi a dipendere dalla volontà del signore e da motivi extra-commerciali. Questa incertezza sulla periodicità appare come un limite grave, che induce soprattutto i mercanti a non inserire il mercato della Follina nel loro giro settimanale. Non solo, ma se c'era una ragione per venire nella Valmareno, questa era legata ai prodotti dell'allevamento, che venivano ad essere penalizzati dalla normativa imposta.
A vent'anni di distanza, il mercato del martedì viene spostato da Follina a Cison, presso un prato vicino alla chiesa. Già nell'88 la sede, a Follina era stata trasferita verso il centro del paese. Vengono confermati i capitoli dell'8 1. Ma c'è una novità importante e densa di significati: "Fin tanto che si invierà detto mercato - recita il proclama - debban per ogni regolado mandar almeno tra huomini et donne n' 10 con quella robba che gli parerà a vender sopra esso mercato" (13). C'è quindi un problema di afflusso di merci e di persone! Ci si affida quindi all'imposizione per tentare d'invogliare la venuta dei clienti, attratti dall'abbondanza dei prodotti esposti. Dieci persone quindi per i dodici "regoladi" garantiscono una presenza di 120 frequentatori che con i loro prodotti dovrebbero assicurare un minimo di scambio. E facile immaginare come un tale obbligo venisse evaso, per cause di forza maggiore, nei momenti di maggior crisi e come l'afflusso delle merci, specie di derrate agricole avesse un andamento stagionale.
La pena prevista per coloro che non si presentavano era di 50 lire per ogni regola. Non si sa bene in base a quali criteri venissero scelti i forzati e improvvisati "revendigoli". Non ho trovato a questo proposito denunce di violazioni di ques'obbligo, anche perché, andare al mercato, era pur sempre un'occasione d'oro, una festa vissuta con intensità e impegno.
Fino al 1638 non troviamo, nella documentazione, traccia di provvedimenti che regolino il mercato. Si presume che nel corso degli anni in occasione di carestie ed epidemie, l'afflusso di merci e persone fosse diventato difficile. Nel corso della peste del 1630, le principali vie di accesso vennero chiuse e sbarrate da dei restelli, alla cui custodia vennero posti dei guardiani, con l'obbligo di vigilare e controllare il traffico di merci e persone, munite delle necessarie fedi.
Così, com'era avvenuto in altre circostanze, i conti Paolo e Guido Brandolini,

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il 15 luglio 1638, ". . havendo considerato dover riuscire di molto commodo, non solo da proplj sudditi, ma eziandio al/i circonvicini e forestieri l'introdurre in questa Giurisdizione un pubblico et ordinario mercato, et adunanza de merci de ogni sorte, pollami et animali d'ogni genere (14), istituiscono per il martedì di ogni settimana, un mercato a Pieve, vicino alla Chiesa Parrocchiale. La notizia viene diffusa ai "Rettori et Ecc.mi Giurisdicenti delle Città, Terre et Castelli circonvicini", perché, si precisa nel proclama, "si compiacciano far il simile". Un invito esplicito a creare un'area di libero scambio. Infatti si sottolinea che "per primo" il mercato sia "libero et franco" da ogni gabella. Il mandato viene inviato ai rettori di Treviso, Feltre, Cividal di Belluno, Serravalle, Sacile e Conegliano, al vescovo di Ceneda, ai Vicari e ai Giurisdicenti di Caneva, Cordignano, San Salvatore, Collalto, Mel, Cesana e Tarzo. Si supponeva quindi di servire e interessare un'area molto vasta, posta geograficamente a Nord di Treviso.
Già alcuni anni prima era giunta da Conegliano la notizia che in giorno di Venerdì si sarebbe svolto un mercato libero e franco. Era il 2 giugno 1621 (15). Quanto al proclama e alle condizioni poste, conteneva, rispetto al passato, delle novità importanti. Per il momento non veniva posto nessun limite al libero commercio di bestiame e biada. Inoltre ai sudditi si imponeva di concorrere al mercato "almeno una persona per casa conducendo et portando de simil sorte de merci, robbe et animali sotto le pene che parranno a SS. Ill.me".
Il conto è subito fatto: a metà secolo si censiscono in Contea circa un migliaio di fuochi, che nella volontà dei Conti, vista la congiuntura favorevole del momento, si dovrebbero trasformare in venditori di una quota di merci e prodotti eccedenti l'autoconsumo, e innescare di riflesso meccanismi di scambio i cui effetti si dovrebbero tradurre in futuro sviluppo e benessere per la totalità della popolazione della vallata.
E fin qui il proclama del Signore. Ora interviene il delegato, il Podestà Tiberio Bonenti, da Cittadella. Il primo martedì successivo, 3 agosto, seguito dagli officiali e dal Cancelliere, perché la cerimonia d'apertura e d'istituzione si trasforma in spettacolo denso di significati extra-economici: "Pervenuto nella piazza, considerati li posti et strade che vi si congiungono, considerato per longo et per traverso, veduto buon principio de reduzion de populo... et specialmente delle Regole et Huomini del Contado et Gastaldia terminò, per hora, che fosse di nuovo letto il proclama". C'è quindi un'attento esame del luogo scelto, all'incrocio strategico di quattro strade che convergono nella piazza antistante la chiesa. Strade che collegano la Contea con il Trevisan, con la Contea di Collalto e con la podesteria di Conegliano. Si tratta ora di regolare "la dispensa... delle poste et luochi" per accomodare le botteghe e le merci. La scelta è pensata e obbedisce a delle valutazioni che possiamo ipotizzare e che comunque privilegi certe merci rispetto ad altre o, come nel caso degli animali, si preoccupa di sistemarli il più lontano possibile rispetto alla piazza, per motivi, forse d'ordine igienico-sanitario. Cinque i luoghi destinati: la piazza e le quattro strade convergenti. Ho cercato di raffigurare tale distribuzione, servendomi di una riproduzione cartografica della piazza di alcuni anni più tardi (vedi tavola la).
Vediamo la distribuzione: nel corpo della piazza "et circum circa", trovano sistemazione le botteghe e i venditori di panni e tele, di ferramenta, di cordami. Inoltre si possono accomodare a fianco i "casaruoli" con i loro formaggi e i loro prodotti di largo consumo. Per la strada che risale verso Solighetto, frutta e verdura d'ogni sorte, pollami, uova; più avanti, i bestiami bovini. Tale scelta si po-

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trebbe giustificare con il fatto che i contadini e i distrettuali scendevano dalla vallata proprio da quella strada, e che le merci che dovevano e potevano esporre e porre in vendita risultavano essere quelle, prodotti di un'agricoltura che aveva nell'allevamento il suo punto forte.
Per la strada che va verso Collalto, dall'osteria in giù, stretti tra le case, si potevano disporre gli animali "caprini, pecorini et porcini"; appartati quindi, come gli "animali cavallini grossi et menuti", dislocati lungo la strada che porta verso Conegliano.
La strada che portava verso il Trevisan, fino alla metà del ponte sul Soligo, veniva destinata ad una merce quanto mai preziosa: "le biave d'ogni sorte et legumi". In posizione aperta quindi e controllabile; proprio dalla Trevisana poi giungevano i possibili carichi di cereali, non certo dai locali mercanti, che preferivano tenere nei loro granai il grano, in attesa di altre congiunture o comunque destinarli alla vendita attraverso altre forme o altri mercati.
C'è quindi, nella scelta dei luoghi, una preoccupazione costante nel voler porre la merce in modo ordinato e al giusto posto, con la convinzione che da ciò dipenda il successo del mercato. Non più quindi prati o luoghi esterni al centro abitato, ma sulla pubblica piazza.
E non una piazza qualsiasi, ma un crocevia, punto di raccordo di più strade, quasi a voler significare spazialmente e fisicamente la speranza che attraverso quelle strade giungano merci, compratori e mercanti. Vie trafficate e abitate; luoghi frequentati, con la chiesa, già di per sè centro di raccolta e incontro. Lo spazio fisico rinvia oltre. Fatto questo, con evidente soddisfazione il podestà, seguito con attenzione dalla folla brulicante e interessata, detta per i mercanti e i venditori alcune norme relative all'occupazione dei posti destinati: i primi arrivati possono scegliere dove sistemarsi. Una volta occupata la piazza, non possono essere "molestati né scacciati".
Sono tollerate tre assenze, se giustificate ogni giorno di mercato.
Oltre la terza assenza "... sia lecito a cadauna persona d'ocupar quel loco a suo piacer".
Ma il mercato deve offrire anche altri servizi, altre infrastrutture, si direbbe oggi. Prima fra tutte l'osteria e, associata in questo caso, la "beccaria", gestita dall'oste stesso, anche daziario. Il podestà si rende conto che l'unica osteria esistente è insufficiente ". . . alla provisione del vitto necessario per le persone concorrenti ".
Per il momento "... ogn'un s'incomodi come puote". Ogni decisione viene rinviata alla settimana prossima.
Vengono convocati poi i merighi e viene chiesto loro se avessero eseguito il proclama, che li obbligava a portare al mercato un rappresentante per casa. Rispondono affermativamente. Solo il meriga di Cison si scusa: alcuni, pochi, erano effettivamente impossibilitati. Così anche Miane. Soddisfatto della risposta, il podestà licenzia i funzionari comunali, invitandoli a ripresentarsi "marti prossimo hoggi otto".
E il martedì successivo, il podestà, dopo aver "discorso e considerato d'intorno alla pro visione del vitto necessario" con i conti Paolo e Giudo, " . . . fa sapere. .. che SS.Ill.me concedono, che ogni persona così terrier, come forestier, possa nel giorno et ne/li luochi deputati del mercato far hosteria, dar da mangiar et da bevere accomodatamente a chionque persona che lo ricercherà". Inoltre chiunque può ammazzare ogni sorte d'animali e vendere vino a minuto, usando i boccali e le misure consentite. In deroga poi ai proclami concernenti tal matelo

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ria, ognuno poteva condurre sopra il mercato animali "da vita" e venderli senza licenza. Gli animali da carne e "lactanti" invece vanno offerti al beccaio feudale. Pene severe sono previste per chi condurrà al mercato animali infetti.
I mercanti che nella domenica erano soliti piazzarsi sul sagrato della chiesa, sono invitati a "metter anco Bottega, et vender nel giorno del mercato nel/i luochi a ciò deputati". Chi poi "vorrà vender o baratar merci" si serva "de' pesi et misure legitimamente concesse e bollate".
A questo punto, letti i vari capitoli, il mercato può ritenersi organizzato e funzionale. Ma a suggello e coronamento della cerimonia, giunge, come da copione, il conte Guido. Prende la parola: ".. . pervenutole all'orecchie il desiderio del popolo circa il far carne.., volendo benignamente inchinar quanto sia possibile alloro gusto et comodità , concede la facoltà di vendere la carne a minuto " à che prezzo più li piace", fuori dal calmiere. Il Cancellier si premura di annotare che il conte parla" astante la moltitudine del popolo applaudente".
Massimo consenso quindi e leggittima soddisfazione di tutti! Si procede quindi al controllo e all'appello dei merighi; Miane denuncia due assenti. Per Maren e Miane, il martedì successivo, 17 agosto, sono assenti quattro capi di casa. Poi, fino al 3 settembre, giungono le risposte affermative e soddisfatte dei contadi vicini.
Oramai il mercato sembrava avviato al successo, anche perché, lo vedremo più avanti, ben pochi erano i mercati franchi a cadenza settimanale, e comunque non generali. Lo stesso mercato di Conegliano, istituito con decreto del Senato Veneziano il 9 marzo 1621, era aperto solo agli animali "d'ogni sorte", a beneficio, si legge nella concessione, "non tanto di quei popoli, quanto delli datij del pane et del vino" (16). Inoltre il mercato veniva concesso nel suburbio della città. Ma quel che interessa è l'insistenza sul vantaggio che ne deriverebbe alle casse pubbliche per gli aumentati introiti provenienti dai dazi.
Ma due anni dopo, I'8 luglio 1640, il Conte deve intervenire,"havendo sentore che per diffetto de' merighi che non osservano di comandar et chiamar... la riduttione del mercato... si vada restringendo"(17). Si escogita alloro una soluzione: l'obbligo di portarsi al mercato viene scaglionato in due volte. Metà dei regolieri di ogni villa un martedì; l'altra metà il martedì successivo.
L'ordine viene ripetuto il 14 novembre 1643, comminando pene maggiori ai trasgressori e ai merighi che non fossero zelanti nel comandare i forzati venditori-consumatori. Evidentemente, diventava difficile per la maggior parte dei contadini, portare al mercato improbabili eccedenze agricole!
Ma la vera debolezza del mercato della Pieve sembra essere, a detta dei dodici componenti l'assemblea comunitaria, la scomodità del luogo, troppo lontano dal centro politico e commerciale della Contea. Così, in una supplica presentata al Conte il 6 gennaio del 1647, accompagnati da un mercante locale, Gaspare Mombelli da Follina, i "dodese" chiedono trasferimento del mercato alla Follina, per essere il luogo più comodo, e anche perché il mercato di Pieve "non vien frequentato nella maniera che fu stimato nel bel principio della sua introduzione et fondazione"(18). La supplica viene accolta. Viene destinata la piazza di Follina, di fronte alle case dei Savoini, grandi mercanti, e vicino alla stalla dell'Abbazia. Medesimo il giorno: martedì. Ma già un anno dopo, il 21 giugno 1648, il Consiglio della Valle si lamenta davanti al Conte, per "essersi al presente ralentato il negotio del mercato pubblico.. . essendo che poche merci vengono condotte et esposte dal/i mercanti sudditi, causa che li forestieri non ritrovando una volta quello li bisognano, più non ritornano" (19).

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Inoltre, le persone comandate si fanno sostituire da "persone inhabili al conIrattar, cioè donnette che fillano, et putti non capaci al commertio che più tosto accrescono privatione che acquisitione a 'pubblici traffici". Ma la mancanza e la carenza delle merci esposte viene imputata al fatto che i mercanti locali, i botteghieri e gli artigiani boicottano il mercato, non presentandosi.
L'ordine del Conte a questo punto è perentorio: il podestà faccia "comandare a chiunque abitante in questa Valle et Gastaldia che attende a negotlj ci esserci-tasse botteghe et mercante di qualsiasi sorte e qualità di merci e lavori che debba il giorno di mercato condurre et esporre in piazza del mercato per vender et così chi hanno cavalli et altri animali da soma . Nel proclama si specifica:
"cadaun mercante, botteghiere ci soliti venditori di qualunque sorte di mercantie ci roba venale, lavori de ferro, de legno o di terra". I distrettuali poi "debbano comparer almeno una persona. . . sufficiente et habile a/li contratti. .. avvertendo che non saran admesse le persone inhabili a contratti nel detto numero ".
Effettivamente, nella loro supplica, i "dodese" avevano messo in evidenza il motivo della strutturale debolezza del mercato: il conflitto evidente e palese tra due sistemi di distribuzione concorrenti. Da una parte il mercato con i suoi riti, le sue leggi, i suoi rischi; dall'altra la bottega, con tutti i vantaggi che offriva.
Tale conflitto tra bottega e mercato, esplode in modo clamoroso nella vicina Treviso, allorché il 14 marzo del 1645 viene concesso alla 'fedelissima città di Treviso", per "redimersi dalle jatture che prova nell'abbandono de' negotij e d'habitanti", un mercato franco due giorni al mese (20). L'apertura del mercato ha, secondo le autorità trevisane, un effetto benefico. Tant'è che "non tanto tosto ne fu fatta la pubblicatione che subito vi gionsero, et traffichi et habitanti nove/li". Non solo, ma "Dopo dell'essentione si sono fabricati 4 filatoggi, et ristoranti due (in una memoria del '68 sono 12 con l'impiego di 600 operai) parte de' quali lavorano alla Bolognese.., tutto provenuto dalla franchi ggia".
I primi ad opporsi al mercato sono i beccai. In una supplica alle autorità veneziane, espongono non tanto i danni alla loro arte e al loro commercio, ma, abile mossa, il diminuito introito alle casse dell'erario per la mancata esazione del dazio sulla carne. Via via si associano alla protesta tutti i botteghieri, le varie arti e fraglie.
Il tema dei danni al pubblico erario è il leit-motiv che accompagna le loro suppliche. Da tutte le città della Terraferma giungono fedi che testimoniano come la concessione data a Treviso è in senso assoluto un privilegio (21). L'opposizione assume i contorni di una vera e propria serrata, con processi e condanne. La protesta trova presso i governanti veneziani degli interessati ascoltatori. Vengono aumentate le offerte per gli appalti dei dazi. Alla fine, il 30 aprile 1670, il mercato viene sospeso. Già nel '63, il Senato veneziano si era occupato del problema, ammettendo che molti mercati erano stati concessi con troppa larghezza, approfittando del fatto che bastava la metà dei voti per far passare la-concessione. In effetti i dazi non venivano pagati, anche per contingenti difficoltà di controllo. Inoltre, si faceva notare che tali mercati portavano "confusione e deviamento de' contadini dall'opera nella campagna" (22). S'innescavano anche motivi di ordine sociale. D'ora in poi, recita la parte del Senato, la concessione di nuovi mercati doveva ottenere i 4/5 dei voti e durare 5 anni con possibilità di rinnovo.
Treviso difende il suo mercato! Già nel '48 aveva ottenuto l'abolizione del
mercato franco di Badoere. Dietro garanzia che venga pagato il dazio del vino e
della carne, nel '75 il mercato viene riaperto, invitando "cadaun cittadino mer

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cante, e altri territoriali e esteri a portarsi al loco di detto mercato (fuori la porta di 5. Tommaso) che saranno sempre aggraditi, acciò nel concorso insorga l'affluenza delle cose, ci in quella l'universal sollievo".
La lunga parentesi dedicata alle vicende trevisane, ci serve da termine di paragone per seguire le sorti del nostro mercato a Follina. In nostri mercanti, i nostri botteghieri non danno vita a proteste così esplicite e organizzate. Adottano, per così dire, una tattica più morbida, ma efficace: non si presentano con le loro merci al mercato. Cominciano così a piovere le denunce; erano infatti perseguibili penalmente. Ecco alcuni esempi: nell'ottobre deI '50 viene denunciato Antonio Bellini dalla Pieve, per non essersi presentato "con robe di sua bottega ". Così Benedetto Broleo e Anzolo Saio dalla Follina, fabbro (23). Anche per la mancata partecipazione alla Fiera c'era la possibilità di venire denunciati; è il caso di Francesco de Col da Visnà, denunciato nell'ottobre del '50. Si difende dicendo che era partito per Venezia (24).
Oppure la denuncia colpisce più mercanti assieme, come nell'aprile del'SO, allorchè il zelante officiale Piero de Orazio rinvia a giudizio due mercanti di Visnà e tre dalla Pieve. Generalmente venivano condannati alle sole spese processuali e graziati dal Conte. Ma è significativo come la mancata frequenza del mercato risulti così diffusa e praticata tra i botteghieri e i mercanti.
Lo stesso divieto di esportare animali da carne, più volte ripetuto nel corso degli anni, viene spesso e volentieri infranto da mercanti locali, che preferiscono piazze ben più frequentate e remunerative. E il caso di Marco Arzenta e Donà de Lazzari da Visnà, che nel mese di maggio del 1651, conducono al mercato di Montebelluna una trentina di capi, acquistati nella Contea (25). Al momento dell'arresto, Marco Arzenta viene perquisito; ecco la nota di quanto "trovato/i nelle scarse/le: 9 reali, 3 scudi, 2 ducatoni, i cechino, un soldo e due bezzi, un libretto piccolo da conti per scriver, un ca/amaro". Denaro contante quindi e gli strumenti necessari a tale tipo di mercatura ambulante e di campagna. Erano a volte gli stessi beccai a rendersi colpevoli di esportazione di carni, come Francesco Agostinetto di Miane, accusato di esportare ogni otto giorni dei carichi di carne verso Montebelluna,Treviso e Venezia (26).
Sono testimonianze eloquenti e confermano l'ipotesi, su cui torneremo, che gli agenti del commercio preferivano altre piazze e altri circuiti. La conferma viene anche dalla fede giurata che Benedetto Broleo da Follina e Giacomo Bortolini da Visnà inviano ai governanti trevisani, in cui affermano che è loro abitudine recarsi nella Patria del Friuli a vendere panni.
Torniamo però per un momento alle Sorti del nostro mercato. Nel'52 il Cancelliere annota che venne tolto "il casotto" del mercato della Follina, per mancata frequenza (27). Poi, il silenzio della documentazione ci porta ad ipotizzare che il mercato si sia estinto per mancato concorso di merci e di compratori.
Nel 1696 il Senato Veneziano chiede agli Inquisitori sopra i dazi "se in questi ultimi anni vi sia degrado ne/li dacij del/a Terra Ferma. . . se l'istituzione de' mercati porti danno a' medesimi c/acij"(28). Le concessioni si fanno più difficili. Alla richiesta del comune di Nervesa di istituire un mercato settimanale, Treviso si oppone e chiede di essere ascoltata. Nell'agosto del 1732, una richiesta in tal senso da parte della città di Belluno, resta insoddisfatta (29). E sarà proprio Belluno, alcuni anni più tardi, nel 1758, ad istruire un processo nei confronti delle comunità dell'Alpago che si erano permesse d'aprire un mercato in Puos (30). Appare oramai evidente come la preoccupazione per lo stato delle casse dell'erario pubblico e motivi di ordine sociale consiglino le autorità vene-

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ziane a bloccare queste concessioni.
Tornando alle sorti del nostro mercato, è da segnalare una testimonianza resa dai merighi della Valle il 4 dicembre del 1740: attestano che nella Contea si tiene un solo mercato di "biade alla domenica, in Follina, ma che è cosa di poco conto, non essendovi che quindici o vinti sacchi"(31). La scarsa vitalità del mercato è attestata in una relazione inviata dal Cancelliere di Comunità, il 3 giugno del 1790, ai Revisori e Regolatori delle Pubbliche Entrate in Zecca, magistratura a cui compete ora il controllo dell'importante materia dei dazi. Scrive il funzionario: "Dirò dunque che questi mercati si riducono a piccioli giri di commercio, poiché il mercato che si dice del/a Fo/una introdotto ad immemorabili a comodo di questa popolazione, e che si fà il lunedì della settimana dopo suonato il mezzodì, consiste unicamente nella vendita e compreda di poca biada per l'occorrenza di questi sudditi poveri, vendendosene dieci, o quindici sacchi al più per volta"(32). Continua invece l'antica abitudine di porre in vendita, davanti alla chiesa della Pieve, alla domenica, per due ore al giorno, merce di vario genere, e ", . , vi concorre da circonvicini villaggi gente per smercio, e compreda di vari generi commestibili". Inoltre, informa il Cancelliere, vi sono tre "piccoli mercati o siano sagre": 5. Filippo e Giacomo a Maren, 5. Simon e Giuda a To-vena e S. Tommaso a Miane. Vengono venduti animali suini lattanti e vi è
,.un piccolo smercio di te/le e bassa merceria, ed alle volte coll'intervento di qualche orefice per il bisogno delle femine de campagna". La continuità di questi mercati, o meglio la sopravvivenza, è dovuta più a motivi di ordine sociale e antropologico che ad intensi circuiti di scambio e a vivacità economica. Ancora nel 1802 il Cancelliere si premurava d'informare i nuovi governanti che "Un solo mercato si fa settimanalmente a/la Fol/ina, ove vengono introdotti dalle a/iene Giurisdizioni li grani per la sussistenza del Terriroio"(33). E in un capitolo precedente attestava che "Non essendovi dunque generi in alcun comune, o villa di soprapiù del bisogno da vendere, anzi mancando questi nella maggior quantità.,.", risultava inutile obbligare i distrettuali a condotte forzate di merci per l'esercito.
Interrompiamo qui la narrazione delle vicende di questo mercato, voluto e imposto dall'autorità feudale e dal governo comunitario della Valmareno. Nel corso dell'Ottocento verranno poi avviati molti mercati locali, meno gravati da vincoli e gabelle. Ma questo è un altro capitolo. Analizziamo ora i possibili motivi di questo fallimento e di questo mancato successo.

Contro il mercato: i mercanti, le botteghe, il fisco e... altro.

Precisiamo subito che qualsiasi mercato è legato alle alterne congiunture economiche, e che quindi la vicenda del nostro mercato è simile a tante altre. Diamo anche per scontato questo: che esistevano una molteplicità di mercati, sia per scadenza (settimanali, mensili, annuali), sia per statuto fiscale (normali, franchi sempre o liberi una volta al mese). C'erano inoltre mercati di "privato diritto", come ad esempio il nostro, o quello vicino di Collalto e di 5. Lucia, o quelli vicentini di Gazo, Camisan, Montegalda. In questo caso l'esazione di eventuali dazi spettava ai Feudatari investiti. Alle volte la franchigia riguardava solo alcuni generi. E il caso per esempio di Noventa, di Schio e di Montebello, sempre nel vicentino, esenti una volta al mese per i soli animali.
Inoltre esisteva una specializzazione tra i diversi mercati. Grosso modo due
erano i generi che specializzavano un mercato: gli animali da una parte e i grani

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dall'altra. In età moderna risultavano di una certa importanza i seguenti mercati: (la lista è puramente indicativa)

per gli animali: Cittadella, Bergamo, Padova, Brescia, Vicenza, Montebelluna e Tiene per i cavalli.

per i grani: il grande mercato di Desenzano, (34), Crema, Verona, Schio e Vicenza. Ogni città poi curava in modo particolare il mercato delle biade per l'evidente importanza alimentare.

Altra differenza importante: quella tra mercati rurali e mercati cittadini, sia per la qualità e la quantità delle merci esposte, sia per la frequenza, sia per il maggior controllo degli organi fiscali sul mercato cittadino. Il mercato rurale raccoglieva le possibili e rare eccedenze dei bilanci contadini. Scrive al proposito Kula: "Ma il piccolo agricoltore vende poco sul mercato: il consumo domestico, il mantenimento del bestiame, le scorte per le semine, talvolta i compensi in natura alla mano d'opera occasionale, assorbono solitamente non meno del 75%, ed a volte tutta la sua produzione" (35). Non solo, ma poichè tutto o quasi il raccolto di cereali viene consumato all'interno della famiglia, allora sono i prodotti deperibili (frutta, verdure, latticini, carne) ad essere immessi nel mercato, come "frutto di una parte marginale" della attività di un contadino. Si verificano perciò grandi oscillazioni di prezzi, "non solo annuali, ma stagionali, settimanali, ed anche giornalieri in dipendenza di circostanze casuali che facilitano od ostacolano gli spostamenti del contadino (maltempo, sagre nelle località viciniori, feste di nozze campagnole ecc.). Il piccolo venditore non "vuole" riportare a casa i suoi prodotti e qualsiasi prezzo (attesa anche la grande difficoltà di effettuare un calcolo dei costi) è per lui conveniente" (36). E da precisare poi che spesso veniva proibito al contadino di recarsi al mercato con i propri prodotti. È il caso dei contadini russi, che per secoli furono impediti dalle compagnie mercantili di commerciare i loro prodotti (37).
In termini teorici, diverso è poi il comportamento economico dei protagonisti dello scambio, riguardo all'impiego del denaro nelle transazioni. C'è il mercante capitalista, così bene descritto da Marx, che "parte dal denaro D, compra la merce M, per tornare regolarmente al denaro, secondo lo schema DMD, e non si separa mai dal denaro se non con l'intenzione sottintesa di recuperarlo. Invece il contadino si reca per lo più a vendere le sue derrate al mercato per comprare ciò di cui ha bisogno: parte dalla merce e ad essa fa ritorno, secondo lo schema MDM" (38). Simile è il comportamento dell'artigiano, che si reca al mercato per soddisfare i suoi bisogni. Non è questa però la sede più adatta per inoltrarci in questi problemi.
Interessante invece appare l'esame delle motivazioni addotte dalle autorità veneziane nel momento in cui concedevano il mercato. Preciso subito che l'analisi si basa sullo spoglio, non completo ma limitato ad alcuni anni, delle parti del Senato Terra relative a tale concessioni. Sarebbe più corretto prendere in esame le suppliche presentate dalle varie comunità, anche perché è probabile che nel Senato Terra, siano registrate solo le parti che accolgono la supplica, mentre numerose potrebbero essere le richieste cassate. A questo proposito già si accennava che attorno agli anni '70 del '500, è diffusa l'opinione secondo cui l'istituzione di un mercato o di una fiera avrebbe innescato meccanismi di sviluppo e di abbondanza, mettendo al riparo comunità e città dagli effetti disastrosi di carestie e crisi. Ancora nel corso del '600 e oltre, le suppliche insistono su questo motivo. Altre volte invece la concessione insiste su motivazioni di ordine pratico, come ad esempio la lontananza della comunità dalla città o lo stato pessimo

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delle strade, o l'isolamento dei villaggi. Spesso è avvenuto che, al momento delle spontanee dedizioni delle varie comunità a Venezia, specie nel corso del '400, venisse loro concesso l'ambito privilegio di far mercato. È il caso di Lonato, Lazise, Peschiera, Desenzano (39).
Ma vediamo più da vicino alcuni esempi. L'8 settembre 1584 viene concesso al comune di Noventa di Piave di far due mercati all'anno, essendo "accresciuti al presente in molto numero"(40). In questo caso è lo stesso Podestà di Treviso, a consigliare tale istituzione. Come pure il Podestà di Peschiera, Leonardo Mocenigo, che consiglia nel 1616, l'apertura di un mercato "perché quando ciò si effettuasse li habitanti crescerebbero al sicuro in numero, rispetto al negotio, li soldati acquisterrebbono trattenimento, l'aria per rispetto de' fuochi si farrebbe più temperata nella sua infelicità"(41).
La concessione di due fiere alla città di Bassano, nel 1582, viene decretata con la speranza "che con tal mezzo si accresceranno in essa i tra fichi, si farà maggiormente populata, ci le genti più industriose con comodo loro, ci con servitio delle cose nostre"(42).
Oppure, è il caso di Bovolenta, nel Padovano, è la vicinanza al fiume a consigliare la concessione "rispetto la facilità granda, di condurvi per li fiumi à quel luogo vicinissimi molte sorte di vettovaglie"(43). Agli abitanti di Zeriolo, Morgan e Settimo, nel Trevisano, viene concesso il mercato, nel 1689, "attrovandosi... in mezzo a strade profonde, lontane da luoghi, in strettissime angustie, senza modo di provedere al proprio bisogno" (44). E ancora, a fine settecento, gli abitanti di Visnadello ottengono il privilegio, "inteso. .. il pregiudizio che risentono i villici di Visnadel nei lavori del/a campagna, e degli edifizii, di dover per le grandi distanze che si frappongono d'altri mercati procacciarsi il bisognevo/e al loro sostentamento"(45).
Diversa invece la motivazione con cui viene concesso ai Conti Pola, il privilegio di tenere un mercato a Barcon, vicino a Montebelluna. Si tratta di un mercato d'animali, due volte al mese, per ". . . utili oggetti di migliorare la coltura di vari terreni, di fecondar estese pradarie, e quindi di promuovere la tanto desiderata dilatazione della specie bovina e pecorina (46). La raccolta dello sterco prodotto dagli animali, avrebbe permesso un'abbondante concimazione di prati e aratori. Alla concessione si oppone subito il comune di Montebelluna, che teme giustamente la concorrenza (47).
Altra motivazione, rara, quella con cui si concede alla città di Bergamo un
mercato franco d'animali ogni sabato; viene concesso per il corso favorevole
delle monete in quella piazza (48).
Diversi quindi i motivi e diverse le speranze e le attese. Tutte le concessioni vengono date a scadenza: tre, cinque e più raramente dieci anni, generalmente rinnovabili. Un modo come un altro per controllare questo momento importante dello scambio. Momento che aveva anche dei risvolti importanti dal punto di vista fiscale. Continua e costante appare infatti la preoccupazione di salvaguardare i dazi, cospicua entrata delle casse dello Stato. Ma è a partire dalla seconda metà del '600 che la preoccupazione si fa allarme. Troppe le franchigie concesse; troppi i mercati. L'eccessiva polverizzazione della distribuzione rendeva difficile l'opera degli esattori e frequenti i contrabbandi, specie nelle zone di confine, con grave e incalcolabile danno delle varie Camere Fiscali.
Delicato e serio il problema dei dazi! Continua e costante la vigilanza dei
Rettori delle Città di Terraferma. Già nel lontano 1524, Marc'Antonio Contarini, Podestà di Vicenza, si era permesso di far notare ". . . come in diverse ville di

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quel territorio da non moltissimi anni -. . sono moltiplicadj assai marcadj, che si fanno in diversi zorni della settimana, quali per opinion mia sono molto dannosi a li dacij de Vostra Serenità in quela Cità de Vicenza, che sono tre a la settimana, e! mani, zuoba et sabado, già concorreria molto mazor numero de contadini con robe, qua/li, come è notissimo a Vostra Serenità, bencfficiarono grandissimamente li dacij, perché tutto quello che consumariano ci trazeniano de la Cità, è daciado; oltre che portariano robe assai, che faria molta più ubertosa la Cità de Vicenza et più comoda (49).
Non solo quindi sulle merci vendute, ma anche sul continuo consumo di carne e vino durante i giorni di mercato si basavano le maggiori entrate del fisco. Continua poi il Podestà, toccando un altro delicato problema: "Taso Principe Serenissimo, che questi tal mercadj sono bona causa di far far infiniti contrabandi ct desviano non pocho li contadinj da li suoi exercitij ruralli. La Serenità Vostra potria metterlj modo et lassar li piui neccssarij et levar li superflui".
Gli fa eco, circa un secolo dopo nel 1639, il Podestà di Rovigo, preoccupato anche lui perché "... di presente tanti sono li mercati, che quello di Rovigo è il più debole, ci il più estenuato di negotif, mentre tutti li contratti si maneggiano sopra li mercati del territorio, e de lochi vicini, ci sopra li medesimi le biave, vini, animali, mercantie, et negotif non pagano cosa alcuna al dacio grande (50).
Prima, nell'unico mercato della Città, frequentate erano le osterie e ". . . da questo flusso di genti, che capitavano coll'occasione di detto mercato in essa Ctta, perveniva l'esito delle mercantie de bottegari, et oltreciò li pistori consumavano grani in gran quantità convertiti in pane". Inoltre, "sendo li negotij sotto gl'occhi del daciaro, facile gli riusciva l'essattione del dacio da contraenti, nè poteva essergli negato il pagamento.
L'intervento dei governanti, a partire dalla fine del 1600 e nel corso del '700, sarà rivolto a: limitare le concessioni di nuovi mercati; richiedere alle comunità i titoli originali dei loro privilegi; restringere le franchigie concesse a determinati giorni e a particolari generi, evitando dove possibile di concedere franchigia per vino, carne e generi commestibili, il cui consumo garantiva alte entrate per i corrispettivi dazi.
Lo stesso Podestà di Treviso, Flaminio Corner, nel corso del 1793, procede a delle frequenti visite in persona ai mercati (specifica che 34 sono state le giornate spese a tale scopo) per impedire "inchiete e monopoli" e per sorvegliare la regolare esazione dei dazi (51).
Ma per tornare al nostro mercato e alla nostra Contea, vale la pena di specificare quali erano i dazi che gravavano sulle merci e a chi spettava l'esazione. Esisteva il grande dazio della "Muda o della Traversa ", i cui introiti spettavano alla famiglia signorile, come privilegio dell'Investitura del 1436. Tale dazio colpiva tutte le merci in entrata e uscita dalla Contea. Ho schematizzato in una cartina il funzionamento ditale dazio, che il Conte affittava agli osti delle regole interessate: Tovena, Follina, Maren, Miane, Pieve (Vedi cartina n. 2). Nel 1689 l'appalto della "Muda" rende al Signore 152 ducati. Rinvio in appendice la spiegazione del complesso funzionamento del dazio, i capitoli e la tariffa (Vedi appendice n. 1).
Qui basti dire che l'esame attento della tariffa documenta l'intenzione dei Giurisdicenti di favorire quanto più possibile l'esportazione dei prodotti e dei manufatti dell'artigianato locale. Non pagavano dazio coloro che esportavano:
panni di lana, botti e recipienti di legno, pelli e vesti di cuoio, strumenti di fer-

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ro, "pignatte" di terra cotta, carbone. Due le condizioni che gli esportatori dovevano soddisfare per ottenere tali agevolazioni: essere "habitanti in Va! Marino, che sostengono li carichi et fattioni pubbliche", e che la merce esportata, "quella con le proprie mani haveranno fatto", non sia già venduta. Nessuna agevolazione invece per chi esportava animali e prodotti dell'agricoltura, biade, vino, paglia e fieno, esclusi gli affittuali che dovevano saldare i loro canoni fuori Contea.
Ma questo era una gabella che gravava sul transito delle merci. Esistevano però diversi dazi che colpivano le merci alla produzione o al consumo. Ecco l'elenco dei dazi che correvano nel 1682 e che andavano saldati alla Camera Fiscale di Treviso, il cui Podestà era Giudice Delegato in tale materia:

Per la seta: ducati 50 per ogni fornello da giugno sino al 10 agosto; se qualcuno
vuol trarre seta anche dopo, deve pagare 8 lire al giorno.
Il dazio "bolle de panni":
Per ogni panno alto L. 2:6:9
per ogni panno basso L. 1:3:4
per "rasse e stamctti" L. 1:3:4
per le "mezzelane" ogni 4 braccia L. 1:1:-
Il dazio dei cappelli:
per un cappello grande: soldi tre
per un cappello piccolo: soldi due
Il dazio della carne: un soldo per ogni "lira" di carne venduta.
Il dazio delle pelli: per ogni pelle secca "conzada" soldi 3 piccoli 9
Il dazio della macina: si doveva pagare soldi 17 per ogni sacco di frumento o "biada grossa". Ma gli imbrogli dei daziari hanno convinto la Comunità, nel 1682 a levare l'appalto a Treviso per L. 2.100.

Questa cifra viene poi ripartita sulle persone dai tre anni in su, esclusi i poveri. La ripartizione avviene sulla base della "Colta" personale, che si basa sull'estimo.

Il dazio del "pestnino": lo pagavano i panettieri, "pistoni", della Valle; ogni sacco di frumento una lira. A questa data veniva però preso in appalto da qualcuno della Valle che poi si accordava con i "pistoni". Veniva appaltato per mille lire.
Questi dunque i dazi che correvano (52). In occasione del mercato, la franchigia valeva solo per la "Traversa", e non per gli altri dazi che dovevano essere
regolarmente pagati, in quanto pertinenti alla "Serenità del Prencipe".
Chi eventualmente ci rimetteva non era tanto li Signore, che riscuoteva comunque le sue rate d'appalto come stabilito, quanto l'oste che si vedeva privato di un'occasione unica per l'afflusso e il transito di merci durante i giorni di mercato. Oste su cui gravava anche l'eventuale manutenzione dei transiti e dei passi. È il caso di Tovena, il cui oste doveva garantire la transitabilità del Passo S. Boldo, che comunicava con il Bellunese. E qui il nostro esame tocca uno dei motivi, una delle possibili cause, assieme ad altre che vedremo, del mancato successo del mercato nella valle: lo stato delle strade e le difficoltà dei trasporti.
La manutenzione delle strade pubbliche, delle piazze spettava alle singole regole e precisamente andava a carico dei regolieri che a "rodolo" dovevano contribuire con servizi di opere e carriaggi. Era una delle tante gravezze che pesavano sulla comunità. Spesso il Podestà e, a volte lo stesso Conte, dovevano intervenire con dei proclami per obbligare i merighi a comandare i lavori di manutenzione. Ma lasciamo la parola al Cancelliere che riferisce ai superiori, nel

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1802, sullo stato delle strade. "Parlando primieramente delle strade, queste si trovano ristrette, cd in cattivo stato, perché ma! governate, mentre cadendo a peso dei villici il riattamento, non si curano di tenerle in acconcio, anco per non distacarsi dalla agricoltura, che tanto lor deve premere". Passando poi ai mezzi di trasporto, continua: "Le condotte si effettuano con carri a bovi, ma più a vacche; si ejjèttuano pure con animali a somma, con cavalli e, spessissimo con somanel,'i. Li carri benchè a quattro ruote sono di forma angusta, come le strade, e non si noleggiano, che per le occorrenze del paese e nell'interno. I prezzi del loro noi/o è di soldi trenta per miglio"(53). Ciò sta a significare che un carico di merci da Cison a Pieve, che distava 6 miglia, costava nove lire. C'è da aggiungere che in un passo seguente, il funzionario, riferendosi ai mugnai, ci informa che il trasporto "... dei grani ai mollini si effettuano a somma dai mollinari coi loro mulli e somarelli, ed alcune volte dalli rispettivi proprietari a spalle". Infine aggiungeva che "... le manifatture dei lanificio si spediscono sopra carrette", mentre i vini e i prodotti caseari venivano trasportati a dorso di mulo. E indubbio che le difficoltà legate al cattivo stato delle strade, influivano negativamente sulla celerità delle consegne.
Questo dunque lo stato delle strade della Contea, che si sommava ad un altro fattore che secondo noi, giocava a sfavore del mercato e del suo auspicato successo: parlo della marginalità della Contea rispetto ad altri più intensi circuiti commerciali e ad altre vie di transito. Penso soprattutto al traffico che risaliva verso il Bellunese e i Paesi Tedeschi attraverso il Fadalto passando per Serravalle. Oppure all'altra via battuta, che portava nel Bellunese e nell'Agordino seguendo il corso del fiume Piave. Ma non è solo questo! Era la stessa posizione geografica a rendere la Valle emarginata, si fa per dire, rispetto alle altre aree.
La stessa lontananza da una città e la concorrenza di grossi centri vicini e confinanti, come Conegliano, Ceneda e Serravalle emarginavano la Valle. Ma si tratta di una marginalità del tutto relativa perché, lo vedremo più avanti, non era difficile per i mercanti locali tenere intensi rapporti con aree lontane e con la stessa Venezia. Le merci affluivano, anche le più rare e le più ricercate. Ma, conviene dirlo subito, affluivano non attraverso il mercato, ma con i mercanti e con le botteghe sparse nella Contea.
E qui apriamo una lunga parentesi su dei reali e strutturali motivi di debolezza e inferiorità del mercato. Non facciamo distinzione tra mercanti e botteghieri, in quanto spesso si identificavano gli uni con gli altri. A questi vanno aggiunti gli artigiani, che spesso accanto al laboratorio tenevano la bottega con gli articoli pronti per la vendita.
Perché la bottega era una temibile concorrente del mercato e non era così sensibile alle crisi congiunturali quanto il mercato? Diversi i motivi. Vediamone alcuni. Innanzi tutto il carattere di continuità e stabilità spaziale e temporale della bottega. Il cliente abituale, senza dover fare tanta strada, sapeva benissimo che durante tutto l'anno, a qualsiasi ora della giornata, sempre, avrebbe potuto soddisfare i propri bisogni e le proprie necessità presso il bottegaio di fiducia. E questo era un vantaggio non indifferente, rispetto al mercato, la cui saltuarietà e dipendenza da fattori esterni, la discontinuità della sede e del giorno di convocazione, ne sconsigliavano, o perlomeno ne rendevano disagevole la frequenza da parte degli abituali frequentatori. Inoltre c'era un fattore d'ordine psicologico:
tra le mura della bottega, lontano da sguardi indiscreti e da curiosi, il cliente poteva concludere tranquillamente i propri affari e intrattenersi con il bottegaio. Ma uno dei motivi che rendevano la bottega altamente competitiva risiedeva

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nella grande varietà e, a volte, rarità delle merci esposte. È sufficiente a questo proposito esaminare alcuni inventari di botteghe per rendersi conto della varietà della mercanzia venduta. Vale la pena di soffermarci su alcuni di questi inventari; tre in modo particolare, di altrettante botteghe poste a Cison, Tovena, Follina. I primi due presentano una certa omogeneità, e si riferiscono alle botteghe di ser Cornelio Fabbris di Cison e di ser Niccolò de Nadaletti da Tovena. La terza, di Lorenzo Savoini, è più specifica e legata all'attività di mercante del proprietario (54).
Se entriamo nei dettagli degli inventari, vi troviamo in abbondanza articoli vari legati all'industria tessile, assai fiorente. Vi figurano tele d'ogni genere e di varie misure; pezze di lana di diverse qualità e colori; fazzoletti, "cordelle" di varia altezza e colori; e poi "stringhe di corame", scatole di filo. Altra grande famiglia di mercanzia: la ferramenta. E qui chiodi di varia misura, brocche, denti da "grappa", martelli, tenaglie, acciaio, "stadicre"di diversa levata, bilance. C'erano inoltre zoccoli, forbici da sarto, tenaglie. Non mancavano i sacchetti con le specie dentro, e i barili con l'olio e il sale, le scatole con la polvere da sparo, le candele di "seo ". Ogni bottega poi teneva delle cose particolari; potevano essere strumenti musicali, come nella bottega di Tovena: un violino e una "citthera", o libri particolari. Presso le due botteghe troviamo "abbachi", libretti intitolati "Fior de virtù ". E poi risme di carta di vario tipo, libri "de carta pegorian da tenir conto" (Rinvio in appendice la trascrizione di uno di questi inventari) (Vedi appendice n. 2). La bottega del Savoini è un po' più specializzata, trattandosi di un mercante di lana, con alle proprie dipendenze parecchi battilana e tessitori. Immancabile poi il "banchetto dietro la tavola con scritture dentro".
È evidente che di fronte a questa ricchezza di articoli, alla novità di certi prodotti, alla varietà, soprattutto per la merceria, il cliente non aveva che l'imbarazzo della scelta. Da notare poi che questi mercanti bottegai erano in grado di soddisfare le richieste più stravaganti, essendo loro abitudine recarsi mensilmente a Treviso e a Venezia; o raggiungere le più importanti fiere, per rifornirsi delle ultime novità.
Non possediamo un elenco delle botteghe presenti nel '500-'600; il numero varia. Si trovano accenni sparsi, soprattutto nella documentazione notarile. Possediamo però per il 1740 un dettagliato censimento di tutti i botteghieri presenti nella Valle, con la distinta delle merci vendute e del capitale investito in immobili e mercanzie. Rinvio in appendice la descrizione dettagliata delle botteghe presenti (Vedi appendice n. 3).
Da questa catasticazione balza subito agli occhi l'estrema concentrazione delle botteghe. Su 34 "botteghieri" ben 21, cioè il 61%, sono residenti in Maren-Follina e Solighetto-Pieve, e detengono l'89% del capitale dichiarato, che era di 1.085 ducati. A questo polarizzazione della distribuzione al dettaglio faceva riscontro una disomogenea ripartizione del capitale dichiarato: quattro bottegai, due a Maren-Follina e due a Solighetto-Pieve, detenevano il 60% del capitale. Grosse differenze, quindi, tra il "pistor" di Maren che dichiara 150 ducati e quello di Tovena che ne dichiara 5. Come se non bastesse, 5 comuni su 12, denunciano l'assenza di bottegai. Questi comuni erano toccati da venditori ambulanti. Ne dà testimonianza Andrea Bernardo, "de nacione gnisona", cioè un grigionese, che dichiara "di non aver alcun capitale, solo che facio un pocho de giro venendomi fidato qualche bagate/a per pocho valore per fabnicare un pochi de buzoladi che a pena ho de fare a vivere . Come si può notare le botteghe,

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sono dislocate nelle due sedi di mercato: Follina e Pieve. È indubbio che durante il giorno di mercato aumentava la clientela abituale e le vendite venivano incrementate notevolmente.
Si diceva che anche l'artigiano abbinava laboratorio e bottega. Basta esaminare qualche inventano o qualche contratto di locazione. Fabbri, follatori, tessitori, concia-pelli, falegnami, bottai e altri ancora tenevano accanto al laboratorio una stanza, destinata all'esposizione e alla vendita dei loro prodotti. Ne cito uno a caso: Gaspare Bontempo, mercante di Cison, affitta nel 1621 per tre anni, a Jacomo Frisetto, tessitore del posto, "..due stancie à pè piano nella casa di detto bocator ioè la bottega e la stua contigua col forno, con rissenva a! patron di potersi servir si della stua come del forno per far il suo pan; con libertà d'accomodar il tellaro per l'arte sua de te/le in detta bottega, et con libertà di servirsi del pontego contiguo a detta bottega et stua per tenir l'ordinor, e ordir…" (55). Oppure possiamo citare il caso di Bortolamio Sasso, follatore di Cison, che affitta a mastro Sebastian dal Follo detto Braga, parte del suo follo con la "bottega posta sopra il follo'(56).
La presenza artigianale nella Contea era cospicua. Questo in teoria, avrebbe dovuto garantire un'offerta sulla piazza del mercato di merci varie e competitive. Ma già abbiamo visto come gli artigiani fossero restii, quando i botteghieri, a venire al mercato con la loro mercanzia. Preferivano, spesso affidare i loro prodotti a dei mercanti, o si associavano essi stessi a qualche mercante che curava la vendita della produzione. Numerosi gli esempi a nostra disposizione. Nel 1626, messer Isdrael Hebreo da una parte e mastro Zan Maria Cargnello dall'altra, decidono di fondare una società per la lavorazione delle tele "così de doppio come de ugnobo". L'Hebreo s'impegna, oltre a vendere la produzione nella bottega affittata, a consegnare al tessitore strumenti vari di lavoro, più "l'oglio che farà bisogno per lavorar de notte" (57). Altra compagnia tra m. Zan'Antonio Bellino de Solighetto e un suo nipote da S. Polo. Nel 1627 si accordano, con un investimento di 800 ducati, "per poter spender in andar a Venezia a levar, condur, far fillar et recondur quarti da fillar per conto de mercanti"(58). Il nipote s'impegna ad effettuare settimanalmente i viaggi. Decidono inoltre d'affittare una casa a Venezia per comodità della compagnia. E "…se per accidente senistro perisse dalle barche in acqua in andar e tornar per Mestre e per Treviso qualche bissacca de' quarti , il danno sia diviso a metà. Però "…la mercantia e il ncgotio predetto passi ci camini sotto'l nome et la marca di detto Bellino".
Ma le compagnie si formavano anche per il commercio e la vendita di prodotti di cui la Contea difettava. Ad esempio, nel 1599, m. Pietro Antonio Venzi da Miane e m. Remedio Delaido da Follina, "... hanno insieme ,fatto ci contratto società ci compagnia nella mercantia si di biade et vini, come d'ogn 'altra cosa (59). M. Delaido s'impegna ". . . fedelmente et studiosamente essercitare (tale compagnia) sì nella Città di Venetia come in cadaun' altro luocho…"
Questi, ed altri esempi, confermano quanto si diceva agli inizi del nostro lavoro:
ossia che per molte merci il mercato pubblico diventava l'ultimo e il meno gradito dei punti di vendita. Specie per i grani e le biade in genere, di cui la Contea scarseggiava continuamente, anche in anni di produzione normale.
L'esame attento di alcuni registri delle "Tratte biave", depositati presso l'Archivio di Stato di Treviso, ci hanno permesso di ricostruire l'intenso movimento di grani da Venezia per la Valmareno. Soprattutto negli anni di carestia, numerosi erano i mercanti che rifornivano la Valle. Possiamo prendere come esempio

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l'annata agricola 1587-1588. Diciamo subito che si tratta di anni critici e penuriosi. Vengono condotti in Valle da Venezia le seguenti quantità di biade:

qualità biade
staia
FRUMENTO 1.479
FAVA 1.774
MIGLIO 82
LEGUMI 45
SEMOLE 25
TOTALE 3.405 (60)

Numerosi i mercanti locali che trafficano in questi momenti; su tutti però emerge Lorenzo Savoini, che con 2.186 staia controlla il 64% delle importazioni. La famiglia Savoini monopolizzerà per decenni questi traffico di biade, anche nel corso delle crisi frumentarie del '600. Una volta in Contea, i grani venivano distribuiti non al mercato, come auspicato dalle autorità feudali e comunitane, ma attraverso le botteghe dei singoli mercanti, anche e soprattutto in giorno di mercato. Infatti, proprio riferendosi a questa annata agricola, '87-'88, abbiamo recuperato le distribuzioni delle biade fatte proprio dal Savoini. Dal settembre '87 al dicembre '88, il nostro mercante vende, a credito, si tratta infatti di impegni di pagamento "pro b!adis habuitis ci non solutis", grani per un importo di lire 18.150, pari a 2.927 ducati circa. Una cifra considerevole! Numerosi i clienti: 105, con una media di spesa di 173 lire a testa. Se poi vogliamo andare a vedere tra i libri dei pegni, troviamo che parecchi clienti insolventi, vengono pignorati dai zelanti ufficiali di corte (61).
Questa parentesi, per così dire annonaria, ci serve per illustrare un altro dei motivi della competitività della bottega rispetto al mercato: cioè la possibilità del credito. Ed era un vantaggio non indifferente per un consumatore, specie se contadino, poter soddisfare i propri bisogni e le proprie esigenze pagando al momento del raccolto. La disponibilità di denaro liquido era sempre poca, specie nelle zone rurali. E al mercato bisognava procedere al baratto, allo scambio in natura, o trovare degli acquirenti delle proprie merci per poter disporre del Contante necessario al pagamento.
Se torniamo infatti, per un momento ai nostri inventari di botteghe, immancabilmente vi troviamo l'elenco esatto e meticoloso dei debitori. Vediamo ad esempio l'inventano del Fabbris. Alla fine sono elencati 165 clienti che dovevano saldare, alla morte del nostro bottegaio, 3.143 lire, oltre 500 ducati. Oltre ai debitori c'è la distinta dei creditori, pochi, a dir la verità, e per lo più contadini che avevano venduto al bottegaio le loro "gabette" che sarebbero poi state filate durante l'estate con i due fornelli che c'erano sotto i portici. Il Fabbris, come tanti altri botteghieri e mercanti, durante l'estate si dedicava alla trattura della seta.
Questi dunque alcuni dei motivi che potrebbero aver contribuito al mancato successo dell'iniziativa. Difficoltà dei trasporti, marginalità della Valle, concorrenza della bottega hanno senz'altro giocato il loro ruolo. Ma c'è un altro aspetto del problema che va chiarito e segnalato. Sulle sorti di un mercato notevole influenza ha la concorrenza di mercati vicini o comunque facilmente raggiungibili. Già abbiamo visto come per i mercanti di bestiame fosse un'abitudine consolidata recarsi a Montebelluna o al più lontano mercato di Cittadella. E difficile calcolare l'area ottimale, il raggio di servizio di un mercato. Troppi i fattori che concorrono. Comunque, secondo Everit, che ha studiato in modo particolare i mercati inglesi, un mercato poteva servire in media 6-7.000 persone. Stessa

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percentuale in Baviera (62). A metà '600, la popolazione della Valmareno si aggira sulle 6.500 unità. Siamo quindi nella media. Situazione ottimale dunque, anche per l'estensione dell'area, 65 kmq.
Ma ai confini della Valle numerosi erano i mercati concorrenti, più antichi, più frequentati, che avevano dalla loro una secolare frequenza, consolidata, dalla consuetudine. Quanti e quali questi mercati concorrenti? Possediamo, per la fine del '700, un censimento dei mercati della Trevisana e delle zone contermini. Cominciamo con il territorio confinante a Nord della Valle. Nella Contea di Cesana esistevano due mercati annuali: uno cadeva il secondo giorno dopo la Pentecoste, e l'altro il 24 giugno, festa dedicata alla Natività di S. Giovanni Battista. Si trattava di mercati d'animali bovini ed erano franchi. Non c'erano mercati di biade e generi commestibili.
C'era poi la Contea di Mcl. Esisteva un'antichissima fiera, alla terza domenica d'ottobre, giorno di consacrazione della Chiesa Parrocchiale, fiera "d'animali bovini caprini e pccorini, merci di varie sorti di merceria, chincag!ie, dolci e frutta". Si svolgeva poi ogni lunedì un mercato franco di animali bovini e pochi ovini. Mcl aveva difeso, nel 1692, la sua franchigia dai tentativi di Feltre di sospendere il mercato. Ma ciò era risultato inutile, "pcrchè il paese è franco in ogni altro giorno, eccettuato del transito che è della Comunità ", e anche perché non può"... un mercato inveterato in un Paese Libero esser mai sospeso, massime per esser !'unico sostegno di questa popolazione" (63).
A Belluno, secondo una fede del 1668, si svolgevano quattro mercati all'anno,
in occasione di altrettante festività. Ma non si trattava di mercati franchi.
Ad est della Contea, si svolgevano due mercati: uno settimanale, a Ceneda, istituito sul finire del '500, e l'altro annuale e antichissimo, a Serravalle, il 15 d'agosto (64). Spostandoci più a Sud, già abbiamo accennato al mercato di Conegliano. Nella Contea di Collalto e 5. Salvatore c'erano due mercati e una fiera antichissima; al martedì un antico mercato a Collalto ove "non suo! convenirsi. .. se non che venditori et compratori di animali, polli ci biade". Il Cancelliere si premura di notare che in tal giorno non c'era altro mercato in un raggio di 10 miglia. Il lunedì invece si svolgeva a S. Lucia un mercato franco, istituito nel
1567, "... a benefitio solamente dc/li sudditi"; ma, precisa il Canceliere "Un tal mercato è infelice per il poco concorso tanto di animali, che di merci, et riesce di comodo a chi desidera provvedersi di polli, ovi, et simili commestibili". Anche questo, nel raggio di dieci miglia, dovrebbe essere unico in quel giorno. Evidentemente tale raggio era garanzia di concorso di gente e avrebbe dovuto porre il mercato al riparo dalla concorrenza. Sempre a S. Lucia, si svolge invece, il 13 dicembre, l'antichissima fiera, la cui origine ". . .è nascosta nell'antichità dci secoli.. . clvi ,Jì, permesso il concorso di ogni genere de anima/i e merci, con bettole di commestibili; vietato però ogni commercio di sale, oglio, tabacco, acqua di vite ed rosoli, polvere da schioppo ed altri generi de contrabbando ".
Questi dunque i mercati e le fiere concorrenti nelle zone confinanti. Nella
Trevisana invece, secondo un censimento di nove anni più tardo, 1799, questi
erano i mercati e le fiere che si svolgevano nel corso della settimana e dell'anno:

  • a Treviso il martedì
  • a Conegliano il martedì e il venerdì
  • a Montebelluna il mercoledì
  • a Casale il mercoledì
  • a Visnadello il giovedì
  • ad Asolo il sabato
  • a Collalto il martedì
  • a Badoere il giovedì
  • a Roncade il lunedì
  • a Noventa di Piave il giovedi (65).

    Si svolgevano poi annualmente delle fiere in tutto il territorio, che erano certamente concorrenti ai vari mercati. Vediamo dettagliatamente il calendario di
    queste fiere:

  • ASOLO 15 AGOSTO PER TRE GIORNI
  • CASTELFRANCO 23 AGOSTO e 2 SETTEMBRE
  • CONEGLIANO 6 NOVEMBRE PER OTTO GIORNI
  • NOVENTA DI PIAVE 16 NOVEMBRE
  • PADRANCIN DI CALLALTA 10 AGOSTO
  • TREBASELEGHE 7-8-9 SETTEMBRE
  • TREVISO 27 OTTOBRE
  • ODERZO 22 LUGLIO
  • VISNADELLO PRIMA DOMENICA DI OTTOBRE

    A queste va aggiunta la fiera di Mestre, il 10 agosto e il 27 settembre e i mercati di Noale, il giovedì, e di Mestre, il Venerdì e il martedì, "Senza boaria". Noale e Mestre, come altre podestenie, facevano capo per i dazi alla Camera Fiscale di Treviso.

A proposito delle fiere c'è da dire che forte era la loro concorrenza, rispetto al mercato. Innanzi tutto perché generalmente duravano per più giorni e avevano cadenza annuale. Inoltre, come scrive F. Braudel, "La fiera è baraonda, fracasso, musica popolare, festa, il mondo alla rovescia, disordine, talvolta tumulto" (66). E poi esisteva un calendario della fiere che favoriva la nascita di alcuni circuiti stagionali molto frequentati dai mercanti che si ponevano in viaggio con le loro mercanzie per più giorni, toccando i diversi punti.
Questi dunque i motivi probabili del fallimento, nel lungo periodo, del nostro mercato. Ci sono stati momenti di massiccia partecipazione e di entusiasmo popolare per il mercato; si trattava di congiunture favorevoli e di breve durata. Ma al di là dei tentativi perseguiti con costanza e determinazione dal Signore Feudale e dal governo comunitario, troppi erano i momenti di debolezza strutturale, relativi anche alla domanda e all'offerta e sui quali non non ci siamo soffermati. Ne abbiamo esaminati alcuni.
Il problema dei mercati andrebbe studiato in un ambito territoriale molto più vasto, visto che la loro sorte dipendeva anche dall'autorità dei governanti veneziani ed dalla capacità di controllo, ancora forte tutto sommato, delle città sui contadi.

Danibo Gasparini

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