Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°12 - 1999 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane

Rassegna Bibliografica

LINO SCALCO, Da/filato al manufatto. La Sigismondo Piva Spa di Valdobbiadene tra ascesa e decadenza: 172 7-1989, Padova, Esedra editrice,1998, pp. 238.

L'espressione "archeologia industriale" è in uso ormai da molti decenni. Essa definisce una specifica scienza, che studia le vecchie strutture industriali, ma, per la verità, è prevalentemente usata per indicare l'attenzione rivolta ai grandi edifici che una volta ospitavano le attività industriali e che ora, per ragioni di inadeguata struttura o, più spesso, di ubicazione, non possono più essere usati per le finalità originarie. Qualche volta ci si limita a indicare la necessità di "tenere in piedi" edifici e strutture sul limite di crollare, per mantenere visibili certi significativi documenti del "vecchio modo" di lavorare, spesso perfino affascinanti nella loro cadente inutilità (si pensi a certe vecchie fornaci, o a certe altissime ciminiere ormai da decenni prive del loro pennacchio). Ma più spesso ci si scervella per trovare un modo di "riusare" le strutture, mantenendone la fisionomia originaria. Nascono così soluzioni anche brillanti, ma non mancano nemmeno gli adattamenti "furbastri", che finiscono con lo snaturare la struttura, ridotta malinconicamente solo a involucro di "altre cose". Un po' come -esempio ormai classico - l'inginocchiatoio della vecchia chiesa riutilizzato (si fa per dire) come mobile - bar.
La cosa che, poi, normalmente sfugge, è che l'edificio ha contenuto negli anni un'attività- macchine in moto, uomini e donne al lavoro, prodotti - e che tutto ciò ha tracciato nel tempo una traiettoria paragonabile a quella della vita di un individuo. E che, così come èbello e giusto conoscere, degli uomini -di tutti gli uomini - la storia, altrettanto, e forse ancora di più, è bello e giusto conoscere la storia di questi organismi complessi che sono le fabbriche, le industrie, gli opifici.
Il paragone tra la vita di un individuo e la vita di un'industria è, mi pare, legittimo, e anche suggestivo, ma merita un approfondimento. La vita di un uomo èil percorso che egli compie tra due eventi naturali: la nascita e la morte. L'uomo sa di dover morire. In passato si diceva che, quando uno muore, "paga il suo debito alla natura". Una fabbrica, un'industria, invece, quando nasce, non obbedisce a leggi di natura, ma è il frutto dell'intelligenza e dell'iniziativa imprenditoriale di uno o più individui. Poi viene il tempo della vita, in cui si coniugano l'intelligenza, la fantasia, la progettualità, la fatica e il sudore di un gruppo di persone, organizzate secondo collaudate gerarchie, che hanno due soli fini: quello di realizzare prodotti capaci di "conquistare" spazi sempre più larghi nel mercato; e quello di far sì che la loro fabbrica, la loro impresa, possa vivere una vita sempre più sicura e vincente. Ma alla fine viene anche, ineluttabile, per essa, il momento della chiusura, della scomparsa, della morte. Che, per non essere "debito di natura", è sentita da tutti come una sconfitta.
Per tutto ciò, scrivere la "biografia" di un'industria è infinitamente più difficile che scrivere la biografia di una persona. Per questa, infatti, ci sono i testimoni, le carte, i documenti, gli scritti, le opere: ed essa è sentita in genere come atto di omaggio alla persona scomparsa; ma per la storia di un'industria spesso le carte mancano, i documenti sono tenuti riservati, le testimonianze sono incerte, o magari anche reticenti; e la ragione è una sola: che la fine dell'impresa è considerata in genere una sconfitta, un fallimento (e talora lo è anche giuridicamente): per cui, sulla esigenza di ricordare, prevale la voglia di dimenticare.
Questa riflessione ci è suggerita da un libro, uscito in questi mesi, che narra la vita- dalla nascita alla morte: ben 162 anni - della Sigismondo Piva Spa di Valdobbiadene. Opera di Lino Scalco -un autore già variamente impegnato in lavori di storia industriale, con il quale ha collaborato Alessio Berna, estensore del primo capitolo - il libro è frutto di un lungo lavoro di ricerca e di analisi, condotto con pazienza e competenza, fra mille difficoltà dovute anche alla dispersione di molte carte (con ogni probabilità, per le ragioni esposte più sopra). Ma la fatica di Scalco è stata anche facilitata dal fatto che la "Piva", profondamente incamata nella realtà sociale valdobbiadenese, ha vissuto la sua parabola "dentro" la storia della comunità, le cui pagine - ora felici, ora tristi e sventurate - narrano anche, sia pure in controluce, la storia della più importante impresa industriale che quel territorio abbia mai conosciuto.
Nel primo capitolo del libro Alessio Berna, utilizzando le ricerche compiute per la sua tesi di laurea in scienze politiche,, traccia un lucido profilo storico della produzione serica in area veneta dal seicento ai nostri giorni, con particolare riferimento a Valdobbiadene: utile, anzi indispensabile introduzione alla materia dell'opera.
Segue, in altri sette capitoli, la storia della Piva, dall'avvio ad opera del fondatore Pietro Piva, al successivo sviluppo realizzato dal figlio Sigismondo, che darà il nome alla ditta, e dai suoi successori in famiglia (non tutti in linea diretta), con un percorso che vedrà negli anni il passaggio - vedi il titolo del libro -"Dal filato al manufatto", cioè dal primo filatoio a un vero e proprio sistema di filande, a industria di produzione di manufatti serici (calze, corsetteria ...):
nell'assiduo impegno di aggiornare i processi produttivi e di differenziare la produzione stessa, per seguire e, ove possibile, anche precedere l'evoluzione delle mode e dei gusti, e le conseguenti oscillazioni dei mercati. Il successo per lungo tempo arride alla Piva, ma il trascorrere degli anni, con le catastrofi che investono l'intera nazione - due guerre, e la prima di esse con l'invasione, che porta Valdobbiadene ai limiti dell 'estrema rovina - lascia il segno sulla gloriosa industria, alla quale ad un certo punto non basterà per far fronte alla cangiante irregolarità dei mercati, alla concorrenza internazionale, allo stesso irrompere delle fibre artificiali, affidarsi a nuove produzioni, adottare nuovi marchi, puntare sul potere nascente della pubblicità, e infine tentare la via dell'integrazione con nuove energie e nuovi soci, magari di gran nome: l'inesorabilità della parabola porta alla fine la Piva ad essere incorporata in altra società (27 febbraio 1989); e seguirà poco dopo, il 25 maggio 1992, il fallimento della società incorporante.
Una morte, com'è normale per tutte le morti, malinconica. Ma la biografia è la storia di una vita, e la Piva resta, nella memoria dei luoghi, soprattutto come organismo vivente, che ha accompagnato - e sorretto, e promosso - la vita della comunità: in questo senso suonano le voci dei testimoni dei vari momenti di essa, che Scalco giustamente registra (ed è la parte più bella del libro, che si vorrebbe anche più ricca). Si può dire, insomma, che ci troviamo di fronte ad una pagina di storia di Valdobbiadene, vista da una particolare angolatura, che la rende perfino più interessante, certo non scontata.
Mi chiedo, da vittoriese che ha assistito alla "morte" di numerose piccole industrie "storiche" di questa città, se non sia possibile che qualcuno - magari qualche giovane studioso del luogo, o anche gli stessi autori del libro di cui stiamo trattando - ne tracci le "biografie". E lo stesso discorso si potrebbe fare per altre industrie scomparse, nell'intera zona della Comunità Montana, negli ultimi decenni. Sarebbe un approccio interessante e utile alla storia recente di questi luoghi. E potrebbe essere anche una salutare lezione per i nostri conterranei del Duemila.

Aldo Toffoli

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