Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°3 - 1984 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane

Rassegna Bibliografica

GINA PICCIN, Mi cante e conte, Vittorio Veneto, De Bastiani Editore, 1983.

E' la seconda fatica della concittadina Gina Piccin. Esce a tre anni di distanza da Il canto è vasto fiume, di cui ne costituisce la logica 106 prosecuzione. Rispetto alla produzione precedente Mi cante e conte infatti non presenta sostanzialmente grosse novità, almeno per quanto riguarda i contenuti. Troviamo qui infatti tematiche già note agli affezionati lettori della Piccin: dai motivi di schietta ispirazione intellettualistica (vedi "Fiol meo", "Ori e natura", "Tegnerse per man", "Ati che te 'a capì" e così via) ai temi più intimistici, legati alla tiepida rievocazione dell'infanzia e' della giovinezza (vedi "Elnostro Mesch", "Elmarcà de Seraval", "Lescoatine", per citarne alcuni). Forse l'unica novità che il libro presenta rispetto alla produzione precedente è quella relativa al linguaggio. All'uso della lingua nazionale, l'italiano, la Piccin, sull'onda di un "revival- che ha contagiato un pò tutti, sostituisce il dialetto vittoriese. L'operazione però non è sempre felice: il dialetto risulta infatti a tratti mal codificato nella fonetica e soprattutto nel lessico, ingenerando non poche perplessità nel lettore. L'arbitrarietà dell'operazione linguistica che la Piccin compie si rivela soprattutto laddove l'autrice, per esprimere temi e motivi legati alle esperienze presenti e passate, ricorre, per l'inadeguatezza lessicale e formale dell'idioma vittoriese, all'uso di una sintassi e di un lessico estranei alla locale tradizione popolare parlata e pensata nonché al conio di "neologismi" dialettali (leggi: imbruna, rifiuta, indifferenza ecc.) che richiederebbero almeno una opportuna definizione in via convenzionale del referente e dei ruolo poetico. Al di là di questo, comunque, il libro conserva una sua piacevolezza e - perchè no - una sua validità. Soprattutto laddove l'autrice, scevra da preoccupazioni intellettualistiche e retoriche, si abbandona alla rievocazione dell'infanzia e della giovinezza, e "comincia a chiamare le cose per nome ( ... ) con andamenti di cantilena, con lo stupore sempre nuovo di chi ascolta una favola". Qui Gina Piccin," poetessa senza letteratura", riesce a dare il meglio di sè, sia come donna che come artista. Pier Paolo Brescacin



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