Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°10 - 1997 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane
ALESSANDRO DEL PUPPO

STORIOGRAFIA LOCALE OTTOCENTESCA. LE POLEMICHE DI ANTONIO GARDIN


Nel maggio del 1925 "L'Azione", settimanale della diocesi di Vittorio Veneto, pubblicava il seguente laconico trafiletto:
Maestro Antonio Gardin. 1115 maggio moriva in San Polo. Per 35 anni insegnò con intelletto d'amore nelle scuole elementari di S. Polo, educando al Vero, al Bene. Visse per Iddio, per la famiglia, per la gioventù. Non conobbe gioie nella sua esistenza, ma soltanto doltri che sopportò evangelicamente. Stampò diversi opuscoli d'indole storico-critica(1).

1) Alquanto vaghe le notizie di Antonio Gardin. Nato a Castello Roganzuolo il 20 novembre
1854 da famiglia originaria di Ceneda, appartenente alla media borghesia (il nonno Bortolomeo si distinse nella imprenditoria, ottenendo tra l'altro un appalto per la tratta ferroviaria Conegliano-Sacile). Rimasto subito orfano di padre, Antonio dovette compie gli studi nel paese, per poi spostarsi con la cugina Zaira Gardin. Nella biografia redatta da Michele Cancina (dattiloscritto, presso l'archivio parrocchiale di Castel Roganzuolo, busta Famiglie, fascicolo Gardin) si riporta un paragrafo tratto dalle Memorie d'un ispettore scolastico di G.B. Amorosa, che elogia l'attività educativa di Gardin e della moglie presso le scuole di Collalbrigo in Conegliano, dove i coniugi si erano divisi la sezione maschile e quella femminile. Testimonianza del suo impegno educativo sono le due pubblicazioni per la Scuola Popolare. Scarse sono le altre notizie: se diamo ascolto alla notizia de "L'Azione" che riferisce di un trentennio di insegnamento a San Polo, e che la visita dell'ispettore è datata all'aprile del 1891, si può ipotizzare che subito dopo Gardin si trasferì a San Polo di Piave (magari come premio, per le buone impressioni suscitate dall'ispettore), dove assunse la carica di direttore didattico. Rimase sempre attivo in zona, svolgendo sia indagini storico artistiche che archeologiche. Uniche tracce di contatti più allargati, le due edizioni a Firenze ed altrettante collaborazioni su "Rassegna Nazionale" (cfr. Scritti di Antonio Gardin, in appendice, n. 13 e 15).


ALESSANDRO DEL PUPPO. Laureato in Conservazione dei Beni Culturali. Attualmente frequenta il terzo anno del Corso per dottorato di ricerca in Storia dell'Arte presso la Scuola Normale di Pisa. Ha pubblicato vari articoli su riviste d'arte e di cultura.

123

È ignoto se quest'ultima attività abbia lenito i dolori della vita di Antonio Gardin, maestro elementare e direttore didattico, o piuttosto rientri fra le cause: certo è che in alcuni suoi scritti la sopportazione non fu propriamente evangelica, e il tono invero polemico. Lo testimoniano un pugno di operette di argomento artistico che, redatte con scansione decennale, emergono nella sua produzione più dispersiva che copiosa.
Non che un qualche tiepido successo abbia arriso al maestro: fino a qualche decennio addietro, poteva capitare in margine a una bibliografia tizianesca o del Cima un riferimento piuttosto oscuro al nostro. Si trattava per lo più di rimandi a quella che fu la sua operetta di maggiore successo, la confutazione di Cavalcaselle e Crowe in merito al polittico di Castel Roganzuolo, con la quale esordì nel 1883.
Con gli Errori di G.B. Cavalcaselle e I.A. Crowe nella storia e nella critica della pala di Tiziano in Castel Roganzuolo (Conegliano) Gardin mostrava già nel 1883 l'intenzione di puntare in alto, non fosse altro che per la dedica al principe Giuseppe Giovannelli, all'epoca presidente benemerito dell'Accademia delle Belle Arti di Venezia, e in seguito munifico donatore di un gruppo di opere, perlopiù acquisti alle prime Biennali, che andarono a formare il nucleo della costituenda Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pesaro. L'inevitabilità di questa scelta era ovviamente giustificata dall'"eccellenza della causa" così patrocinata; il che non bastò, da quel che ci risulta, a togliere l'impegno profuso da un'aura di silenzioso disinteresse.
Al titolo dell'opuscolo, di lunghezza seicentesca, seguitava un proemio così recitante:
L'incontrastabile originalità della pala che Tiziano dipinse per la Chiesa parrocchiale di Castel Roganzuolo, vollero tolta, ad ogni costo, G.B. Cavalcaselle e I.A. Crowe nel libro "Tiziano". Ma in vero non riuscirono che a tracciare erronea la storia di quelle pitture, a criticare con fallaci, contraddittorie, insussistenti argomentazioni, onde noi passiamo a rilevare gli errori nei quali sono essi caduti(2).
Un tale scopo doveva giustificare, nell'opinione di Gardin, il ricorso a un procedimento basato dapprima sulla minuziosa e approfondita ricerca di ogni fonte documentaria - possiamo immaginare una facile consuetudine sugli archivi parrocchiali - e, su questa base, dalla puntuale confutazione degli incriminati paragrafi del Cavalcaselle.
Dopo averlo riportato in ampio stralcio (si citava il vol. TI dell'edizione italiana, pp. 31-35, completo delle note), il testo venne dissezionato e

2) Gardin, Errori di G.B. Cavalcaselle e lA. Crowe nella pala di Tiziano in Castel
Roganzuolo (Conegliano). Firenze 1883, p. 5. La critica è rivolta al volume di J.A. Crowe e
G.B. Cavalcaselle, Titian: his life and times with some account on hisfamily, chi eflyfrom new
and unpublished records, London 1877, che si giovò di una edizione italiana (Firenze, 1877-
78), Tiziano, la sua vita e i suoi tempi con alcune notizie sulla sua famiglia.

124

sottoposto ad una serrata e scolastica replica antifrastica. Le quattro paginette di estratto furono così dilatate in due sezioni, gli Errori storici e gli Errori critici, dove si passano in rassegna i refusi di Cavalcaselle, risalendo all'erroneità delle fonti - di terza mano - da lui citate (le trascrizioni archivistiche di Antonio Nicolai fatte per conto di Taddeo Tacobi, la Storia del popolo cadorino del Ciani, il Tiziano Vecellio del Beltrame a sua volta rettificante certe imprecisioni del Ticozzi)(3), e il giudizio del medesimo.
Era gioco agevole, per Gardin, sottoporre al vaglio analitico ogni dato citato, confrontandolo con gli archivi che aveva sott'occhio: e poichè da un punto di vista documentario, la sua prassi era ineccepibile, poteva concludere sin dalle prime righe, sfidando "tutti gli storici del Tiziano a provarci con documenti alla mano, fra tutte le consegne fatte dal cadorino una più accertata, più garantita, più sicura di questa"(4).
Il riporto dal giornale della Fabbriceria di Castel Roganzuolo, relativo agli anni dal 1543 al 1560, sosteneva la tesi di Gardin con argomenti irrefutabili, computando oltre un quindicennio di rateazione delle 991lire venete richieste da Tiziano per la pala. Di questa cifra, al pittore venne corrisposto un effettivo in contanti di 118 lire, ed il rimanente in più caserecce forniture di "forrnento per semenar i campi de ms. Tician depentor", "polastri e colombini" e soprattutto fiumi di "conzi de vin" per il ristoro dell'artista. Mai! grosso del pagamento, si deduce, fu stornato nelle forniture di "calzina", svariate "miara de piere chote", di "tavelle" e di "copi", con relativi carreggi: il tutto, era destinato alla costruzione di un'abitazione "in Col de Manza per ms. Tiziano" che, dobbiamo presumere, rispecchiò le tribolazioni della committenza(5).
In tal proposito, le preoccupazioni di Gardin erano perlopiù rivolge a sostenere la puntualità e la buona fede dei parrocchiani, in particolare dopo il saldo che Celso Sanfiori addebitava nel maggio 1555 ai residenti in ragione di 231lire. E la confutazione paleografica, rivolta agli errori del Nicolai ma estesa alla azzardata fiducia che Cavalcaselle e Crowe diedero all'incauto curato, poteva essere un argomento sufficientemente solido. Dimostrando


3) Per le fonti del Tiziano v. D. Levi, Cavalcaselle. Il pioniere della conservazione dell'arte italiana, Torino, 1988, p. 369-378, che riporta solo parte delle fonti citate da Gardin. Nello stesso volume sono ricostruiti gli itinerari di studio che portarono, tra l'altro, il Cavalcaselle "in lungo ed in largo per tutta l'Italia settentrionale" tra il 1855 ed il 1856 (p. 109-110) e nel decennio successivo (p. 249-50), oltre alla rete di corrispondenti locali (p. 259-segg.) che fanno ammettere all'autrice "l'interesse per la documentazione la più vasta possibile".
4) Gardin, Errori di G.B. Cavalcaselle cit. p. 11.
5) Ivi, p. 17-24. La trascrizione dei documenti è da ritenersi più attendibile rispetto ai regesti di Cadorin e Beltrame, cit.

125

poco senso della misura, e dei propri limiti, Gardin si ostinò invece "da darle prove della validità delle nostre confutazioni con fatti che non ammettono replica", spingendosi nei territori della critica artistica: ambito non padroneggiato, che doveva fatalmente cedergli sotto i passi ben calcati di un orgoglio campanilistico che non poteva dargli ragione di essere, la pala di Roganzuolo, opera sì documentata di Tiziano, ma con ampi e palesi interventi della bottega. Tralasciando il problema del gonfalone, che Cavalcaselle credette di individuare come recuperato nelle due figure degli apostoli (che Gardin correttamente contesta, sulla base di osservazioni puramente tecniche, quali il formato e la qualità delle tele, la sagomatura delle cornici e la collocazione ad hoc sopra l'altare), il nostro cedette clamorosamente proprio nelle battute finali del testo. Pur concordando che "i quadri dei Castel Roganzuolo ( Il Tiziano ) li ha lavorati in fretta, senza tante ripetizioni e li lasciò abbozzi o al più abbozzi avanzati"(6), Gardin non accolse le critiche, che erano state così avanzate dal conoscitore:
Il colorito e la tecnica di esecuzione negli Apostoli è di stile tizianesco, ma della maniera propria de' suoi discepoli (...). Difatti, i colori mancano di quella vigoria e forza che sono le qualità del grande pittore, le forme sono modellate debolmente, e così il disegno è molto trascurato, i panneggiamenti tirati via, la tecnica di esecuzione molto rilassata, fiacco il tocco del pennello, ed i colori magri di tinte e d'un tono tristo; ed inoltre difettano le figure di luce e di ombre e quindi di rilievo, in confronto ai dipinti condotti dalla mano di Tiziano(7).
La levata di scudi contro questa drastica limitazione è limitata ad una debole opinione che in mancanza di meglio fa risuonare tutte le corde del patetico nella difesa della Vergine. "Meno abilmente dipinta" sentenzia Cavalcaselle in proposito; "questo giudizio mette orrore nel più meschino conoscitore dell'arte", rilancia un Gardin invocante: "Oh Tiziano Tiziano, quanto fosti grande in questa piccola figura! Ella andrà per sempre celebrata accanto al tuo nome immortale"(8).
La critica di Cavalcaselle e Crowe, insomma, è "marcia" e sta come conferma la breve antologia di citazioni (Federici, Ticozzi, Crico, Beltrame, Ciani, Gilbert) e la fotografia dell'opera dopo i restauri del 1881. Non si desidera ora entrare in merito alla disputa(9), tanto più che i fatti della guerra


6) Gardin, Errori cit., p. 33, punto XIV.
7) Cavalcaselle-Crowe, Tiziano cit. p. 35.
8) Gardin, Errori cit., p. 34-35.
9) Si veda Gronau, Titian, London 1904, che accetta la paternità tizianesca, di contro ai giudizi
diR. Pallucchini, "Arte Veneta", 1961, e la scheda di F. Valcanover in L'opera completa di
Tiziano, Milano 1969, n. 325. Va ricordato che lo stesso Valcanoverin occasione del furto del
1973 sottolineò l'esecuzione di bottega (un giudizio che, nella circostanza, taluni vollero

126

sembrano aver agito nel senso di una ormai perpetua sospensione del giudizio, per quanto compromessa allora fu la pala. Dapprima, lo scriteriato deposito nei soppalchi del coro, per sfuggire all'invasione, e poi il restauro del 1920 che assieme alle muffe e all'umidità ha cancellato quel poco o quel tanto di attribuibile alla mano del Tiziano.
L'opuscolo del Gardin ebbe scarsa risonanza.
Dopo una parentesi pedagogica in cui si occupò di letture per le scuole popolari, pubblicando anche una monografia su Castel Roganzuolo, ove ripropone gli argomenti a favore della paternità tizianesca del trittico (si vedano gli scritti in appendice, n. 3-6), nel 1894 Gardin tornò all'attacco difendendo il polittico di San Fior del Cima dai dubbi espressi sempre da Cavalcaselle e Crowe. Sotto tiro questa volta era la celebre A History of Painting in North Italy: Venice, Padua, Vicenza, Verona, Ferrara, Milan, Brescia, from the fourte enth to the sixteenth century, edita a Londra nel
1871.
L'intervento di Gardin non era sorto dalla conoscenza diretta di questo testo, quanto piuttosto dal rifiorire di studi attorno alla figura di Cima da Conegliano. Nel novembre del 1891 veniva infatti costituito a Conegliano un comitato di studi su Cima, in vista del quarto centenario della pala del Duomo. Su questo interesse per Cima doveva giovare il riordino degli archivi comunali della città, da cui erano riemersi importanti documenti, e sui quali si esercitò la ricostruzione storica di Botteon ed Aliprandi(10).
La pubblicazione di questo volume rendeva disponibile, con le sue schede, l'intera fortuna critica del polittico. Gardin apprese così le opinioni negative in merito all'attribuzione al Cima, da Cavalcaselle al Morelli e possiamo credere - si infuriò non poco. Armato di penna e calamaio, si scagliò quindi contro "il moderno evangelio pittorico", anche perchè fino a


collegare alla polemica sulle responsabilità dei funzionari: cfr. B. Sartori, Castel Roganzuolo. Storia di un'antica Pieve, Vittorio Veneto 1978, p. 96-105); cinque anni più tardi il dipinto venne di nuovo ripulito dai precedenti interventi restituendo una reliquia poco intelligibile (oggi conservata al Museo Diocesano d'Arte Sacra di Vittorio Veneto) che è stata estromessa dalla mostra veneziana su Tiziano del 1990. In quest'ultimo catalogo, il trittico è detto commissionato nel 1543 e terminato nel 1549, con la bottega; nella bibliografia nulla vi èregistrato di Gardin.
10) V. Botteon, A. Aliprandi, Ricerche intorno alla vita e alle opere di Giambattista Cima, Conegliano 1893, ora in ristampa anastatica, Conegliano 1977. Questo lavoro resta fondamentale per il catalogo che, anche se troppo ampio, mise a disposizione un vasto materiale d'archivio. Menegazzi nota che la biografia è "la parte meno valida del lavoro, sia per eccesso di entusiasmo campanilistico, sia perchè l'autore non è propriamente un critico d'arte" (Cima da Conegliano, Treviso 1981, p. 60. In questo volume sono ricordate in bibliografia le opere di Gardin del 1894 e del 1903).

127

quel momento egli "viveva tranquillo sull'originalità del dipinto, sì pel carattere del dipinto, il quale mi è bastato, senz'altri studi, per poter da me solo conoscere altre pitture del Cima".
Complice l'orgoglio di una certezza "senz'altri studi", si citava quindi un passo del Botteon-Aliprandi, omettendo però gli autori, che pur doveva conoscere bene(11) La scheda sul polittico di San Fior ricordava dapprima la tradizione favorevole (Ridolfi, Federici, Crico)(12), e poi di seguito: "Il Morelli però la dichiara di mano ignota. Il Crowe ed il Cavalcaselle pongono questo quadro fra gli spuri, e trovano che non ha finitezza nel tocco, e che èlavoro di artista posteriore al Cima, ridipinto in molti luoghi"(13).
Gardin riprese tutti questi contributi - citando di seconda mano, abbiamo l'obbligo di credere - sentenziando che "restano quindi Crowe e Cavalcaselle quali primi e veri critici della pala di 5. Fiore", mentre la "gratuita ed errata asserzione del Morelli" è darigettarsi, "come cosa condotta sulle orme degli autori della Storia della Pittura nel nord dell'Italia"(14),
Facendosi paladino dell'esattezza storica, l'autore notò che i santi attorno al Battista rappresentano ciascuno il patrono delle chiese dipendenti da San Fior: questione che "passò inosservata a tutti; io sono il primo che l'ho rilevata". Concediamo questa piccola gloria all'autore: tanto più che il resto del volumetto scarseggia di argomentazioni robuste, limitandosi a rivestire di dottrinarismo piagnone i dati già esposti sobriamente da Botteon. Tanto basterebbe a qualificare l'intervento i Gardin; un piccolo strillo, insomma, con l'isterismo della ragione che si somma a non pochi dilettantismi confessati con candore.
Può essere accettabile il confronto proposto fra alcuni dettagli della predella e delle figure laterali con la pala del Duomo di Conegli ano (ma cosa ne avrebbe pensato Morelli?). I dubbi però restano, allorchè l'autore ci fa sapere che non si premurò neppure di andare a consultare direttamente il libro di Cavalcaselle e Crowe, accontentandosi di un estratto ("due sole righe", afferma, e la pagina su Cima) che egli stesso richiese in biblioteca, a Venezia; e si rafforzano, quando Gardin invoca la memoria di Giuseppe Carpani, "il più grande critico d'arte che abbia avuto l'Italia" e di cui


11) Il Botteon, anche lui nativo di Ceneda e parroco a S. Martino a Conegliano, doveva con
ogni probabilità essere conosciuto da Gardin, che insegnava nella vicina Collalbrigo.
12) L. Ridolfi, Le meraviglie dell'arte, Venezia, 1648, p. 60 (seconda ed. ridotta, Padova
1835-37); D.M. Federici, Memorie trevigiane sulle opere didisegno, Venezia 1803; L. Crico,
Lettere sulle Belle Arti Trivigiane, Treviso 1883, p. 226 e segg.
13) Botteon-Aliprandi, op. cit., p. 128-130. Il passo è citato con grande disinvoltura da Gardin,
p. 4.
14) Ivi, p. 5.

128

confessiamo di aver reperito notizie con una certa difficoltà(15).
Non v'è ragione alcuna di dubitare della mano del Cima, ed una lunga e autorevole tradizione sta oggi ad assicurarlo; ma va detto che quando Gardin intervenne, forse paventava il timore che la storiografia si impossessasse delle opinioni errate di Cavalcaselle, così come fece Morelli. Ancora nel 1905 infatti Burkhardt considerava la pala opera di un seguace, maldestro e ritardatario; anche se da Berenson in poi l'inclusione nel catalogo del pittore coneglianese è indiscussa(16).

Ancora con il "madornale errore" riguardo il Cima di San Fior si apre il volume Intorno alla critica d'arte di Giovanni Morelli (Oderzo, 1903) che riprese, dopo un decennio interrotto solo da una pubblicazione occasionale per nozze, il tema prediletto, polemizzando con l'ormai celebre conoscitore.
Sin dalle prime righe, però, Gardin sembrò far di tutto per sottolineare la propria superficialità: affermando che conosceva il lavoro prima della sua edizione italiana, ma "non per averne letta qualche pagina, bensì per la fama straordinaria che esso godeva": del tutto inutile era il fatto che il suocero di Gardin si era laureato in medicina a Vienna, dove si era sposato con una austriaca, e che quindi la lingua tedesca, in qualche modo, avrebbe potuto essere padroneggiata. La "fama straordinaria" non convinse poi Gardin a giungere all'acquisto del libro, limitandosi egli a dare "una scorsa ad alcune pagine del decantato volume", nella fattispecie datogli da leggere da un cortese signore, "e non ho che da lodarmi, meco medesimo, dell'acume che


15) Giuseppe Carpani (1775-1857) fu allievo del Panni, ispettore capo delle scuole elementari ed autore di una geografia ad uso degli scolari del Lombardo-Veneto; sacerdote e canonico. Scrisse fra l'altro una Vita di Benvenuto Cellini (Milano, 1806-18 11) e una Raccolta delle migliori dipinture che si conservano nelle private gallerie milanesi (Milano, 1813). In quest'opera l'autore "scivola involontariamente, per mancanza di preparazione specifica, in interpretazioni psicologiche più che tecniche, indulgendo su riferimenti poetici appena l'argomento del quadro glielo permetta" (E. Vittori, Giuseppe Carpani, in Dizionario Biografico degli italiani, Roma, 1977, XX, ad vocem). L'importanza attribuitagli da Gardin poggia su un' indubbia affinità elettiva di toni e di stile, oltre che da un palese rispecchiamento, per così dire, professionale.
16) R. Burkhardt, Cima da Conegliano, Leipzig 1905, p. 118; B. Berenson, Pitture italiane del rinascimento, Milano 1936, p. 125; T. Pallucchini, Cinque secoli di pittura veneta, Venezia 1945, p. 53.54; R. Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, Firenze 1946, p. 14; L. Coletti, Pittura veneta del Quattrocento, Novara 1953; il resto della bibliografia è in Menegazzi, op. cit., p. 111, da cfr. con P. Humpfrey, Cima da Conegliano, Cambridge 1983, p. 16-21.

129

ho avuto di proclamare il Morelli un discepolo della critica del Cavalcaselle, prima di aver letto il suo lavoro"(17),
Sembra che Morelli sia stato condannato a priori unicamente per la continuità con la famigerata coppia di critici, che già avevano attirato gli strali del Gardin. Ma i suoi argomenti, più che condotti ad un approfondimento (ed alla verifica) delle fonti, furono rivolti a pesanti ironie verso chi aveva il demerito di non aver pubblicato innanzitutto nella lingua patria(18).
L'argomento di confutazione nelle mani di Gardin è il passo del Cavalcaselle sui "quadroni di Brescia" in cui veniva criticato l'esteso intervento della bottega, ipostatizzato a suo parere a un'associazione a delinquere pittorica, con a capo l'ormai anziano cadorino. La medesima obiezione venne rivolta alla drastica limitazione della pittura da cavalletto di Raffaello, che Morelli poneva a partire dal 1516.
Quello che preoccupò l'estensore dell'opuscolo fu di salvaguardare non solo l'onestà degli artisti, ma anche la buona fede di chi, come i suoi parrocchiani, erano certi di possedere un'opera interamente autografa. Non che i suoi richiami ad un maggiore rigore ed alla verifica sui documenti siano da stigmatizzare, in sè:
E una magagna grave è appunto questa di appoggiarsi alla sola tecnica, la quale tecnica non è sempre chiara e limpida, ma anzi, spessissime volte, è suscettibile di discussione. (...) La conoscenza della tecnica s'impara dopo aver appreso qualche elemento, almeno di storia d'arte, dopo aver imparato almeno il nome del pittore che si studia. L'apprendimento della conoscenza della tecnica segue, non precede la

17) A. Gardin, Intorno alla critica d'arte di Giovanni Morelli, Oderzo 1903, p. 3-4 (il testo viene ricordato di passaggio da F. Bernabei, Critica, storia e tutela delle arti, in Storia della cultura veneta, voI. 6, Vicenza 1986, p. 425, n. 83). Il volume reca una intestazione del Giovanni Carpani già ricordato, che recita "Le arti belle ebbero ed hanno le loro guerre civili. Questa ne è una ed ormai tenetela per dichiarata, sarà quel che sarà... è da trent'anni la mia divisa, la seguo ed avanzo".
18) Gardin si riferiva infatti a G. Morelli, Della pittura italiana. Studi storico-critici di Giovanni Morelli (Ivan Lemorlieff). Le Galleria Borghese e Doria Pamphili in Roma, Milano, 1897. L'opera era la prima edizione italiana, postuma (Morelli muore nel 1891), curata da Giovanni Frizzoni, del volume Kunstkritische Studien uber italienische Malerei. Die Galerie Borghese und Doria Pamphili in Rom. Von Ivan Lemorlieff Leipzig, FA. Brockhaus, 1890, che raccoglieva gli scritti attributivi già apparsi dal 1874 al 1876 nello "Zeitschrift fur bildende Kunst", a loro volta testimonianza di un ventennio di frequentazioni museali delle collezioni europee (cfr. G. Agosti, Cronologia della vita e delle opere, in La figura e l'opera di Giovanni Morelli: materiali di ricerca, Bergamo 1987, p. 17-30; sul metodo morelliano v. almeno E. Wind, Arte e anarchia, Milano 1972, p. 55 e segg., C. Ginzburg, Spie, Radici di un paradigma indiziario, ora in Miti, emblemi e spie, Torino 1986, p. 158 e segg.).

130

storia. Sono la storia, all'autorità i documenti quelli che dicono la prima volta che uno si metta davanti a dei quadri(19).
Ma è vero che nel discorso di Gardin si può intravvedere, in filigrana, la trama di un interesse fortemente localistico e rivolto essenzialmente a difendere quel che era considerato senz'altro un proprio patrimonio. Ci sembra questo il nodo principale, quello più significativo fra quanti emergono nella lettura, altrimenti scarsamente sollecita di questioni storiografiche. Il determinismo archivistico e documentario dell'autore è quindi, innanzitutto, campanilistico sostegno di una tradizione: rivolto a sancire, attraverso l'autorità dei documenti, quello che la storiografia artistica era orientata a mettere in dubbio. È così la tradizione ad avere valore sommo, "mentre a rovesciare in arte la tradizione colle sole forze dell'intelligenza artistica, ècosa che conduce tante volte in ereticali bestemmie, come ne furono condotti il Cavalcaselle ed il suo amico Morelli"(20). Allo sguardo sfuggente dei conoscitori - che oggi sappiamo responsabile sì di errori attributivi ma storicamente fecondo di confronti, raccordi e sintesi - viene opposto l'occhio fisso degli eruditi locali, abili a frugare negli archivi parrocchiali ma offuscati dalla loro stessa rigidità.
Il terreno di scontro passa quindi a Vasari, ed ai vari errori imputati alle Vite: e non interessa qui tanto entrare nel merito delle contestazioni morelliane
- non lo fa neppure Gardin -' quanto sottolineare la strategia di difesa del medesimo, che si può così riassumere: Vasari e la critica classica, "gran-d'onore della patria nostra", non si toccano(21).
Piuttosto, il metodo di Morelli è verificato (c'era motivo di dubitarne?) sulla pala di Castel Roganzuolo, che a distanza di vent'anni non smette di costituire il paradigma critico del nostro. Il risultato è paradossale, perchè nell'intento di negare una qualsiasi validità al metodo di Morelli, Gardin afferma beffardo che "si dovrebbero affibbiare i detti quattro santi al pennello di quattro autori diversi"(22): una conclusione più vicina alla verità di quanto non sia quella di ritenerli totalmente autografi. Mentre più avanti, ritornando sulla pala di San Fior, viene ricordato l'opuscolo, "dato alle stampe dieci anni fa e rimasto senza risposta, come è rimasto senza risposta l'altro opuscolo che ho stampato nel 1883, intorno alla pala di Tiziano in Castelroganzuolo".
Non è il caso di accanirsi; Gardin, che abita in provincia ed è poco aggiornato, lavora essenzialmente sui documenti degli archivi locali, con


19) Gardin, Intorno alla critica d'arte cit., p. 12-13.
20) Ivi, p. 14.
21) Ivi, p. 20.
22) Ivi, p. 22. Gli altri due santi sono quelli della pala di Serravalle.

131

inevitabili campanilismi, dietro i quali sta comunque la consapevolezza dei limiti ("Io come ho detto, non posso parlare in questo caso se non di quadri che ho visti più volte, che più volte ho contemplati") del proprio dilettantismo.
Resta inteso che anche quello di Morelli-Lemorlieff-Schwarz(23) era un dilettantismo (se col termine indichiamo una condizione di storico non professionale o accademica) ma di ben altra statura: poichè le sue competenze, nate da una cultura tedesca arricchita dagli innumerevoli viaggi, dovevano procurargli l'ammirazione ed il plauso di un'intera generazione di storici dell'arte, a partire dalla scuola di Vienna.
Per inquadrare lo scritto nel panorama della storiografia coeva, si tenga piuttosto a mente che, inaugurando giusto nel 1904 il primo corso di storia dell'arte presso l'università di Roma, Adolfo Venturi sottolineava il carattere innanzitutto filologico della ricerca, e quindi una indagine archivistica e documentaria. Questo lavoro era poi finalizzato, dato il suo valore educativo, allo sviluppo della civiltà umana(24). In questo suo indirizzo, le suggestioni del metodo dei conoscitori si assommavano ad un pedagogismo postunitairo, dall'impianto positivista, che venne peraltro superato con l'impresa della Storia dell'arte italiana.
Ma più che l'opera di Venturi, Gardin avrà tenuto conto del testo di Giovanni Ferrieri, Il senatore Giovanni Morelli e la critica d'arte, edito nell'anno e nel luogo medesimi del volume di Gardin: una ulteriore conferma, come già nel 1893, di come il nostro autore intervenga dietro sollecitazioni altrui e sempre in risposta a qualche tesi già divulgata. Ma in questo particolare orientamento non mancano le eccezioni.
Una delle ultime tappe del percorso, sin qui seguito, attraverso la perigliosa pubblicistica di Gardin è il curioso e per certi versi divertente baedeker del 1922 (Le belle pitture della città di Vittorio per A. Gardin), scrupolosa e pedagogica guida alle bellezze artistiche della città, dedicata ampollosamente ai giovani "affinchè amino questo fiore come merita": e per fugare gli ultimi dubbi sottolinea premuroso in una avvertenza che
i caratteri principali che fanno conoscere le belle pitture sono: il disegno, il colorito, l'espressione, il panneggiamento, la prospettiva, la tecnica di esecuzione, il tocco, la disposizione delle parti, l'effetto. Pur troppo, tutti questi pregi, non sempre si vedono riuniti neppure nei dipinti classici; ma anche alcuni di questi caratteri bastano a rendere pregevoli i quadri.


23) Com'è noto, Morelli pubblicò le sue opere sotto pseudonimo, dietro la doppia copertura
del fantomatico traduttore Johannes Schwarze (anche qui, l'indizio era il calco tedescofono
del proprio nome) che nasconde l'identità del deputato e senatore del Regno.
24) A. Venturi, La storia dell'arte italiana. Discorso, Roma 1904.

132

L'esposizione viene quindi ripartita, piuttosto arbitrariamente, in due settori (dipinti a fresco e pale d'altare), secondo un criterio di anarchia topografia che avrebbe affaticato ogni itinerante in un tour de force da Ceneda a 5. Augusta a Serravalle a Costa per tornare a Ceneda e poi a Meschio e così via.
Esenti toni ed argomenti polemici, non mancano comunque gli spunti interessanti: a cominciare dall'attenzione che il Gardin rivolge allo stato di conservazione delle opere, sollecitando in svariati luoghi maggiori cure al patrimonio artistico. Così infatti afferma a proposito degli affreschi a 5. Pietro in Ceneda ("Peccato che il proprietario non pensi a salvare dalla rovina il dipinto dell'ultimo gruppo"); e innalzando il tono della trattazione, fa parlare direttamente i freschi di S. Augusta, "rovinati dalle ingiurie del tempo e dall'incuria degli uomini" che così si rivolgerebbero ai cittadini di Vittorio: "Anche noi meritiamo di essere ricordati da voi per la nostra antichità, per i nostri colori; anche noi meritiamo di essere da voi conservati"(25). Del resto non mancano dubbi e incertezze, soprattutto sulle attribuzioni, che ci restituiscono un Gardin alquanto cauto e circospetto, sinceramente addolorato per la mancanza di identificazione ma evangelicamente, appunto, sopportante queste lacune, senza sbilanciarsi nel ricercare una qualche paternità. Potrebbe questo essere indizio di scarsa perizia storico-artistica, di poca maneggevolezza, stavolta, con le fonti ed i documenti: ma preferiamo assumere l'immagine di un Gardin sincero appassionato che preferisce, di fronte al capolavoro, il silenzio quasi religioso e, questo sì, molto romantico:
È un gioiello davvero. Non si conosce l'autore. E quante non se ne sono dette dai critici e dagli amatori d'art!e. Fu attribuito a Giovanni da Udine, al Mantegna! È un quadro raro davvero (...) E un quadro antico. E chi sa chi l'ha dipinto. (...) E quanto, non potrei dire del dipinto di questo pontefice? Anche in mezzo al secco che vi domina, io non mi stanco mai di ammirare questa tavola.
L'opera cui si riferisce è la pala di Costa (anch'essa ora presso il Museo Diocesano di Arte Sacra), una tavola che nel corso della sua storia ha sopportato, come si vede, ogni genere di azzardo: per stabilizzarsi infine su una attribuzione, quella a Francesco da Milano, che ha il pregio di un argomento sufficientemente brillante a svettare sugli altri, ma abbastanza debole da potersi piegare a qualche altra voce, che ancora oggi è lecito attendersi. In questa occasione, Gardin curiosamente glissa sulla interpretazione di Cavalcaselle-Crowe (che sanciscono la mano del da Milano)(26): ma


25) A. Gardin, Le belle pitture della città di Vittorio, Conegliano 1922, p. 3-4.
26) M. Lucco, Francesco da Milano, schede di G. Mies, Vittorio Veneto 1983, p. 138.

133

il suo silenzio potrebbe valere qui come una aperta sconfessione dei conoscitori, una rimozione - più elegante dei consueti rancori verbali - che potrebbe essergli stata suggerita dalla sua personale emarginazione critica.
Cosa concludere, da questo percorso attraverso quattro pubblicazioni nell'arco di quarant' anni? Innanzitutto, la significatività dei decenni entro i quali si iscrive il nostro episodio, decenni che videro compiersi la genesi della moderna storia dell'arte italiana: si parte con i conoscitori ottocenteschi e si arriva a lambire i Venti di Roberto Longhi (anche se di questi ultimi èinutile cercare una qualsiasi traccia, che non sia mera concordanza cronologica). Antonio Gardin, che possiede consapevolezza solo riflessa di quei mutamenti, appare convincente e argomentato quando esercita l'esegesi sulle fonti d'archivio locali: riesce anche a comprendere che l'abilità del conoscitore va associata ad una salda conoscenza degli sviluppi storici della pittura, entro cui collocare i giudizi attributivi e le conoscenze documentarie. Così, mentre le critiche al metodo del Morelli tentano di cogliere l'aspetto più superficiale e la debolezza storica (senza peraltro denunciare quel che si riversò in dottrina positiva, svalutandone le potenzialità) nella polemica con Cavalcaselle non riesce a distinguere fra errori documentari - verso i quali i residenti in loco hanno il vantaggio di lunghe consultazioni e di verifiche dirette - e capacità di superarli, dal punto di vista della spassionata analisi stilistica e formale. E questione che al nostro fa difetto, così come è da registrare un timore quasi reverenziale verso l'opera, e verso l'aura di tradizione cui è rivestita, soprattutto. Una critica che tende a conservare opinioni consolidate, e una passione attenta a conservare l'opera, proprio in quanto bene.
L'esempio che si è riportato si colloca nel novero di quella storiografia di carattere locale e di toni quasi sempre più o meno apologetici. Tuttavia, questa copiosa produzione reca come correlato oggettivo la messa in discussione dell'operato di quelle frange della connoisseurship che mostravano il logoramento di un approccio critico basato sul colpo d'occhio, sull'intuizione, sulla felicità congetturale. Entrando in competizione con la agguerrita storiografia locale, il giudizio dei conoscitori si prospettava in tutta la sua fragilità, una volta messa a serrato confronto con le più ampie ricerche documentarie di cui poteva giovarsi la critica locale. Anche se in realtà, è necessario qui distinguere fra procedimenti complementari: poiché se da un lato le ampie trattazione storiche ottocentesche potevano talvolta tradire un difetto di documentazione sulle fonti, con la loro ampia impostazione riuscivano a collocare un'opera nel più vasto quadro generico di un territorio e di un periodo, superando il campanilismo e la tradizione esasperata a superstizione. Quella stessa tradizione, che sta alla base sia dei primi passi verso le minuziose e rigorose indagini filologiche locali, come del tradimento che sulle stesse fonti, in nome di un generico orgoglio, fu spesso consumato.



Appendice

Scritti di Antonio Gardin

1) Scritti Vari - Arte e Storia, Firenze, 1883.
2) Errori di G.B. Cavalcaselle e I.A. Crowe nella storia e nella critica della pala di Tiziano
in Castel Roganzuolo (Conegliano), Firenze 1883.
Bibliografia: L'opera completa di Tiziano, a cura di F. Valcanover, Milano 1968; B. Sartori,
Castel Roganzuolo. Storia di un 'antica Pieve, Vittorio Veneto, 1978, p. 91-93 e ristampa
completa in appendice, p. 223-244.
3) Discorso sulla Storia d'Italia da Silla a Bonaparte, Conegliano, 1886.
4) Monografia di Castel Roganzuolo, Conegliano, 1886; - seconda edizione ampliata, a cura della Cassa Rurale, Conegliano, 1898.
5) Vettore da Brusaporco. Lettura per la scuola popolare, Treviso, 1889.
6) Collaibrigo. Lettura per la scuola popolare, Treviso, 1891.
7) La palma del Cima nella chiesa di 5. Fiore in risposta alla critica di Crowe a Cavalcaselle,
Oderzo 1894.
Bibliografia: Cima da Conegliano, catalogo della mostra (Treviso, 1962), p. 35-36; L.
Menegazzi, Cima da Conegliano, Treviso 1981, p. 111.
8) Il censo di 5. Polo del 1545, Oderzo 1900.
9) Intorno alla critica d'arte di Giovanni Morelli, Oderzo 1903.
Bibliografia: L. Menegazzi, ibid.
F. Bernabei, Critica storia e tutela delle arti, in Storia della cultura veneta, voI. 6, Vicenza
1986, p. 425, n. 83.
10) Dell'Ufficio di direttore didattico, Oderzo 1907.
Il) Annotazioni al pensiero politico di Cesare Cantù, manoscritto, volI. 2, 1918.
Nel regesto delle opere di Gardin stilato dal Cancian (cit.) è annotato che i volumi "vennero
distrutti dall'invasione tedesca a S. Polo".
12) Antichità romana, chiesetta primigenia, castello medievale in 5. Polo di Piave
"Scritto dall'autore dopo il 1919", annota Cancian. E così Adolfo Vital, in Tracce di romanità
nel territorio di Conegliano, Venezia 1931, p. 24, nota 1: "Ci riuscì di grande aiuto un breve
lavoro rimasto inedito del compianto direttore didattico di San Polo di Piave, Antonio Gardin,
Antichità romane, chiesetta primigenia, castello medievale in 5. Polo di Piave, scritto
dall'autore dopo il 1919, e gentilmente favoritomi per visione dalla famiglia dell'estinto. Il
Gardin fu veramente un modesto, ma benemerito figlio della sua terra, e per un ventennio
studiò costantemente il sottosuolo del paese e dintorni, formulando anche la mappa,
sventuratamente perduta, assieme al piccolo museo della scuola durante l'invasione straniera". Negli appunti di Cancian, infine risulta che "La direzione generale delle antichità e belle
arti del Ministero della PI. nella edizione archeologica della Carta d'ltalia al 100.000 (Foglio
38 - Conegliano) - si è valsa degli studi di A. Gardin per le notizie delle seguenti località:
Castello Roganzuolo (San Fior); Spiridiona, Cornadella, Camminada (San Polo di Piave);
Ormelle Centro, Rovarè (San Biagio di Callalta)".
13) La più bella concezione d'arte della Maternità di Maria SS. in "Rassegna Nazionale",
1 settembre 1921.
14) Le Belle Pitture della Città di Vittorio, per Antonio Gardin, Conegliano, 1922.
15) Verde della Scala, in "Rassegna Nazionale", luglio 1924.
A questo elenco Cancian aggiunge una "cartolina con disegno e notizie sulla Lapide Euganea
trovata a Castello Roganzuolo nel 1843, ora nel Museo Correr di Venezia", edita a San Polo
nel 1924. Infine la testimonianza de "L'Azione", già citata in apertura, ricorda che "ultimamente Vita di Gesù - I fioretti di maggio innestati nel
Vangelo".


<<< indice generale
http://www.tragol.it