Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°3 - 1984 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane

Graffiate

PER IL DIALETTO

Il dialetto è venuto di moda e gli facciamo, con molta apprensione, gli auguri. Perché, dall'essere di moda, il dialetto non avrà che da perdere.
I testi in dialetto si leggono ormai un po' dovunque: in libri, settimanali, giornali, in prosa e in poesia. E se ne vedono - è il caso di dirlo - di tutti i colori per cui, da sinceri amanti del dialetto quali siamo, proponiamo una serie di riflessioni che dovrebbero servire per quelli che hanno coraggio di scriverlo, il dialetto, e di farlo stampare.

1) Per scrivere bene in dialetto, bisogna parlarlo bene; e per parlarlo bene bisogna conoscerlo.

2) Affermare che il dialetto è una lingua, o è una banalità, o è un errore.
Se infatti per lingua si intende semplicemente un sistema di comunicazione orale fra i singoli componenti di una comunità, si può concludere che tutti gli uomini parlano una lingua e non c'è comunità, per quanto primitiva, che non parli la sua. Dire, procedendo da queste premesse, che il dialetto è una lingua, è una banalità.
Se per lingua invece intendiamo un sistema di parole complesso e com-pleto in uso comune tra i componenti di una comunità, per comunicare tra loro, non solo, ma come strumento di comunicazione nelle scuole e negli uffici, e nelle pubbliche istituzioni, usato per scrivere le leggi e i giornali, idoneo alla composizione di un testo di filosofia come di una cartella clinica o di una relazione scientifica: se per lingua intendiamo questo, affermare che il dialetto è una lingua è un errore.

3) Dire che il dialetto assume dignità di lingua perché e quando viene usato da un poeta è un altro errore.
Primo perché ogni dialetto ha la sua dignità a prescindere dal fatto che lo abbia usato qualche poeta. Secondo perché la "dignità di lingua" non è un livello di qualità che si possa contrapporre al dialetto.
Dialetto è bello, insomma. E la poesia, per il fatto di essere in dialetto, non offusca il suo nitore

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ove lo sia veramente.
E il dialetto, per il fatto di essere in poesia, non cessa di essere dialetto.

4) Chi scrive in dialetto, non solo deve conoscere le regole del dialetto, ma anche quelle dello scrivere. E deve fare una scelta precisa: cioè quella dei destinatari di ciò che scrive.
Ove egli scriva per i linguisti, per far loro conoscere un particolare tipo di dialetto, deve usare con rigore le regole dell'alfabeto fonetico.
Ove invece egli scriva per i parlanti quello stesso dialetto, ha il dovere di scegliere la forma più semplice possibile, perché tra i parlanti il dia-letto i linguisti sono pochissimi.
E viceversa.

5) Regola fondamentale e preliminare per chiunque scriva in dialetto è pensare in dialetto. Ne consegue che il testo dialettale non deve essere una traduzione in dialetto dall'italiano.

6) Chi scrive in dialetto deve scrivere il "proprio" dialetto.
Tentare di costruire un ipotetico dialetto del passato, magari indossando i panni di uno status sociale di altri tempi, è operazione priva di valore culturale.

7) Per quel che concerne la nostra regione, va detto che non esiste il dialetto veneto, ma esistono i dialetti veneti, simili ma diversi tra di loro.
A meno di inventare una specie di "esperanto" veneto (sul tipo di quello che è risuonato qualche mese fa in Parlamento per iniziativa di un de-putato che probabilmente pensava di far ridere, in tal modo, oltre che i colleghi parlamentari, anche tutti i veneti, nessuno dei quali parla quella specie di dialetto lì), il testo dialettale non può che essere espressione di una determinata zona.
Come per i libri, così per i giornali vale in questo caso la regola di in-dicare la zona a cui il dialetto del testo pubblicato appartiene.

8) Il dialetto non è un fatto paesano, per cui "difendere" il dialetto non deve essere come una difesa della paesanità, rispetto alla "Lingua" delle città. Anche le città hanno i loro dialetti, talora perfino distinti per quartieri, ed anche questo è un fatto culturale.
Mentre, dall'angolatura del paese, si sostiene giustamente la difesa del patrimonio dialettale, non si deve dimenticare il diffuso fastidio provato e denunciato in molte regioni d'Italia per il dilagare del romanesco in radio e televisione. E cosa era? "Difesa della "campagna rispetto alla

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"città" per antonomasia? o non piuttosto perplessità di fronte all'inva-denza di un dialetto nell'ambito di strumenti di comunicazione che, per essere nazionali, devono usare la lingua di tutti gli italiani? Come dire che la difesa del dialetto deve essere anche difesa dei suoi limiti. Farlo debordare, in qualsiasi modo, significa danneggiarlo. Dialetto è bello, insomma, purché dialetto sia. Fatto di comunità, non paesano. Con confini precisi, di espressività e di diffusione. Che vanno difesi.

9) "Insegnare" il dialetto a scuola è impossibile, inutile e ridicolo. Come insegnare a mangiare. 0 a crescere di statura. Il dialetto è la lingua di casa. La sua scuola è la famiglia. Lo si impara, fin dai primi mesi, con la vita. Insegnato a scuola sarebbe una cosa artificiale, sintetica, di plastica. Un falso, insomma. Dio scampi!
10) Un testo in dialetto non è per sè espressione di cultura locale. Le stupidagginí, le ridicolaggini, le banalità, le ... "monade", restano tali, sia che siano scritte in italiano, sia che siano scritte in dialetto.

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