Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°2 - 1980- Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigianae

Renato DELLA TORRE
Note sul potere, temporale dei Vescovi di Ceneda

IL POTERE LONGOBARDO E I VESCOVI CENEDESI

Non è possibile stabilire con sicurezza la data di fondazione del ducato longobardo di Ceneda a causa della mancanza di documenti. Perciò ci si è dovuti accontentare di semplici congetture. Qualcuno avrebbe voluto la data di poco posteriore a quella (568) del vicino ducato di Forogiulio (odierna Cividale), sostenendo che il "castrum" (città fortificata) di Ceneda era, a quell'epoca, già molto importante. Altri, invece, la vorrebbero abbassare all'anno dell'invasione degli Avari provenienti dal nord (610), perchè dicono, solo allora, dopo la sconfitta delle milizie forogiuliesi, Ceneda, bloccando gl'invasori e contribuendo a ricacciarli al di là delle Alpi, potè dimostrare quanto fosse forte ed utile il suo apporto per la difesa dei regno. Nessuna incertezza, invece, sussiste riguardo all'esistenza del ducato, grazie alla testimonianza di Paolo Diacono (720-799), storico dei Longobardi e che visse alla fine del loro regno. Egli, infatti nella sua patriottica e colorita "Storia dei Longobardi" (1), vi fa chiara allusione quando racconta che Grimoaldo, distrutta Oderzo (665), "ne divise il territorio tra Forogiulio, Treviso e Ceneda" (1) e, più esplicitamente, quando ricorda "Orso, duca cenedese" (2). Senza contare che esiste ancora un atto di donazione di quei tempi (3 maggio 762) (3), nel quale, fra i beni ceduti alla badia di Sesto, si elencano delle "case síte in Belluno, giudiciaria (o sculdascia) cenedese", cioè appartenente al ducato di Ceneda.


RENATO DELLA TORRE - Scrittore e critico, dopo aver tradotto '11 Castello dei rifugiati" di F. Céline, ha pubblicato una monografia sullo stesso autore ed un volume su '1 Medici". L. Pugliese ed., 1980. Lavora attualmente ad un libro su S. Francesco d'Assisi.

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A causa della scarsità di notizie si trova qualche difficoltà anche quando si tenta di tracciare, sia pure per sommi capi, la situazione del clero cenedese durante il ducato. Così, a proposito dell'origine della diocesi, non esistendo fonti storiche del tutto convincenti, si sono formulate delle ipotesi più o meno logiche e verosimili, anche se contrastanti. Da una parte, seguendo una vecchia tradizione, si è asserito che quella origine fu autonoma (nel IV o VI' secolo), per concessione del patriarcato di Aquileia, e si sono fatti i nomi di alcuni antichi vescovi: S. Evenzio (390) Vindemio (560), Angelo, Orsino, Sasino (726). Però ci si è basati su riferimenti piuttosto vaghi, tanto è vero che i sostenitori della teoria non si sono trovati d'accordo sulle date, sul numero dei vescovi e nemmeno sulla formulazione esatta dei loro nomi. Per di più, in qualcuno, è sorto il dubbio perfino sulla loro effettiva appartenenza alla diocesi cenedese. Dall'altra parte stanno i fautori dell'origine derivata, cioè quelli che sostengono che la diocesi è sorta per la necessità di sostituire il vescovo di Oderzo, fuggito ad Eraclea dopo la distruzione della sua città. Anche essi si arroccano su una tradizione religiosa antica che, basata essenzialmente sull' "Antico Ufficio" della cattedrale (150, 1606) e sul "Liber maximus" (o catasto) del 1518, tende a considerare la fondazione della diocesi come la necessaria conseguenza della traslazione delle spoglie di S. Tiziano dalla sede di Oderzo a Ceneda. Le due tradizioni, naturalmente, per mancanza di fonti sicure, non possono considerarsi decisive e neppure la scoperta (con successiva pubblicazione nel 1871) (4) del documento del re longobardo Liutprando con la data 6 giugno 743 può ritenersi del tutto determinante per la soluzione del problema. E' vero che nel documento, a un certo punto, si ritrova il concetto dell'origine derivata espresso dall' "Antico Ufficio", però gli stessi sostenitori del documento, da Botteon (1907) (5) che, come è noto, gli ha dedicato il primo e più esauriente studio storico -filologico, all'autorevole Cessi (1928) (6) e al più recente Mor (1970) (7), lo considerano una copia, non molto fedele, d'un originale andato perduto. Tanto basta per incoraggiare la resistenza della surriferita teoria dell'origine autonoma. Tuttavia alcuni aspetti accennati dal documento, che è riconosciuto vero nella sostanza, possono trovare conferma, in qualche modo, nella descrizione che gli storici del diritto (Pertile, Besta, Leicht, ecc.) ci hanno fatto, per l'Italia in generale, delle relazioni fra clero e Longobardi. Il primitivo furore degli invasori di cui parla Paolo Diacono in modo realistico e che il vivace storico latino Velleio Patercolo definisce "più feroce della germanica ferocia" (8), si era a poco a poco attenuato fino a trasformarsi in una pacifica convivenza con la popolazione sottomessa, specialmente dopo la conversione del re Agilulfo

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al cattolicesimo (602). C'era piena libertà di culto e così i cenedesi, in occasione della traslazione di S. Tiziano (650 circa) ricordata nel citato documento e nell' "Antico Ufficio", poterono accogliere pubblicamente i resti del santo e riportarli in modo solenne nella loro chiesa. Non solo, ma la vicenda narrata nel documento dimostra che fra il duca cenedese e il suo vescovo si era stabilita una comunanza d'interessi e, più ancora, un'attiva collaborazione, ben comprensibile in quel clima di amicizia e, quasi di protezione, che un po' dappertutto in Italia regolava ormai i rapporti fra l'autorità civile e quella religiosa. Il duca di Ceneda, Teudemar, espose al re Liutprando il desiderio del clero cenedese di avere un proprio vescovo, dopo la fuga di quello opitergino e, verosimilmente, chiese per il neo eletto gran parte della circoscrizione diocesana di Oderzo. Lo svolgimento delle trattative, poi, proseguì secondo una prassi che può considerarsi normale in quei tempi. Il re, che controllava, è vero, le attività della Chiesa ma non voleva far vedere d'ingerirsi direttamente nella delicata questione della nomina d'un vescovo, si limitò a concedere l'autorizzazione a procedere e girò la faccenda al competente patriarca d'Aquileia, Giovanni, affinché provvedesse "secondo i sacri canoni". Le trattative, cui allude il documento col termine "collocutiones", dovettero essere brevi ma abbastanza tese, considerando il seguito della contesa sui confini diocesani. Tuttavia, per il momento, il patriarca se la cavò con un compromesso, nominando, sì, il primo vescovo, Valentiniano, ma non concedendogli tutte le parrocchie dovute. Qualche tempo dopo, la lite si riaccendeva, dato che Valentiniano, considerandosi erede della diocesi di Oderzo, aveva esteso la giurisdizione spirituale su alcune parrocchie opitergine, tra quelle assegnate ad Aquileia. La disputa fu dura perché dietro ai prelati agivano i rispettivi duchi, che, come si sa, cercavano di aumentare la propria sfera d'influenza anche per mezzo delle amministrazioni ecclesiastiche e c'era il re che voleva evitare discordie fra i dipendenti e, in quel caso particolare, cercava una soluzione non sfavorevole al nuovo patriarca, Callisto, suo amico che, secondo Paolo Diacono, egli aveva già protetto all'atto della nomina e nei recenti contrasti col duca friulano. Si giunse così ad una breve tregua quando al contendente aquileiese fu concessa la disponibilità di quattro parrocchie, "onde ogni volta che egli andasse e tornasse dal Friuli alla reggia di Pavia vi trovasse una stanza per riposarsi del viaggio". Questa prima sentenza, emessa dal vescovo di Pavia e, quindi, d'accordo col re, pur accontentando, sul momento, Callisto, in fondo riconosceva anche le ragioni della nuova diocesi cenedese, con l'imporre, come condizione, la restituzione ad essa delle quattro parrocchie, appena fosse deceduto Valentiniano. Il patriarca, però, alla morte di quel prelato, non restituì le parrocchie e, anzi, volle dal

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nuovo vescovo Massimo, che aveva appena nominato, la promessa scritta che "mai avrebbe trattato, né mosso lamento, nè agito giuridicamente" per riaverlo sotto la sua giurisdizione. A questo punto il diretto intervento in causa dei duchi cenedesi Aulmo, presto morto, e Aginualdo, suo successore, forse significava che la questione aveva assunto un interesse, per così dire, politico. Probabilmente le parrocchie contese facevano parte del ducato di Ceneda e può darsi che il duca in quel momento avesse delle serie ragioni per non tollerare ingerenze nel proprio territorio da parte del patriarca e, per suo tramite, del duca friulano. Perciò Aginualdo agì energicamente per recuperare quelle parrocchie e di nuovo il re Liutprando si interessò del caso, avocando il relativo processo ("discussione della causa nel sacro palazzo di Pavia in presenza nostra") tanto più che si trattava di una "causa regalis", cioè sorta fra importanti personaggi dello Stato. Il duca cenedese mandò come suo rappresentante un messo, Fausto, che sarà stato un esperto del diritto, e il re, forse assistito, come d'uso, dalla commissione di giudici palatini, convocò, oltre al patriarca, anche i vescovi di Treviso e di Padova che detenevano qualche zona della disfatta diocesi di Oderzo. Ma l'azione del messo era diretta soprattutto contro il patriarca che, più degli altri, disturbava Ceneda ducale per la vicinanza e la quantità delle parrocchie indebitamente occupate. Parlò con accesa polemica di pretesti ingiusti, d'inosservanza di leggi, di necessaria restituzione: "0 padre Callisto, diceva, ti prego per amore del Dio onnipotente che la parrocchia del vescovado di Ceneda che tu ingiustamente e contro la legge tieni violentemente, rimosso ogni pretesto, ti affretti a restituire legalmente a Massimo nostro vescovo e ti accontenti delle cose tue e non goda le altrui giacche la sua chiesa, senza quella parrocchia tanto vicina, non può andar bene". Infine, di fronte alla debole eccezione del convenuto basata sul dovere di rispettare la primitiva spartizione autorizzata dal re Rotari, l'eloquente messo addusse una ragione pratica, allora considerata molto importante, che gli assicuro la vittoria della causa. Cioè l'avvenuta traslazione dei resti di S. Tiziano da Oderzo a Ceneda significava, logicamente e, quasi per disposizione divina, l'opportunità di trasferire al vescovo cenedese tutta intera la diocesi opitergina. E infatti, appurato che il vescovato cenedese era sorto solo dopo la spartizione di quella diocesi e come sua naturale sostituzione, il re Liutprando convinse i tre prelati convenuti a concedere le parrocchie tanto contese: 'U pare cosa giusta e conforme ai sacri canoni... che il vescovo di Ceneda tenesse e possedesse tutta la diocesi opitergina... e così è terminata la contesa... Onde comandiamo che tutti rispettino questa deliberazione: dando questi ordini a tutti i patriarchi, vescovi, duchi... e a tutti i nostri sudditi... Data

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in Pavia nel regio Palazzo, il 6 giugno del 31o anno del nostro regno, undicesima edizione". Da notare che, nonostante la perentorietà della sentenza, le parrocchie non furono consegnate tanto presto e neppure in modo completo. Comunque, dall'insieme del documento, pare che i vescovi cenedesi godessero già d'un certo prestigio sia nella gerarchia della Chiesa, sia nei rapporti con l'autorità longobarda. Non tanto, però, da ottenere cariche politiche e l'esercizio del potere temporale. Invece lo storico Mondini (1710) (9), che segue l'ipotesi dell'origine autonoma, racconta, peraltro senza prove convincenti, che un vescovo di nome Orsino, era anche duca verso il 670. Evidentemente lo aveva confuso, a causa dell'omonimia, col duca Orso (ricordato da Paolo Diacono). Seguendo la sua opinione il pittore De Min, nel dipingere (1840) gli stemmi vescovili nell'Aula della loggia comunale di Ceneda, vi aggiunse la spada come simbolo dell'autorità civile a partire appunto dall'Orsino e, molti anni dopo, ancora qualcuno credeva che % vescovi avessero ricevuto in dono dai re longobardi ampi possedimenti e che cominciassero a figurare con giurisdizione civile e militare arrogandosi le attribuzioni di duchi specialmente durante lo Scisma dei tre Capitoli: il vescovo Satino con tali poteri avrebbe recato aiuto a Iesolo contro Eraclea" (10). Si può, inoltre, citare come curiosità diplomatica lo strano documento riportato dall'antico Statuto di Ceneda (1609) con la data "3 aprile 994, indizione settima", e che contiene la sentenza emessa del re Liutprando, allora "sul trono del palazzo di Oderzo", per redimere una controversia d'investitura fra il conte Giovanni (feudatario) e il vescovo di Ceneda Valentino (suo signore), essendo presenti Callisto patriarca d'Aquileia, Ludovico di Carinzia, Trevisano vescovo di Oderzo: "In nome di Dio, amen... Poiché i predecessori del conte Giovanni ricevettero l'investitura dai predecessori del vescovo di Ceneda, Valentino, dei paesi di Zumelle, Valmarino, ecc. con ogni giurisdizione del mero e misto imperio e poiché il conte Giovanni è stato a lungo in lite col Valentino, è piaciuto al re e al patriarca Callisto..., per il bene della pace, di supplicare il vescovo Valentino che si degnasse di investire dei detti luoghi il detto conte nei modi stessi con cui furono investiti i suoi predecessori secondo un retto e legale feudo. Allora il vescovo ha investito il conte, a patto che egli paghi lo stesso tributo pagato dai suoi predecessori. Se non pagherà, sarà privato del feudo". E' quasi inutile osservare che il documento è falso: la data e il sistema feudale delle investiture non appartengono ai tempi di Liutprando. Probabilmente fu compilato dopo il mille con lo scopo d'essere esibito come prova in occasione di una della tante controversie sorte tra i vescovi e i vassalli. Fra gli studiosi che lo respingono, G. Lioni osserva che "esso fa stomaco agli eruditi " e il Botteon lo giudica inventato "da un indotto scrittore del sec. XV°".

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Insomma non si può affermare con fondatezza che i vescovi cene-desi esercitassero poteri temporali durante il ducato. E d'altronde lo stesso può ripetersi per gli altri vescovi d'Italia, i cui rari interventi nel-l'amministrazione civile se pur contribuirono, in certo modo, al man-tenimento degli equilibri sociali, ebbero comunque un carattere margi-nale e provvisorio. Più frequenti, invece, furono le donazioni di beni immobiliari da parte di privati in favore di chiese o vescovi. Così anche per la chiesa di Ceneda si può citare la donazione che è ricordata nelle lezioni del- più "Antico Ufficio" di S. Tiziano (usato fino al 1606) (12). In occasio-ne della traslazione delle spoglie dì S. Tiziano (650 circa) un'ossessa fu miracolata e suo padre, per riconoscenza, "donò alla chiesa della Bea-ta Maria un campo che possedeva là presso". Non si ha notizia di altre donazioni al clero cenedese nel periodo longobardo, ma è verosimile che ne siano state fatte altre. In quanto al castello di S. Martino sembra poco probabile che esso sia stato ceduto dal duca al primo vescovo Valentiniano, appena eletto (713 circa), perché vi risiedesse. L'opinione è sorta dalla dubbia inter-pretazione del termine "Castrum" come "castello" nella frase "in cenetensi castro nostro" del citato documento liutprandeo, quando si parla dell'avvenuta nomina del vescovo. Sarebbe, invece, preferibile dare a quel, termine il significato di "città fortificata" (13), pensando che il duca non avrebbe rinunciato tanto facilmente alla posizione stra-tegica del castello di S. Martino che dall'alto del colle domina la pianura Renato

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Note

1) P. DIACONO, op. c., l. V, e. 28 78
2) P. DIACONO, op. e. 1 VI', c. 24
3) L. SCHIAPARELLI "Codice diplomatico longobardo-, 1929
4) A.S. MINOTTO "Documenta ad Bellunum, Cenetam, Feltria spectantia", 1871
5) V. BOTTEON, "Un documento prezioso 7, 1907.
6) R. CESSI, "Crisi ecclesiastica veneziana", 1928
7) G. MOR, "Studi medioevali del diritto", 1970
8) P. VELLEIO, "Historiae", l. Il>, 106
9) G.B. MONDINI, 'Ystoria della città di Ceneda" 1765, ms.
10) L. MARSON, "Cenni storici su Vittorio", 1889
11) MINOTTO in op. cit. lo riporta con la data corretta "739 l'anno in cui si presume che Trevisano, citato nel doc., fosse vescovo
12) A. MASCHIETTO '5 Tiziano", 1932
13) D. DU CANGE, "Glossarium", 1954


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