Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°2 - 1980- Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigianae

Inediti e documenti

LUCIANO CECCHINEL
GABRIELLA DA RUI
GIOVANNI TONON

LA RACCOLTA INEDITA DI TRADIZIONI POPOLARI VITTORIESI DI LUIGI MARSON (1856-1914):
LE FIABE


La raccolta di fiabe e leggende diligentemente compilata in un eclettico dialetto veneto dallo studioso di tradizioni popolari Luigi Marson può indurre di primo acchito ad assumerne come scontata l'origine veneta. Probabilmente l'autore stesso, che non ha avuto il tempo di curarne la pubblicazione e quindi di stenderne un'opportuna presentazione, si era reso conto, essendo spesso usciti i suoi interessi e di geografo e di cultore di tradizioni popolari dall'ambito veneto, che contenuti e motivazioni simili a quelli rintracciabili nelle fiabe che aveva raccolto si potevano individuare in zone culturalmente e geograficamente distanti dalla sua regione.
Dare ad una fiaba una connotazione decisamente regionale è del resto sempre azzardato e assai diversificato è, di riscontro, il campo delle teorie che si sono misurate sul problema complessivo delle origini.



LUCIANO CECCHINEL; GABRIELLA DA RUI; GIOVANNI TONON.
Tutti laureati in lettere presso l'Università di Padova; di Revine Lago i primi due, di Vittorio Veneto il Tonon, attualmente insegnano. Portano avanti il lavoro di ricerca in equipe e separatamente per qualche argomento. Conducono anche proprie ricerche sulle tradizioni popolari vive del loro territorio.


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Sì ritiene pertanto qui opportuno condurne un'indagine comparata e sommaria in funzione diretta della valutazione delle fiabe inedite di L. Marson, indagine che si riferirà a tal fine oltre che al problema dell'origine anche a quello del valore socio-pedagogico.

Nell'ambito degli studi di fiabistica, ha avuto un ruolo capitale la scuola finnica, che ha esteso la sua ricerca alla conoscenza di tutte le versioni edite ed inedite delle fiabe in analisi: considerandone la distribuzione nell'ordine topografico e cronologico e comparandone le varianti, questa scuola ha da una parte rilevato le analogie e dall'altra eliminato gli elementi accidentali sovrappostisi a quelli antichi o originari nel corso delle vicende subite nello spazio e nel tempo; ma i risultati raggiunti, nonostante il rigore scientifico, sono spesso rimasti assai incerti.
Si può invece assumere come certo che le origini complessive della fiaba vanno individuate nel rapporto con i riti delle società primitive.
Il sovietico Propp, uno dei più illustri studiosi di fiabistica, nell'ultimo capitolo del suo volume "Le radici storiche dei racconti di fate", confrontando le fiabe popolari russe con le testimonianze degli etnologi sui popoli selvaggi, riesce a dimostrare come la nascita di molte fiabe popolari sia avvenuta nel momento del passaggio dalla società dei clan", basata sulla caccia, alle prime comunità stanziali agrarie: quando i riti di iniziazione caddero in disuso, i racconti segreti che li accompagnavano o precedevano cominciarono ad essere narrati senza più alcun rapporto con le istituzioni e le funzioni pratiche cui erano legati e, perdendo così ogni significato sacrale, diventarono storie di meraviglie, crudeltà e paure.
E mentre nel corso dei secoli l'antico rito lasciava di sé un ricordo sempre più confuso, i narratori avrebbero "sempre più servito le esigenze autonome della fiaba (1)". 'Te fiabe insomma sarebbero nate per caduta" del mondo sacro al mondo laico e ancora "per caduta" sarebbero approdate al mondo infantile, quasi ridotte a giocattoli" (2), esse che avevano conosciuto in ere precedenti funzioni rituali e culturali. "Attorno al primitivo nucleo magico le fiabe avrebbero progressivamente

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raccolto altri miti desacralizzati, racconti di avventure, leggende, aneddoti; accanto ai personaggi magici, avrebbero schierato quelli del mondo contadino". (3)
Ma se questo può essere accettato come un momento di gestazione comune per tutte le fiabe e leggende, il problema della provenienza topografica e dei vari movimenti rimane, in tutto il suo fascino, di difficile risoluzione.
I fautori della poligenesi, teoria pure sorta sull'abbrivio degli studi antropologici, sostengono che le fiabe, oltre che una nascita affine, ebbero uno sviluppo parallelo in tutto il mondo.
Partendo dalla premessa che racconti, pratiche e credenze compaiono sostanzialmente identici presso gli indiani d'America, gli aborigeni d'Australia e gli indigeni dell'Africa del Sud, alcuni studiosi di questo indirizzo hanno tirato, forse un po' forzosamente, la conclusione che "tutti i popoli sono passati attraverso le stesse fasi di cultura, e che in ciascuna fase i popoli reagiscono al mondo esterno comportandosi allo stesso modo". (4)
Questa posizione è parsa peraltro pericolosamente assiomatica ad altri studiosi che, sulla considerazione che "ogni popolo ha sviluppato la propria cultura secondo le sue particolari attitudini e secondo un intricato gioco di influssi esterni ed interni" (5) sostengono che "solo in un senso molto vago si può stabilire un confronto fra le varie fasi culturali di due diversi popoli, specialmente quando essi siano molto distanti fra di loro e abbiano avuto una storia molto differente" (7): le fiabe, aggiungono, oltre ad aver avuto diversi contesti di partenza, hanno seguito i popoli nelle loro migrazioni, assorbendo gli effetti dei conseguenti mutamenti storici e sociali.
Lévi-Strauss, il più grande etnologo vivente, riduce il confronto a una questione di metodo, riferendolo alla mancata soluzione del problema della storia in etnografia ed etnologia.
Da una parte starebbe l'esigenza del "Lavoro sul campo", da condursi necessariamente su una realtà determinata, e questo costituirebbe il livello di indagine spettante all'etnografia; dall'altra starebbe l'esigenza di procedere, tenendo conto della dimensione diacronica dei fenomeni, caratteristica della storia, oltre i confini dell'osservabile per spingersi alla ricerca e alla ricostruzione del passato: e questo costuirebbe

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il livello d'indagine dell'etnologia. Lévi-Strauss reclude quindi l'etnografia nell'ambito della storia e conduce l'etnologia sul piano di un'analisi che si definisce autonoma rispetto alla storia: l'analisi strutturale. Per quanto concerne nella fattispecie il problema delle fiabe - non si intende qui entrare nel merito del confronto formalistico-strutturalista intervenuto fra Propp e lo studioso francese - Lévi-Strauss, rifiutata l'ipotesi d ella derivazione delle fiabe da antichi miti caduti in disuso in ragione della loro compresenza preso attuali popoli "primitivi' e ravvisatane piuttosto una relazione di complementarità, ricorre alla distinzione fatta valere da De Saussure in ambito linguistico fra i due aspetti complementari di "langue" e "parole": "il primo è l'aspetto strutturale e appartiene a un tempo reversibile, il secondo è l'aspetto statistico e appartiene a un tempo irreversibile. In virtù di questa duplicità di aspetti che caratterizzerebbe la loro natura, miti e favole, a livelli di chiarezza rispettivamente maggiore e minore, presenterebbero sia una dimensione storica, sia una dimensione astorica: infatti da un lato si riferirebbero ad avvenimenti del passato, dall'altro manifesterebbero una "struttura permanente" che si riferirebbe al passato, al presente e al futuro". (7) Sul problema della fiaba sembra a questo punto prudentemente conclusiva una citazione di V. Santoli: "La circolazione internazionale nella comunanza non esclude la diversità" che si esprime "attraverso la scelta o il rifiuto di certi motivi, la predilezione per certe specie, la creazione di certi personaggi, l'atmosfera che avvolge il racconto, le caratteristiche dello stile che riflettono una determinata cultura formale". (8) Più dei componimenti di poesia, appunto perché non legati ad una forma fissa, quelli in prosa sono soggetti a frequentissime trasformazioni, contaminazioni, riduzioni, ampliamenti. Si può definire in fondo una fiaba di una certa regione, qualunque origine essa abbia, nella misura in cui ha assorbito "qualcosa del luogo in cui è narrata: un paesaggio, un costume, una moralità o pur solo un vaghissimo accento o sapore di quel paese". (9) Del resto "la tecnica con cui la fiaba è costruita si vale insieme del rispetto della convenzione e della libertà inventiva. Dato il tema, esiste

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un certo numero di passaggi obbligati" (10), per il Propp le "funzionalità (11), più o meno correlabili a certi personaggi, per altri i "motivi" semplici episodi o tratti salienti, veri e propri elementi articolari del racconto che hanno la forza di conservarsi e trasmettersi nel tempo. Ma le possibilità di collegamento di "funzioni" e "motivi' sono molteplici e molti studiosi di fiabistica hanno ravvisato l'opportunità di distinguerne le diverse combinazioni in "tipi": starebbe in fondo al narratore organizzare funzioni e motivi, stabilendo i collegamenti e arrivando altresì ad istituire nuovi sensi funzionali alle esigenze del tempo e del luogo. La critica recente ha messo nel debito rilievo questo aspetto del problema, che può essere trascurato quando la ricerca si rivolge alla fiaba con esclusive pretese di destrutturazione scientifica. L'americano Thompson, noto per il suo lavoro di classificazione dei "tipi" (12), ha dedicato ampio spazio alla considerazione della fiaba quale "living art". E in questa direzione si è constatato che l'arte di raccontare si rivela in popolani particolarmente dotati e che in certi paesi la funzione narrativa compete quasi esclusivamente alle donne attempate - nella fattispecie anche nel nostro -, in altri - il Propp lo ha rilevato per la sua Russia - di preferenza agli uomini. Nell'analisi sommaria delle teorie fiabistiche si è finora sottaciuto di quella che spiega l'origine delle fiabe col sogno, nata fin dal 1899 con L. Lainster, battezzata più tardi nel nome del padre della psicanalisi "freudiana".. Se infatti già il Lainster nell'opera 'Venigma della sfinge" aveva creduto di poter dimostrare che la chiave interpretativa di tutte le fiabe e leggende sta nel sogno, nuovo impulso ricevette questo indirizzo di ricerca dalla psicanalisi. Significativa a questo riguardo è l'opera 'Tiabe e sogno" di G. Jacob, pubblicata nel 1923, secondo la quale il timore o l'angoscia e, specialmente, il desiderio represso prendono corpo nei sogni in avventure, personaggi fantastici e situazioni paurose o irrazionali con una concatenazione di episodi che, pur sembrando ovvia e reale, si ha solo appunto nei sogni e nelle fiabe. La teoria psicanalitica ripresa, in chiave junghiana, da Lévi-Strauss con la concezione delle "strutture inconsce" soggiacenti alla vita sociale, è ancora lontana da una verifica di portata generale: al di là della

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recente e complessa posizione dello strutturalista francese, è stato comunemente contestato ai suoi sostenitori di non riuscire a spiegare nemmeno per approssimazione diversi momenti e diverse risultanti del patrimonio narrativo popolare. Ma alla psicanalisi, non in funzione di interpretazione gestativa ma di possibilità di utilizzazione educativa, si ancora il capitale saggio di B. Bettelheim 'T mondo incantato: uso, importanza e significati psicanalistici delle fiabe". (13). A modo di vedere dello psicanalista austriaco mentre "1a cultura dominante preferisce fingere, soprattutto quando si tratta di bambini, che il lato oscuro dell'uomo non esiste e professa il credere di un'ottimistica filosofia del miglioramento" (14), i bambini capiscono che in loro stessi esistono pulsioni negative e si rendono addirittura conto che spesso, anche quando sono "buoni", preferirebbero non esserlo. E questa consapevolezza, essendo in netto contrasto con quanto viene detto dai loro educatori, finisce per renderli dei mostri ai loro stessi occhi. Per Bettelheim mentre gran parte della moderna letteratura dell'infanzia non considera pertanto i profondi conflitti interiori che traggono origine dai nostri impulsi primitivi e dalle nostre violente emozioni, la fiaba prende molto sul serio le ansie e i problemi esistenziali quali, ad esempio, il bisogno di essere amati, la paura di non essere considerati, l'amore per la vita e la paura della morte. Il messaggio della fiaba, simbolico e semplificato e quindi alla diretta portata del livello intellettivo infantile, è che una lotta contro le gravi difficoltà della vita è intrinseca all'esistenza umana e quindi inevitabile, e che "soltanto chi non si ritrae intimorito ma affronta risolutamente avversità insospettate e spesso immeritate, può superare gli ostacoli e alla fine uscire vittorioso". (15) Formule conclusive rituali come "se non sono ancora morti sono ancora vivi" o "vissero felici e contenti", non portano il *bambino a credere nella vita eterna, ma gli indicano qual è l'unica cosa che permette di sopportare gli angusti limiti del tempo su questa terra: la formazione di soddisfacenti rapporti interpersonali. Problema esistenziale generale e, in particolare del bambino, è infatti quello di sfuggire all'angoscia di separazione. Solo uscendo nel

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mondo l'eroe della fiaba - il bambino in fase di autoidentificazione può trovare se stesso e, con se stesso, anche le altre persone con cui potrà vivere per il resto dei suoi giorni. E siccome "oggi i bambini non crescono più nella sicurezza di una famiglia allargata o di una comunità ben integrata, è ancor più importante che ai tempi in cui le fiabe cominciarono ad essere raccontate, fornire loro immagini di eroi che devono uscire da soli nel mondo e che, pur all'oscuro delle cose ultime, riescono a trovare luoghi sicuri seguendo la loro giusta via con profonda fiducia interiore". (16) "L'eroe viene aiutato dal fatto di essere a contatto con cose primitive: un albero, un animale, la natura in generale - così come il bambino si sente in contatto con esse più della maggior parte degli adulti". (17) La sorte di questi eroi convince quindi il bambino che, come loro, potrà ottenere aiuto e guida. "Oggi ancor più che in passato il bambino ha bisogno della rassicurazione offerta dall'immagine dell'uomo isolato che, malgrado ciò, è in grado di stringere relazioni significative e compensatrici col mondo che lo circonda". (18) E questo processo formativo si attua agevolmente attraverso la fiaba che, come già visto, è legata nella struttura e nel significato, ai riti "confirmatori" o di iniziazione, mediante motivi fissi comuni: la separazione, il divieto, la segregazione e l'integrazione.

La fiabistica popolare può consentire, attraverso vari percorsi di lettura, che vanno dallo specialistico -formale all'antropologico, allo psicosociologico e allo storico, di individuare gli elementi utili all'identificazione delle culture subalterne e alla verifica della loro autonomia e della loro dinamica all'interno di un territorio geografico-culturale. Evidenziare le trasformazioni socioculturali avvenute ed in atto ed analizzarne le inerenti cause, indotte e spontanee, può quindi consentire al ceto rurale una appropriazione politicamente critica dell'originarlo patrimonio orale -tradizionale. E la gente contadina probabilmente, lungi dall'essere stata culturalmente espropriata, sta affinando, di fronte a una pressione massificante senza precedenti, le capacità di mimetizzazione che le hanno consentito di conservare, attraverso secoli di soggiogamento colonialista, una propria identità culturale.

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In questa direzione sì considera opportuno, dovendosi del resto riservare a casi sporadici una lettura direttamente rapportabile a modelli classici, condurre un'analisi prevalentemente interna delle dieci fiabe raccolte dal Marson, sul reticolo costituito attraverso la seguente serie di variabili: esordio, ambiente, ruoli familiari e sociali, religione e oggetti di sortilegio, lingua, conclusioni e finalità. Per quanto concerne l'esordio le fiabe utilizzano generalmente le formule stereotipe "era 'na' olta an re", "era 'na 'olta an conte", "era 'na 'olta 'na femena", "era 'na 'olta 'na mare" .... A volte la formula esortiva è crudamente realistica e presenta una condizione di estrema miseria "era 'na 'olta 'na femena che fea la lavandera", "tu a da saver che era tre toáe e 1e therchea tute tre de 'ndar a servir' ma anche quando è di sapore curtense "era 'na 'olta an re", "an re e 'na regina", "an conte" tale connotazione si dissolve nell'immediato prosieguo della narrazione attraverso il filtro della mentalità rurale. Nella fattispecie '1a corte dei re è qualcosa di generico e astratto, un vago simbolo di potenza e ricchezza (19): "re" è un termine non specifico, che non implica alcuna istituzione e "si limita a designare una condizione facoltosa. Si dice pertanto "quel re" come si direbbe "quel signore", senza connettervi alcuna attribuzione regale, nè l'idea di una corte, di una gerarchia aristocratica e di uno stato istituzionale" (20). Il re rappresenta una condizione di vita preclusa ed agognata, il mondo opposto a quello contadino. Già l'esordio quindi, quando non è formalmente radicato ad una cultura europea di età feudale, connota sostanzialmente la situazione socio-economica e culturale dell'ambiente contadino, fissamente codificata in ruoli, rapporti, atteggiamenti e costumi. E, nel dipanarsi della narrazione, ecco comparire accanto alle notazioni ambientali (la campagna, gli animali, l'acqua e il fiume, il vento ' - gli alberi ... ), gli status sociali conseguenti al lavoro praticato (il contadino, la lavandaia, il boscaiolo, il cacciatore, la serva ... ), mentre sempre sottesi rimangono i valori impliciti e fortemente interiorizzati: da una parte il patrimonio esperienziale diretto, dall'altra un ethos caratterizzato da una schematica fissità. Come tutte le classi subalterne infatti, anche quella contadina perpetua rigidamente i modelli di riferimento sul comune denominatore dell'emarginazione dalle scelte, determinato dai secolari fattori

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della deprivazione culturale, della soggezione, della spogliazione economica, delle guerre e delle carestie. Per quanto concerne i personaggi, si impone all'attenzione l'alta percentuale di donne che popolano le fiabe (30 su 41) e si ha quindi l'impressione che la donna ne sia protagonista, oltre che in funzione interna, anche in funzione esterna, quale agente di narrazione. I contenuti presentati del resto evidenziano quell'intento formati-vo e socializzante alla cultura contadina che, almeno per quella età che si suole chiamare evolutiva, era demandata nelle nostre campagne alla donna. E in un intento formativo complessivo, si può isolare verosimil-mente la finalità di educare in particolare la figlia, in una esemplare complicità sessuale, significativa di una subalternità femminile in una cultura di per sé subalterna. Mentre da una situazione restrittivamente codificata compaiono nelle fiabe come uniche soluzioni di "uscita" il matrimonio con una persona di ceto sociale privilegiato o l'andare a servizio, la madre sembra trasmettere alla figlia un codice di difesa, chiaramente reso esplicito nell'espediente dello sdoppiamento della personalità (fantoccio) delle protagoniste delle fiabe "Amore de i tre garofoi" e "Orco". D'altro canto, se sempre vale l'ipotesi della funzione educativa, il matrimonio col "signore" viene presentato come strumento di emancipazione denso di rischi che possono risultare, nell'immanenza della cultura rurale, irreversibilmente pregiudicanti. E sempre nella fiaba "Amor de i tre garofoi" l'equazione signore-diavolo e la mancan-za dello straniamento finale, sembrano proprio avvalorare l'ipotesi del-l'intento educativo. Se poi, a quanto traspare dalle fiabe, i ruoli della donna sono co-munque sempre in subordine a quelli dei maschi, figli compresi, (Cu-thathendere, Amor de le tre naranthe), i pochi personaggi maschili pre-sentì sembrano pure confermare l'estraneità del padre al processo edu-cativo, al di là del filtro esercitato dalla donna sulla delega imposta. L'uomo compare in attributi di forza, autorità e temibilità e, dato un soggetto femminile, diviene necessariamente oggetto da rendere innocuo o da esorcizzare mediante la beffa o l'annientamento, qua-lora si presenti con attributi magico -simbolici. La figura maschile - l'uomo non compare mai in veste di marito

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contadino - sembra poi estrapolata dalla quotidianità rurale, in doppia chiave di proiezione: individuale e sociale. Se il vagheggiamento di uno status diverso è tipico di tutta una cultura subalterna, il fatto che esso passi necessariamente attraverso l'uomo, connota ulteriormente la condizione, femminile. Sempre considerando come agente di narrazione la donna, si constata che per l'uomo (in veste di re, conte o signore ... ), diversamente che per la donna, uscire dall'ambiente contadino è funzione normale e quindi reversibile, confermata dall'usanza di portare al ritorno i regali ai figli. E l'uomo, oltre a comparire in attributi simbolici e magici (Orco, Barbathucol, Gigante ... ), diviene in una fiaba, come già rilevato, anche diavolo; la connotazione cattolica appare però in questo caso sovrastrutturale, anche perché quest'uomo è in partenza un "signore". Non compaiono del resto nelle fiabe in analisi elementi di matrice cattolica, a prescindere dalle invocazioni, direttamente riferibili alla funzione narrativa, come intercalari o sovrapposizioni. Strutturale appare, invece, la personificazione di elementi naturali (sole, luna, stelle, vento ... ) riconducibile verosimilmente alla persistenza nell'ambiente contadino di concezioni animistiche; pure in questa chiave si possono leggere gli elementi di sortilegio: noci, nocciole, castagne... Nel complesso, quindi, gli aspetti religiosi, legati al concreto, non superano i limiti della contingenza: il sortilegio risolve bisogni ed interessi esistenziali senza rimuoverli o proiettarne la soluzione nella sfera ultraterrena. E il realismo dei contenuti coincide con la concretezza e la concisione del codice linguistico dialettale. Il linguaggio diviene sofisticato soltanto nei dialoghi con le persone estranee o di estrazione sociale privilegiata: in questo caso la marcata accentuazione di italianismi e venezianismi ("Siamo tre zonzele che zerchemo d'andar a servir", ghe vojo ben l'isteso. Quel che §e de mi, ge de ela") sottende il tentativo di appropriazione funzionale di un codice "eletto" e verifica quindi la coscienza di subalternità nel ceto rurale. Sempre nel legame al concreto, se non ci sono proiezioni ultraterrene dei bisogni, non ci sono nemmeno autentici "lieti finali": alla soluzione

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della fiaba fa di solito eco immediata lo straniamento che richiama ad un contingente irrisolto e quindi alla fissità dei ruoli di una stratificazione sociale subita. Ed è una notazione rassegnata, che oltre a differenziare queste fiabe dai modelli classici, le rende tipiche rispetto ad altre fiabe popolari, anche secondo una valutazione pedagogica: se il rituale finale lieto rinforza una prospettiva di fiducia, lo straniamento, dopo il finale lieto, ricacciando bruscamente alla realtà, preclude ogni possibilità di rappresentazione ottimistica del mondo. La rassegnazione non è peraltro priva, come nei molti proverbi, di arguzia salace: "a fat nothe orare composte, sorth peladhi, gat scortegadhi, balote de dhenever e mi che era là no i me a dit: - Cio 'n joth - e i me a dat 'na speathadha e i me a parà qua".


NOTE
1) G. RODARI, Grammatica della fantasia. Torino, 1973, p. 72.
2) Ivi, p. 7 3.
3) Ivi, p. 7 3.
4) P. TOSCHI, II.Folklore. Roma, 1969, p. 124.
5) Ivi, p. 124.
6) Ivi, p. 124.
7) F. REMOTTI, Léví-Strauss: storia e struttura. Torino, 1970. p. 194.
8) Dalla prefazione all'Indice delle fiabe toscane di G. F. D'Aronco.
9) 1. CALVINO, Fiabe Italiane. Milano, 1970, p. 20.
10) Ivi, p. 54-55.
11) W. PROPP, Morfologia della fiaba. Torino, 1976.
12) 1. THOMPSON, Motif-Index of folk-literature New England and revised

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edition. Voll. 6, Kopenhagen, 1955-58.
13) B. BETTELHEIM, Il mondo incantato. Milano, 1978
14) Ivi, p. 13.
15) Ivi, p. 13.
16) Ivi, p. 17.
17) Ivi, p. 17.
18) Ivi, p. 17.
19) 1. CALVINO, Fiabe italiane. Milano, 1970, p. 55.
20) Ivi, p. 56. 131


BLIOGRAFIA
1) G. F. D'ARONCO, Manuale sommarlo di letteratura popolare italiana. Udine, Del Bianco. 1961.
2) W. A. PROPP, Le radici storiche dei racconti di fate. Toríno, Boanghieri, 1976.
3) C. LE VI - STRA USS, Antropologia strutturale. Milano, Il Saggiatore, 1970.
4) W. A. PROPP, Morfologia della fiaba. Toríno, Einaudi, 1976
5) P. TOSCHI, Il Folklore. Rorna, Studium, 1969.
6) B. BETTELHEIM, Il mondo incantato: uso, importanza e significati psica-nalitici delle fiabe. Milano, Feltrinelli, 1978.
7) G. B. PELLEGRINI, Studi di dialettologia e fiologia veneta. Pisa, Pacini, 1977.

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8) C. LEVI - STRA USS, Razza e storia e altri studi di antropologia. Torino, Einaudi, 1971.
9) C. LEVI - STRAUSS, Il pensiero selvaggio. Milano, Il Saggiatore, 1971.
10) C. LEVI - STRAUSS, La struttura e la forma. Riflessioni su un'opera di W. Propp, in W.A. Propp, Morfologia della fiaba.
11) A. ZANZOTTO, Mistieroi. Feltre, Castaldi, 1979. Nota ortografica.
12) U. BERNARDI, Una cultura in estinzione. Venezia, Marsilio, 1976.
13) F. REMOTTI, Levi-Strauss: storia e struttura. Torino, Einaudi, 1970.
14) L CALVINO, Fiabe italiane. Milano, Mondadori, 1970.
15) E. MIGLIORINI - G. B. PELLEGRINI, Dizionario del feltrino rustico. Padova, Liviana, 1971.


NOTA LINGUISTICO - ORTOGRAFICA

Il manoscritto non si presenta linguisticamente uniforme: il sostrato, prossimo all'antico trivigiano, fa registrare per molti aspetti analogie con le odierne parlate bellunesi e va sincronicamente isolato sul diagramma spazio-temporale della zona vittoriese verso la fine del secolo scorso; ma sulla matrice antico-trivigiana si notano sovrapposizione

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di italiano, veneziano e vicentino. Se nei dialoghi con le persone estranee o di estrazione sociale privilegiata la marcata accentuazione di venezianismi e italianismi verifica, nel colorito e patetico tentativo di appropriazione di codici "superiori", l'equazione sociologico -linguistica, all'interno del parlato specifico del narratore la presenza di cadenze estranee alla zona e al periodo in cui operò il Marson sembra riferibile, oltre che ad aree e modalità diverse di raccolta, alla secolare infiltrazione dei codici veicolati dai poli mercantilistici. Gli effetti di tale influenza sono oggi ben misurabili nei cambiamenti intervenuti negli ultimi tre quarti di secolo nella parlata vittoriese e controprovabili nella "conservata" diversità dialettale di una zona co-me la Vallata, la quale, radicata fino ad un decennio fa ad un'economia agrario -artigianale, presenta parlate più vicine a quelle del bellunese, che ha avuto per molti rispetti le stesse sorti socio - economiche. Ritenendo pertanto che all'interno del parlato specifico del narratore i fenomeni di eclettismo, comunque più radi e smorzati che nei dialoghi, vadano direttamente riferiti ai citati processi economico-linguistici, si è considerato opportuno ridurli ad un'area prossima all'antico trivigiano. Ed essendo 1 operazione tacciabile di arbitrarietà, si riporteranno, assieme al testo "manipolato", le fotocopie dell'originale. Per quanto concerne l'ortografia, sono stati segnati "gli accenti acuto e grave sulla "e" e sulla "o" per una precisazione fonetica là dove il vocabolo veneto non presentava riferimento di somiglianza con il corrispettivo italiano o dove, pur esistendo questa somiglianza, diversa era la pronuncia della vocale. Ritenendosi naturale nel veneto nord-orientale la pronuncia tronca dei vocaboli con la finale in consonante, sono stati omessi i relativi accenti". (A. Zanzotto, Mistieroi). La iw' sorda è resa colla normale "s" italiana e la "s" sonora, quando il vocabolo che la contiene non é in corrispondenza fonetica diretta con quello italiano, è rappresentata 'T'. La doppia "s" italiana, non essendo comunemente nel dialetto veneto pronunciate le doppie, è resa "s" singola. "Sé" rappresenta l'incontro di "s" sorda e "e" dolce. Resta una certa intercambiabilità nella pronuncia delle due lettere "j" e "g" . Il "th" rende la sonorizzazione della "z" e della "c" palatale; il "dh" quelle della "t" e della "g".

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