Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°11 - 1998 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane
GIORGIO ARNOSTI

LO SCISMA TRICAPITOLINO E L'ORIGINE DELLA DIOCESI DI CENEDA


"Il potere secolare reprima gli scismatici !"

Con un editto, circa del 543, l'imperatore Giustiniano, interferendo nelle lunghe dispute cristologiche che agitavano le Chiese orientali, aveva condannato le lettere e gli scritti, riassunti in "tria capitula", dei vescovi Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Cyro ed Ibas di Edessa 1. Alla forte reazione dell'Occidente, fedele alle definizioni dogmatiche scaturite dal concilio di Calcedonia del 451, che in qualche modo avevano accettato gli scritti incriminati, Giustiniano aveva indetto nel 553 il secondo concilio di Costantinopoli, e quinto ecumenico, conclusosi con la condanna definitiva dei Tre Capitoli. L'imperatore aveva quindi costretto dalla sua parte sia papa Vigilio che il successore Pelagio I (555-560).
I vescovi delle metropoli ecclesiastiche di Aquileia e Milano (con altri delle Chiese occidentali, Gallie comprese) si erano immediatamente ribellati alla condanna, mentre papa Pelagio, già accreditato come strenuo difensore dei Tre Capitoli prima della sua elevazione alla sede apostolica 2, si dimo

1) Vedi Notae Historicae alla vita di papa Vigilio, in ANASTASIO, Hist. de Vitis Rom. Pont., MIGNE, Patrologia Latina, Parisii 1849, t.128, coll.589 segg.
2) VICTOR TUNUNENSIS, Chronicon, Patr.Lat., t.68, col.96 1: 'Post consulatum Basilii v. c. anno 18 (a.558), Pelagius Romanus archidiaconus triumpraefatorum defensor Capitulorum, Justinianiprincipispermissione de exsilio dedit, et condemnans ea, quae dudum constantissime defendebat, Romanae Ecclesiae episcopus a praevaricatoribus ordinatur' (Notae ad ANASTASIO, Pelagius, P.L., t.128, col.615).


GIORGIO ARNOSTI. Studi classici e laurea in scienze Politiche. Insegnante. È curatore e autore di numerose pubblicazioni del Gruppo Archeologico del Cenedese.

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strava invece molto zelante nella repressione dei dissidenti. Al di là delle Alpi, circa nel 556, il papa sollecitava con ripetute lettere re Childeberto I di Austrasia perché incoraggiasse la riconciliazione da parte dei vescovi della Gallia 3. L'intervento risultava efficace e il re franco favoriva il ritorno delle diocesi galliche sotto le disposizioni del concilio costantinopolitano; vi riportava pure tre diocesi delle terre della Secunda Rhetia e del Norico (passate sotto il suo controllo durante la guerra gotica), già dipendenti dalla provincia ecclesiastica aquileiese, dove faceva consacrare presuli cattolici:
"Così infatti s'era incominciato afare anni or sono, quando in tre chiese della nostra metropoli, cioè in quelle dei Breoni, di Tiburnia e diAgunto,
i vescovi Galli consacrarono i vescovi" 4.
Nelle Venetiae invece le azioni imperiali contro i tricapitolini si scontravano con la situazione di strascichi post-bellici e i tentativi di repressione dei vescovi ribelli andavano a rilento. Nei loro confronti, da parte del braccio secolare, in qualche modo, ma opportunamente dal punto di vista politico, si differivano le azioni di polizia che erano invece sollecitate dall'arcivescovo cattolico di Roma, papa Pelagio I.
Alla forte azione papale, l'arcivescovo Paolo della metropoli aquileiese reagiva con grande efficacia. Convocata una 'particularis synodus', probabilmente nell'anno stesso della sua elezione (nel 558), col consenso del clero delle sue diocesi suffraganee, l'antistite aquileiese decideva di imboccare la strada dell'autocefalia 5. si distaccava cioè dalla dipendenza dottrinale


3) Significativa l'ultima lettera a Childeberto, che conclude (PELAGII PAPAE I, Epistolae, ep.XV, P.L., t. 69, col.410): 'Nunc convenit excellentiam vestramprofervore ejusdemfidei, quam vos in corde habere gaudemus, peculiarem curam per universas Galliae vestrae regiones impendere, ne illic scandala seminantes, sicut in partibus istisfacere conabantur, frontis suae procacitate impellente discurrant, et alios fratres et coepiscopos nostros, ve! creditas eis plebes, ad dissensiones exagitent'.
4) Dalla suggestio dei dieci vescovi all'imperatore Maurizio, in CESSI R., 1940, Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille (sec.V-IX), PD, doc.8, p.l 8. Traduz. in PASCHINI P., 1975, Storia del Friuli, UD, p108.
5) BOGNETTI, Appunti per una storia dei Longobardi in Italia, in L'Età Longobarda, IV, MI, p.634; ID., Teodorico di Verona, E.L., IV, p.353.
Paolo di Aquileia venne consacrato dal vescovo di Milano, Auxano, nel 558. Viene detto Paolino, forse per sminuirne il valore, da papa Pelagio I (Epist. IV, P.L., T.69, col.397). Il patriarca aquileiese viene però ricordato col nome di Paolo in VENANZIO FORT., De vita Sancti Martini', IV, vv.66 1: 'pontificemque pium Paulum'; e pure in P.D., Il, 10 e II,25; così al sinodo di Mantova dell'827, e in Giovanni Diacono, infra.
Sul sinodo di cui si lamenta Pelagio, cfr. PELAGII PAPAE I, Epistolae, P.L., t.69, coll.393-414: 'Nec licuit alicui aliquando, nec licebit particularem synodum congregare' (ep.IV, col.393); al riguardo PASCHINI, 1975, pp.93-96 e nota 10. Cfr. TAVANO S., 1972, il culto di S.Marco a Grado, pp.2O2. Il titolo patriarcale è citato nelle lezioni della Collectio

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e canonica di Roma, che non era ancora assurta definitivamente ad un livello di preminenza e di guida su tutte le altre Chiese cattoliche. Paolo di Aquileia assumeva il titolo di patriarcha, e si proponeva perciò come capo di una Chiesa con lo stesso prestigio e livello di autonomia delle altre Chiese Patriarcali di fondazione apostolica della Pars Orientis, e della stessa Roma.
Vista la determinazione degli Aquileiesi, papa Pelagio I chiedeva insi stentemente ai governatori ravennati l'intervento del braccio secolare:
'schisma ... per potestates publicas opprimatur!' 6 Le lettere del papa alla lunga smuovevano il prefetto al pretorio Giovanni, ma nel 559 un contingente romeo, forse inviato verso Aquileia per arrestare il metropolita Paolo, come sospetta il Bognetti ~, veniva bloccato all'Adige dal divieto di passaggio imposto a Pamfronio e a Buno dal duca franco Amingo. In quegli anni i Franchi di Austrasia, fin dal 545 circa, occupavano i territori montani della Venetia fino alle Prealpi, con il fulcro del loro dominio in Ceneda 8, Il prefetto al pretorio, che forse preferiva una condotta morbida nella faccenda, riferiva al papa dell'impossibilità di procedere all'arresto dei prelati per l'impedimento opposto dai Franchi. I Tricapitolini comunque esasperati inviarono perfino una lettera di scomunica a Giovanni. Quanto ne rimanesse scosso il patrizio, lo ricaviamo dalla lettera consolatoria di Pelagio, ed èprobabile che Giovanni chiedesse il suo esonero dall'incarico, lasciandolo nelle mani del fratello Valeriano 9.


Britannica delle lettere di Pelagio: 'Peto utrum aliquando in ipsis generalibus, quas veneramursynodis, vel interfuitquispiam Venetiarum, ut ipsi putant, atqueHistriaepatriarcha, ve! legatos aliquando direxerit' (vedi CARILE-FEDALTO, 1978, Le Origini di Venezia, pp.3lO-l 1).
6) BOGNETTI, Appunti, E.L., IV, pX634-35. La lettera di papa Pelagio a Valeriano (in PELAGII PAPAE I, Epistolae, P.L., t. 69, col.4l 3), condensa la Epist.IV, col.397 e parte della Epist.II, coll.394-395, indirizzate però ad Narsetem e ad Narsen Patricium.
7) Sul blocco di Amingo (MENANDRO PROT., Excerpta.., frag.2); cfr. BOGNETTI, Teodorico, E.L., IV, p.351 e nota 24; MOR, 1980, Bizantini e Longobardi sul limite della laguna, p.238-239.
8) CARILE-FEDALTO, 1978, Le Origini, pp.l38, 155.
9) Il patricio Giovanni e il patricio Valeriano furono prefetti al pretorio prima del 561, anno della morte di papa Pelagio, per PASCHINI P., 1975, Storia del Friuli, pp.9l -96; e per CESSI R., 1957, Da Roma a Bisanzio, in AA.VV., Storia di Venezia, pp.357-59. Sulla scomunica a Giovanni: PASCHINI, 1975, p.95 e nota 15; e CESSI, 1957, p.357; sarebbe stata rivolta invece contro Narsete, secondo l'edizione del Migne dell'epistolario (PELA G II PAP. I, Epist., Ep.III, P.L., 69, col.396). Le varie lezioni delle fonti su Pelagio differiscono sui destinatari delle lettere qui citate, e pure sugli anni del suo pontificato: quattro anni e 10 mesi per Anastasio Bibl. e secondo la sua epigrafe sepolcrale vaticana, cioè dal 555 al 560 (vedi Notae ad ANASTASIO, Pelagius, P.L., t.128, coll.613 segg.).

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L'evolversi della controversia religiosa e della politica imperiale al riguardo non è ben chiaro; sembra però che gli animi si fossero calmati a partire dalla morte di papa Pelagio (a.560) e con il suo successore Giovanni III. Eppure questo papa, come i suoi due predecessori, risulta rispettoso delle deliberazioni del concilio di Costantinopoli, poiché richiedeva ai vescovi suoi suffraganei di nuova consacrazione il giuramento su quei decreti e l'invio alla sede apostolica del chirografo con l'attestazione della loro fede, sottoscritto secondo la norma da testimoni 10,
In quegli anni, forse ancora nel 560, Narsete, già comandante in capo dell'esercito, divenne praefectus praetorio, cioè il massimo magistrato civile in Italia. Narsete, come prefetto del pretorio, aveva poteri amplissimi in materia di finanze e di ordine pubblico. Soprattutto vigilava sui culti ed
erano di sua competenza le relazioni con la Chiesa'1; usava però il guanto di velluto con gli scismatici, almeno fino alla morte dell'imperatore Giustiniano. Difatti il patricius 12 riportati i confini della prefettura italica fino al Norico a scapito dei Franchi, attorno al 564, riconduceva le tre diocesi dell'alta valle della Drava e del Gai! alla giurisdizione metropolitica della scismatica Aquileia, quasi dieci anni dopo il colpo di mano di segno opposto di re Childeberto. E guadagnava appunto a Giustiniano le simpatie dei Tricapitolini, come appare evidente nel brano della lettera dei "dieci vescovi" del 591, di cui si dirà.


10) Così si ricava da una lettera di Gregorio Magno al vescovo Costanzo di Milano: 'bene fraternitas tua reminiscitur, quamvis decessorfraternitatis tuae Laurentius districtissimam cautionem sedi apostolicae remiserit, in qua viri nobilissimi ex legitimo numero subscripserunt, inter quos ego quoque (cioè lo stesso Gregorio) tunc urbanam praeturam gerens pariter subscripsi' (Epist., Lib.III, ep.2; in Notae ad ANASTASIO, Joannes III, P.L., t. 128, col.630). 11) Sulle funzioni del prefetto del pretorio cfr. BESTA, 1950, Storia del Diritto Italiano, I, MI, pp.l132 segg. Sulle ampie competenze di Narsete rimangono vaghi ricordi anche nel Diacono: 'His quoque tempori bus Narsis patricius, cuius ad omnia studium vigilabat' (P.D., Il, 4, in BARTOLINI E., 1982, I Barbari, le invasioni barbariche nel racconto dei contemporanei, MI, p.9132). Narsete era stato nominato prefetto al pretorio solo dopo il 561 per PASCHINI, 1975, p94, nota 10.
12) Narsete aveva il titolo di "cartulario" ma per i suoi indubbi meriti ottenne l'alto onore del patriziato: 'Hic Narsis prius quidem chartularius fuit, deinde propter virtutum merita patriciatus honorem promeruit' (PD., H.L., lI, 3, p.913l). Il titolo di patricius, -tius come sublimis honor era abbinato ad altissime cariche dell'amministrazione statale (BESTA, 1950, St.Diritto It., pp.62, 122, 204). Il titolo era già stato di Odoacre; Teodorico, ancora a Costantinopoli, per i decisivi servigi resi all'imperatore Zenone aveva avuto il titolo di patricius e la carica di magister militum praesentalis (BESTA, cit., p.24), cioè il comando delle truppe nella capitale. In Italia veniva normalmente conferito al praefectus praetorio e, dopo il 580 circa, all' esarca ravennate. Mapatricius e exarchus non vanno sempre intesi quasi fossero sinonimi (BESTA, cit., p204, nota 27).

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Solo sotto il nuovo imperatore Giustino Il e dopo la dura repressione dei moti eruli nella Venetia (circa del 566), i Romei sarebbero passati a vie di ~, fatto, dato che sempre Narsete faceva imprigionare il vescovo tricapitolino I Vitale diAltino, rifugiato adAguntum, e lo spediva in esilio in Sicilia 13, Ma se è dubbio che l'episodio avesse una motivazione esclusivamente religiosa, fatto sta che l'operazione di Narsete non ebbe altri seguiti, per quel che se ne sa dalle fonti. E non si esclude che la resipiscenza di Narsete sia stata, consigliata dalla vasta reazione politica nelle Venezie, manifestatasi pure con la fuga di intellettuali (per esempio Venanzio Fortunato, secondo alcune accreditate ipotesi) e di vescovi (il Marciano che 'pere grinatus est pro causa fidei'?).
Purtroppo anni di tensione e di schermaglie, con la proclamata autocefalia, avevano irrigidito le posizioni, ed i vescovi delle Venetiae di osservanza aquileiese erano sicuramente entrati nella prospettiva di appoggiare una qualsiasi soluzione che allontanasse il controllo diretto dei Bizantini dall'Italia nord-orientale; e non tardarono ad accordarsi con Alboino, entrato in Italia come federato dell'Impero 14,


La fuga del metropolita.

Paolo Diacono, alla fine dell'VIII secolo, nonché la relazione fatta al sinodo di Mantova (dell'827), circa duecento anni dopo gli avvenimenti, e le posteriori cronache venetiche, raccontano che all'ingresso dei Longobardi nella Venetia, nel 568, il patriarca Paolo, 'Langobardorum rabiem metuens', si rifugiava immediatamente a Grado, sotto l'ala dell'impero 15, Tuttavia,


13) L'arresto di Vitale vescovo di Altino viene posto in sequenza subito dopo la notizia della morte di Giustiniano in P.D., H.L., Il, 4: 'Inter haec lustiniano principe vita decidente, lustinus minor rem publicam aput Constantinopolim regendam suscepit. His quoque tempori bus Narsis patricius, cuius ad omnia studium vigilabat, Vitalem episcopum Altinae civitatis, qui ante annosplurimos adFrancorum regnum confugerat, hoc est ad Agonthiensem civitatem, tandem conprehensum aput Siciliam exilio damnavit' (in Bartolini E., 1982, p.932).
14) Per la critica storica e documentaria della chiamata narsetiana e cronologia degli eventi, vedi l'esauriente CESSI R., 1918, Le prime conquiste longobarde in Italia, 'Nuovo Archivio Ven.', n.s., 69-70, pp.13-158. Inoltre FASOLI G., 1965, I Longobardi in Italia, BO, p55; MOR C.G., 1980, Bizantini e Longobardi sul limite della laguna, in AAAd, XVII, vol.I, UD, pp.247 segg.; vedi anche l'ampia documentazione e fonti ivi riportate. Pure BRUEHL CR., 1986, Storia dei Longobardi, in AA.VV., MAGISTRA BARBARITAS, MI, p.98.
15) P.D., Il, 10: 'Hoc etiam tempore Romanam ecclesiam vir sanctissimus Benedictus papa regebat. Aquileiensi quoque civitati eiusque populis beatus Paulus patriarcha preerat. Qui Lan gobardorum barbariem metuens, ex Aquileia ad Gradus insulam confugit secumque

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quando il re Alboino riceveva al Piave il vescovo Felice di Treviso, e gli concedeva un privilegio, le relazioni con il clero locale sembrano piuttosto improntate ad un rapporto di coesistenza pacifica 16,
Con re Clefi però (ma il suo controllo si limitava alle province occidentali), sarebbero iniziati gli oltraggi indiscriminati, continuati per buona parte del periodo di interregno, e dalle cronache viene riferito che molte chiese furono depredate ed i sacerdoti uccisi: 'spoliatis ecclesiis, sacerdotibus interfectis' 17, Paolo Diacono aveva indicazioni di persecuzioni da Gregorio Magno, ma ricavava il suo brano a fosche tinte quasi alla lettera da Gregorio di Tours; questi peraltro, si presume, avrebbe alluso ad avvenimenti nei territori italici ai confini con le Gallie, nella Neustria longobarda cioè, anche se altri cronisti transalpini, come Mario Aventicense o Fredegario non accennano a persecuzioni longobarde contro le Chiese. Nemmeno ne parlano il cronista ravennate Agnello, né il Liber Pontzficalis romano di Anastasio Bibliotecario, che solo riferiscono, per quegli anni, di devastazioni e di una grande fame. Ne rimase una forte eco anche nella storiografia venetica, spiegabile col fatto che proprio dal Diacono aveva attinto gran parte delle antiche cronache. Non era stato però adeguatamente evidenziato che, sempre nel brano del Diacono, venivano esplicitamente escluse dal clima di violenza contro le Chiese le regioni toccate dal primo acquartieramento di


omnem suae thesaurum ecclesiae deportavit' (Bartolini E., 1982, p.94O); qui il patriarca Paolo (558-569) viene detto contemporaneo di papa Benedetto I (573- 577), ma nel 569 era papa Giovanni III (560-572) e nel 573 il patriarca era Elia (57 1-586).
Dagli atti del sinodo mantovano dell'827: 'eo tempore, quo Longobardi Italiam invaserant, Romanam aecclesiam vir sanctissimus Benedictus papa regebat, Aquileiensi quoque civitati eiusque populo Paulus patriarcha preerat, qui Longobardorum barbariem et immanitatem metuens, ex civitate Aquileiensi et de propria sede ad Gradus insulam, plebem suam, confugiens, omnemque thesaurum et sedes sanctorum Marci et Hermachore secum ad eandem insulam detulit' (CESSI, 1940, Docum., I, n.50, p85).
Quasi con le stesse parole di Paolo Diacono, e con integrazioni dal sinodo mantovano, in GIOVANNI DIACONO, Chronicon Venetum, in P.L., t. 139, col.877: 'qui (Paulus), Longobardorum rabiem metuens, ex Aquile gia ad Gradus insulam confugit, secumque beatissimi martiris Hermachorae et ceterorum sanctorum corpora quae ibi humarafuerant deportavit'.
16) BOGNETTI, 1960, Continuità delle sedi episcopali e l'azione diRoma, p.433. La notizia sembra derivare dalla cronaca di Secondo di Non, contemporaneo agli avvenimenti.
17) P.D., Il, 32. Da confrontare con GREGOR. TURON., Hist.Franc., IV, 41, P.L., t.71, col.303: 'Quam regionem ingressi, maxime perseptem annospervagantes, spoliatis ecclesiis, sacerdotibus intefectis, in suam redigunt potestatem'. Vedi anche GREGORIO MAGNO, Dialogorum Libri, III, 27-28-29, P.L., t.77, col.284-85.

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Alboino "eccetto quelle regioni già occupate da Alboino" 18 e intendiamo, nel Veneto, i ducati di Cividale, Ceneda, Vicenza e Verona.
Se c'è da dubitare quindi che le scorrerie dei nuovi venuti fossero generalizzate, risulterebbe piuttosto proponibile una netta distinzione fra il comportamento dei Longobardi nei loro acquartieramenti orientali e quello nelle regioni occidentali e centrali. Non si esclude che qualche razzia sia stata portata anche entro i territori delle città venete in mano romea, cioè contro le civitates di Aquileia, Concordia, Oderzo, Treviso e Padova. Eventuali attacchi sarebbero da inquadrare in quel limitato arco di tempo, in cui Alboino rinnegò il patto con l'Impero, ma si sa che egli venne subito eliminato dalla cospirazione gepido-bizantina e dai Longobardi filo-imperiali. Potrebbe eventualmente risalire a questo contesto storico, ove non fosse dovuto a causa accidentale, l'incendio della cattedrale di Concordia, documentato dagli scavi archeologici.
Effettivamente, date le modalità del più antico inserimento dei Longobardi nella Venetia come foederati, un accanimento contro le popolazioni residenti e contro le chiese non aveva alcun motivo di esistere. Si aggiunga come indizio la duratura comparsa nei loro corredi funebri delle crocette d'oro, forse solo propagandistiche, ma che evidentemente intendevano diffondere un messaggio tutt'altro che minaccioso. Se si integra con la constatazione che subito dopo la morte di Alboino i duchi della Venezia ripassarono al soldo dell'Impero, non si dovrebbe essere molto lontani dal vero nel ritenere abbastanza "pacifico" l'insediamento longobardo nelle nostre zone. E questo clima nelle Venezie risulterebbe documentato nella Historiola di Secondo di Non, o almeno nei brani che il Diacono avrebbe ripreso proprio dall'abate trentino 19
Quanto poi alla "fuga del metropolita" da Aquileia sotto l'incalzare dei Longobardi, sembrerebbe significativo che il successore di Paolo, il patriarca Probino (570-571), fosse ancora in sede al momento della morte, avvenuta ad Aquileia secondo quanto tramanda lo stesso Diacono; e la medesima notizia si ritrova negli atti del sinodo mantovano dell'827 20,

18) Il già accennato P.D., lI, 32: 'exceptis his regionibus quasAlboin ceperat' (in BARTOLINI,
1982, pp.964-65). PEPE G., il Medioevo barbarico d'italia, ed.l973, p113. FASOLI G.,
1965, ILongobardi in italia, BO, p75.
19) FASOLI, 1975, p75; BOGNETTI, Processo logico ... di Paolo Diacono, E.L., III, p.164
e n.5, p165.
20) P.D., III, 14. CESSI, 1940, Docum., n.50, p.85: '... regendamque aecclesiam Probino
reliquit. isto quoqueAquileie defuncto...'. La notizia del Diacono non convince il PASCHINI,
1975, p.99, nota 27. Nel battistero di Grado è invero presente un pluteo con colombe e croce
ansata che contiene un monogramma, interpretato dallo Zovatto come quello di Probino
(TAGLIAFERRI A., 1981, Le diocesi diA quileia e Grado, Corpus della scultura altomedievale,
X, Spoleto, p.414-l5, e tav.CCXXXVI, n.647).

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A tal proposito, quale influenza avrebbe avuto sui territori costieri, ed in particolare sull'abbandono di Aquileia, il peggioramento climatico con il diluvium aquae ben documentato a Concordia 21?
Si ipotizza che per queste concause, instabilità politica durante 1 'interregno, peggioramento climatico e ricorrenti epidemie, venisse consigliata un'adeguata riorganizzazione dei territori imperiali, e che molte terre fossero man mano abbandonate. Sicuramente il patriarca Elia (571-5 87), succeduto a Probino, decise di allontanarsi da Aquileia e questa volta in modo definitivo: proprio a lui risalirebbe la volontà esplicita di trasferire la sede della diocesi e della metropoli quando, alla metà degli anni settanta, fa costruire la sua nuova cattedrale nella base imperiale di Grado.


Sul sinodo di Grado.

Riepilogando brevemente le cronache, dal punto di vista religioso, i contrasti politico-dottrinari fra la Venetia e Roma, tra Tricapitolini e Cattolici, infuocati ai tempi di papa Pelagio I (morto nel 560), sembrano assopirsi sotto il suo successore Giovanni III. Ne sarebbe prova il fatto che, ancora ai tempi di Giustiniano, un'iniziativa imperiale di ristrutturazione ecclesiastica riportava alla metropoli aquileiese scismatica le tre diocesi cattoliche della Rezia e del Norico, circa nel 564; e già si accennava al giudizio favorevole dei presuli veneti sul tentativo di pacificazione religiosa da parte dell'ultimo Giustiniano. Con l'evolversi degli eventi sotto Giustino, qualsiasi iniziativa imperiale nelle Venezie veniva lasciata cadere, e pure la Chiesa di Roma si adattava alla congiuntura negativa. D'altronde, sia Giovanni III (morto circa nel 574), nei suoi ultimi anni di pontificato, che il suo successore Benedetto I, avevano ben altre preoccupazioni che il lontano scisma aquileiese; ed è significativo delle difficoltà intestine che papa Benedetto venisse eletto dopo circa un anno di vacanza della sede romana a causa di tumulti22 Poi, dopo il fallimento del tentativo romeo col curopalate Bandario, circa del 575-76, nessun aiuto militare potevano più aspettarsi i papi dall'imperatore Giustino (tra l'altro accusato di eresia pelagiana) o dal reggente Tiberio (come ammetteva lo stesso Tiberio nei frammenti di Menandro Protettore), pesantemente impegnati in Oriente per il concomitante


21) Sull'incendio e sull'alluvione evidenziati dagli scavi dell'area della grande basilica di
Concordia vedi FOGOLARI G., 1978, Concordia Paleocristiana, p.204-2O5, in Julia
Concordia, TV, 1978.
22) ANASTASIO, Joannes III, P.L., t. 128, col.625: 'et cessavit episcopatus menses 10, dies
3' (cfr. Notae a Benedictus papa I epist., P.L., t.72, col.635).

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attacco dei Persiani e degli Avari. E dopo la metà degli anni '70 i Longobardi dilagavano nella penisola fino alla periferia dell'antica capitale.
La cessazione delle ostilità da parte dei cattolici romani, e la condiscendenza imperiale ad una Chiesa scismatica nelle Venezie, per l'opportunità di non rompere il fragile equilibrio di fedeltà nei territori tenuti dai Longobardi filo-bizantini e in quelli ancora soggetti all'Impero, potrebbe quindi spiegare il fatto che Elia non aveva alcun timore a trasferirsi in Grado bizantina, dove indisturbato convocò tutti i suoi suffraganei.
In questo castrum, nel giro di qualche anno dall'abbandono di Aquileia, e appunto nel 579, si procedette alla consacrazione di S .Eufemia, radicalmente ristrutturata da Elia come si legge nell'iscrizione acclamatoria 23, Con l'occasione venne convocato un sinodo dei vescovi suffraganei di Aquileia, per ribadire il credo niceno e i deliberati del concilio di Calcedonia, cui si attenevano strettamente i Tricapitolini. In questa circostanza i vescovi delle diocesi in area longobarda si ritrovarono, assieme ai due del Norico e al delegato della Rhetia secunda, con i numerosi presuli delle terre venete della sancta respublica, cioè dell'impero 24,
Gli atti del sinodo risultano gravemente interpolati, ma nelle edizioni critiche viene riconosciuto che le sottoscrizioni dei partecipanti non risultano alterate nella sostanza, e un punto a favore deriva dal fatto che l'elenco dei vescovi intervenuti a Grado fu conservato, pur con qualche variante 25, negli atti del sinodo di Mantova dell'827. Le assenze al consesso gradense quindi dei presuli di Belluno, di Asolo, di Vicenza, e l'arrivo del sostituto del vescovo di Feltre a lavori iniziati (secondo gli Acta synodus Gradensis), di primo acchito sembrerebbero evidenziare l'esistenza di difficoltà per le Chiese nei ducati di Ceneda e di Vicenza. In senso positivo sembrano invece testimoniare le presenze a Grado dei presuli di Zuglio, di Trento, di Verona, e pure quella del rappresentante del vescovo feltrino. Una notevole constatazione è che questi vescovi, e possiamo aggiungere anche quelli di Teumia, di Agunto ed il rappresentante della Rezia Seconda, potevano spostarsi o transitare senza difficoltà entro i territori longobardi, e portarsi


23) Dall'epigrafe in S.Eufemia: '... longa vetustatis senio fuscaverat aetas / prisca en
cesserunt magno novitatis honori/praesulis Haeliae studio praestante beati!... '. Gli atti del
sinodo di Grado parlano di 'nova basilica sanctae venerabilis martiris Euphemiae' (CESSI,
1940, Docum., n.6, p.8). Cfr. la cronaca in GIOVANNI DIACONO, Chron. Venetum, P.L.,
t.139, col.881; e Chron. Gradense, col.949-50.
24) CESSI, 1940, Docum., n.6, pp. 7 e segg; e doc.n.50, p.88. cfr. CUSCITO G., 1980, La fede
calcedonese e i concili di Grado e di Marano, in AAAd, XVII, p.225-230.
25) Dalla documentazione del consesso mantovano rispetto agli Acta Gradensia, il vescovo
di Verona non risulta presente al sinodo, ed i nomi di alcuni vescovi sono scambiati con quelli
dei presbiteri loro rappresentanti.

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indisturbati nelle terre dell'Impero. Sarebbe la verifica di quanto avrebbe scritto Secondo di Non (ed il passaggio riportato in Paolo Diacono, a proposito del clima di normalità dei tempi di Autari), per cui "chiunque era libero di spostarsi dove desiderava senza timore": 'unusquisque qua libebat securus sine timore pergebat'.


Sulle diocesi di Asolo, Belluno e Vicenza.

Le concomitanti assenze a Grado dei presuli diAsolo, Belluno e Vicenza
sono quindi problematiche, a meno che non si azzardi l'ipotesi che nel
579 queste tre diocesi non esistessero ancora, ed effettivamente le sicure
attestazioni di vescovi per le tre città risalgono concordemente solo al 590-
91 26
Le fonti più antiche sulle origini del Cristianesimo e dei vescovadi nelle Venezie sono le passiones dei santi patroni, poco più che medievali leggende, ed i cataloghi episcopali, abbastanza tardivi, spesso contraddittori o, per quel che riguarda le origini, talvolta privi di ogni fondamento, come spiegava il Tramontin. Eppure, negli annuari diocesani si ritrovano ancora numerose quanto improbabili datazioni di fondazione al I-Il secolo d.C. Solo tra il 250 e fino al 313 ci sarebbero due diocesi sicure nella Venetia: Aquileia e Verona. Nel IV secolo vengono documentati da fonti letterarie anche i vescovi di Altino e di Padova. Al concilio di Aquileia del 381 erano presenti i presuli di Aquileia, di Altino e di Trento 27, Da un'omelia di S. Cromazio si rileverebbe che la diocesi di Concordia venne fondata poco dopo il 381. Agli inizi del drammatico V secolo sono quindi sicuramente documentati i vescovadi di Aquileia, Concordia, Altino, Padova, Verona e Trento. Tra la metà del V secolo e la prima metà del VI, l'invasione unna, l'inserimento prima degli Eruli di Odoacre poi dei Goti ariani di Teodorico, quindi le drammatiche guerre, le ricorrenti epidemie di peste, il calo demografico e la documentata crisi delle città ben difficilmente potevano portare alla costituzione di nuove diocesi, in base ad un canone restrittivo del concilio di

26) Per TRAMONTIN 5., 1983, Le origini del cristianesimo nel Veneto e gli inizi della
Diocesi di Ceneda, p.27, la diocesi di Vicenza risalirebbe al V secolo, e pure quella di Belluno
(ma senza documentazione probatoria); quella di Asolo al VI. Sulle documentazioni di
vescovi nel Veneto, cfr. SPAGNOLO, 1982, Evangelizzazione, p.3O-32.
27) TRAMONTIN 5., 1976, Origini cristiane, in Storia della Cultura Veneta, I, VI, pp. 102-
123. TRAMONTIN, 1983, Le origini del cristianesimo nel Veneto, p.27-13. Cfr. SPAGNOLO E., 1982, La prima evangelizzazione nella 'Venetia et Histria', pp. 15-20.

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Sardica 28, Ove gli eventi non provocarono piuttosto la cessazione certa di parecchi episcopati, e non si esclude una tale ipotesi di interruzione per alcuni dei nostri; e potrebbe essere il caso di Vicenza o persino di Oderzo.
Non è che le cose, dal punto di vista religioso, fossero migliorate ai tempi della travagliata restaurazione narsetiana. L'area prealpina veneta tra intensi acquartieramenti di popoli più o meno ariani, Alamanni, Goti ed Eruli, interessata ancora da sconvolgimenti bellici, non si prestava facilmente a una riorganizzazione in diocesi cattoliche, e le piccole comunità di autoctoni latini, forse minoritari, furono lasciate all'assistenza del clero delle diocesi delle grosse città. Rammentiamo infine la panoramica della situazione del Cristianesimo nel Veneto, circa alla metà del VI secolo, come appare in Venanzio Fortunato, dal quale le civitates di Asolo, Belluno e Vicenza non vengono ricordate.


L'istituzione di nuove diocesi.

L'occasione che avrebbe poi dato origine alle tre diocesi potrebbe essere individuata nello scatenarsi dello scisma dei Tre Capitoli nella Venetia et Histria, per cui il metropolita Paolo aveva preso la risoluzione di staccare la regione ecclesiastica aquileiese da Roma imboccando la via dell'autocefalia. Successivamente, col patriarca Elia, di origine orientale e quindi risoluto nella disputa dottrinaria, si era di nuovo sentita fortemente l'opportunità di una ricompattazione politico-religiosa in senso tricapitolino dei presuli di obbedienza aquileiese, e con il sinodo di Grado si giunse alla riorganizzazione della circoscrizione ecclesiastica nelle Venetiae.
Nel Chronicon Gradense, compilato tra X e XI secolo e attribuito a Giovanni Diacono (edizione del Migne), fonte incerta ma non c'è di meglio, compare la notizia della "ordinazione" o meglio della riorganizzazione
(con approvazione del clero e del popolo) di sedici episcopati da parte del metropolita 29,


28) Il concilio di Sardica (Sofia), del 343, aveva proibito di creare nuovi vescovi 'in aliquo pago vel parva urbe, cui vel unus presbyter sufficit .. .ne episcopi nomen et auctoritas vilipendatur' (CARILE-FEDALTO, 1978, p.278).
29) GIOVANNI DIAC., Chronicon Gradense, P.L., t.139, col.948: 'Tunc Helias egregius patriarcha cum omni illa multitudine episcoporum ac cleri etpopuli collaudatione ordinavit sedecim episcopatus inter Foro giuliensium necnon et Hystriae sivae Dalmatiae partes, videlicet in Vegla, in Apsaro, in Pathena. In Venetia autem sex episcopatus fieri constituit. In Venetia autem sex episcopatusfieri constituit. Quorum electiones uniuscujusqueparrochiae clero et populo comittens, sicut a beato Benedicto sanctae Romanae sedis antistite fuerat sancitum necnon et privilegii scripto confirmatum, duci investicionem concessit. Horum

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A queste si sarebbero aggiunte, secondo un passaggio di antica interpolazione, sei nuove istituzioni vescovili, e di seguito il Gradense elenca sei diocesi nelle terre della Secunda Venetia controllata dall'impero, cioè Torcello, Malamocco, Olivolo, Jesolo, Eraclea, Caorle. Questi episcopati lagunari non risultano dalla documentazione superstite del sinodo di Marano del 590-91; né giova invocare che manca l'elenco dei presuli dei territori soggetti ai bizantini, che, come i loro omologhi delle terre longobarde, pure sottoscrissero una lettera di petizione all'imperatore Maurizio, purtroppo perduta 30, Del resto, in contrasto con la notizia di nuova costituzione da parte di Elia, il compilatore del Chronicon Gradense ammetteva che l'episcopato di Torcello, e qualche riga più sotto, quelli di Malamocco, di Cittanova e di Caorle avevano avuto inizio con la fuga dei presuli, o col trasferimento delle sedi vescovili rispettivamente daAltino, Padova, Oderzo e Concordia. La datazione di questi trasferimenti la troviamo quindi nel Chronicon Venetum (pure edito dal Migne), sempre attribuito a Giovanni, che riporta la costituzione degli episcopati lagunari, o la loro traslazione canonica, solo alla prima metà del VII secolo 31,
Il coacervo delle notizie collazionate nel Chronicon Venetum e nel Gradense è sicuramente da prendere con le molle, ma molte informazioni sugli eventi storico-religiosi andrebbero valutate anche alla luce di altre fonti.

episcopatum primum constituit Torcellanum, sicut primus fuerat vetustate in Altinensium civitate; secundum Metamaucensem; tercium Olivolensem, cui ideo hoc nomen impositum est, quia ibi ante januam aecclesiae sancti Serzi imanis erat olivarum arbor. Cujusparrochiae convocatis populis, magnam aecclesiam in honore Dei et sancti Petri idem venerabilis patriarcha edifficare precepit, ibique episcopium constituit, ubi scripti confirmatione et anathematis vinculo convenire in unoquoque sabbato se constrinxerunt, ubique plurimas mercationesfaciebant. Qua rtum episcopium inAequilensem civitatem fieri constitit. Quintum in civitate Eracliana adesse precepit. Eodem quoque tempore idem venerabilis patriarcha aecclesiam in honore Dei et sancti Petri edifficavit, quam Opiterginam appellavit. Sextum autem episcopium in Caprulis fieri jussit, ubi castellum constituit, in quo aecclesiam in honore sancti Stephani protomartyris fundavit, iuxta quam episcopalem domum secundum loci posicionem sat honorzfice edifficare precepit'.
Su Giovanni vedi De Joanne Diacono Notitia historica et Litteraria, in PL. t.l39, coll.87176. Pure ROSSI A., a cura di, 1945, La cronaca veneta detta Altinate di autore anonimo, in Archivio Storico Italiano, t.VIII, FI. Anche CARILE A., 1980, Chronica gradensia nella storiografia veneziana, in AAAd, XVII, pp.lll-l38.
30) Dalla iussio del 591, che l'imperatore Maurizio inviava a papa Gregorio I; CESSI, 1940, Docum., n.9, p20 (infra).
31) GIOVANNI DIACONO, Chronicon Gradense, P.L. , t. 139, coll.948-949; ID., Chronicon Venetum, P.L., t.139, coll.878-879: testi qui in Appendice. Sui sei vescovadi vedi CUSCITO G., 1990, L'origine degli episcopati lagunari tra archeologia e cronachistica, in AAAd, XXXVI, UD, pp.l57-l74. Gli episcopati lagunari venetici non vengono citati nel resoconto di Paolo Diacono sullo scisma (P.D., III, 26).

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Ritornando ad Elia, quando il cronista Giovanni accennava alla ristrutturazione della metropoli aquileiese, e alla fondazione di nuove diocesi, sebbene non ci sia traccia della fonte a cui il nostro diacono aveva attinto per la cronaca religiosa 32 c'è il forte sospetto che le sue informazioni non fossero del tutto infondate.
Le iniziative di Elia rientrerebbero infatti nel contesto della forte contrapposizione religiosa tra Aquileia e Roma, e le sue risoluzioni andavano a normalizzare e a rafforzare l'indipendenza ecclesiastica della Venetia et Histria. La volontà di autocefalia, già dichiarata ai tempi del metropolita Paolo, si concretizzava appunto con Elia, nel senso che si intendeva ormai procedere ed agire in piena autonomia come una Chiesa patriarcale di fondazione apostolica. La costituzione di nuove diocesi concorreva quindi a dare un'immagine di vitalità alla Chiesa aquileiese, anche perché riorganizzava sotto il suo magistero i territori ed i centri demici di antica presenza latina fortemente provati in quelli ultimi quarant'anni, ma rafforzati dal recente insediamento di nuove genti. Non è escluso che Goti e Longobardi fossero stati attratti dalle missioni tricapitoline aquileiesi (e torna ancora a proposito la comparsa delle crocette auree nei sepolcreti).
Come conclusione, per quel che riguarda le terre longobarde, si ha la netta sensazione che proprio con l'occasione del sinodo di Grado, o poco dopo, siano state costituite dall'attivismo di Elia le sedi episcopali di Belluno, di Asolo e di Vicenza 33; le ritroveremo puntualmente nominate negli atti del successivo sinodo tricapitolino di Marano.
Anche sul fronte cattolico romano, qualche anno dopo, papa Gregorio Magno (590-604) avrebbe dichiarato la sua approvazione alla nomina di presuli concorrenziali, come nel caso dell'insula Capritana. In questo frangente il papa suggeriva all'arcivescovo Mariniano di Ravenna di consacrare un nuovo presule, ove fossero falliti i tentativi di recuperare all'ortodossia il titolare scismatico di quella cattedra

32) Il Cessi ipotizzava come fonte un antico catalogo dei patriarchi delle Venetiae redatto nella residenza gradense, cfr. BARTOLINI E., 1982, p1202, nota 22.
33) Anche a Vicenza ed Asolo vengono documentate importanti chiese paleocristiane.
Sul sinodo di Marano CESSI, 1940, Docum., doc. n.8, p14.
34) S.GREGORII MAGNI, Epistolarum Lib., L.IX, ep.X, in Patr.Lat., t.77, col.950: 'Qui si admonitus redire contempserit, grex Dei decipi non debet in errore pastoris. Et idcirco sanctitas tua illic episcopum ordinet,...'. Dell'ordine dato al vescovo Mariniano di Ravenna, ne aveva informato anche l 'esarca Callinico: 'Quae autem de insulae Capritanae ordinationem decreverim, per reverendissimum fratrem et coepiscopum nostrum Marinianum vestra excellentia agnoscet' (GREG.MAGN., Epist., LIX, ep.IX, P.L., t.77, col.949). Al riguardo si veda sempre PASCHINI, 1975, pp.l 10-111.

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Il vescovo Vindemio di Cissa.

Una questione molto dibattuta in passato presso gli studiosi di storia cenedese, che riflettevano le posizioni contrapposte di eminenti storici, riguardava l'esistenza di una diocesi a Ceneda alla metà del VI secolo, sulla base dell'attribuzione del vescovo Vindemio alla Chiesa cenedese piuttosto che a quella di Cissa in Istria. Vindemio figurava fra i sottoscrittori degli atti del sinodo di Grado del 579, ma la lettura del suo titolo episcopale risultava controverso fino all'edizione critica degli Acta da parte del Cessi, accettata e riproposta dal Cuscito. Il testo riporta 'Vindemius, episcopus sanctae ecclesiae Cessensis', anche se nell'edizione del Cessi del 1940 sfortuna volle che un refuso facesse stampare Cesaensis 35, Quanto alle numerose lezioni precedenti, nel Chronicon Gradense edito dell'Ughelli compare Cenensis; altrove si legge Citinensis e persino Ticinensis; nella cronaca del Benintendi, cancelliere del Dandolo, la Chiesa è detta Cesetensis; nei codici della Marciana compare Cenetensis e in quelli del Dandolo risultano sia Cesensis che Cessensis 36,
Nelle redazioni più antiche sul sinodo, cioè nel Chronicon Venetum e in quello Gradense, editi dal Migne sulla base del Cod. Urb. Vatic. 440 (ma ricavati dal Pertz curatore dei testi per l'edizione in M. G.H.), compare ancora Cessensis; identica voce si ritrova infine negli estratti del sinodo di Grado riportati negli atti del sinodo di Mantova dell'827
Il Cappelletti, l'Ughelli, e alcuni scrittori cenedesi tra cui il Bernardi, ritenevano giusta la lezione Cenetensis, e che Vindemio fosse vescovo di Ceneda 38 Il De Rubeis, il Paschini, oltre al Cessi accettavano piuttosto Cessensis seguendo le lezioni più antiche e corrette, e riferivano il titolo a Cissa, piccola ma importante isola dell'Istria, già citata da Plinio, dalla Notitia Dignitatum, da S.Gerolamo, dall'Anonimo Ravennate, dalla Cosmografia del presbitero Guido

35) CESSI, 1940, Docum, doc.6 (refuso tipografico in Cesaensis), p12; cfr. CUSCITO G.,
1980, La fede calcedonese e i concili di Grado e di Marano, p2130.

36) DE RUBEIS, Monumenta Ecclesiae Aquilejensis, col.259. Cfr. BABUDRI F., 1919, Il
vescovado di Cissa in Istria, pp.45 e segg.; PASCHINI, 1946, L'origine della Chiesa di

Ceneda. L'ed. del M.G.H., riferendosi ai passi del Diacono, propone tutte le varianti del titolo
episcopale.
37) JOANNES DIAC., Chron. Ven. et Grad., P.L., t. 139, colI. 882 e 950. CESSI, 1940, doc.
50, p.88.
38) CAPPELLETTI G., 1854, Le chiese d'Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, VE,
X, p.231; UGHELLI F., 1720, Italia Sacra, V, coll.169-73; BERNARDIJ.,1845, La civica
aula cenedese con i suoi dipinti, gli storici monumenti e la serie illustrata dei vescovi, Ceneda

(rist.BO,1976), pp.101-103
39) DE RUBEIS, Mon. Eccl. Aq., col.259. BABUDRI, 1919,11 vescovado, p.38 e p.49.

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A prescindere dalle lezioni del controverso titolo episcopale, la testimonianza combinata di altre fonti è decisiva sulla questione, ma a sfavore di Ceneda. Il vescovo Vindemio veniva ricordato anche da Paolo Diacono, assieme a Severo (di Trieste), ma entrambi citati senza l'indicazione della sede, e inseriti, con Giovanni di Parenzo, nel gruppetto di tre presuli "istriani" che, dopo l'elezione del patriarca scismatico Severo, circa nel 587, furono presi in consegna, manu militari, dall'esarca Smaragdo e costretti a Ravenna ad abiurare Ora, quando Paolo parla di vescovi istriani, ben si sa che il termine Histria aveva spesso un significato geografico molto ampio fino a comprendere l'antica regione Venetia et Histria, come risulta dagli strumenti emanati dalle cancellerie imperiali e papali del VI-VII secolo, che il Diacono usa come fonti (infra). Nel nostro caso però è innegabile che lo storico longobardo si riferisse a presuli dell'eparchìa Istrìas, cioè della provincia altoadriatica ancora soggetta all'Impero, comprendente le aree lagunari venete, la Secunda Venetia, e l'Istria vera e propria. L'argomento decisivo è che il colpo di mano di Smaragdo, ben difficilmente poteva essere portato contro vescovi dei territori longobardi, e si potrebbe anche disputare sulla loro presenza a Grado all'elezione di Severo e sul loro rientro alle rispettive sedi solo dopo la consacrazione del metropolita 41, La conferma che Vindemio non provenisse da territori longobardi, ci viene dalle fonti relative al sinodo metropolitano di Marano, del 590-91, convocato, come ricorda il Diacono, per riaccogliere nella comunità scismatica aquileiese Severo e i tre vescovi che avevano abiurato. In quell'occasione vennero inviate tre diverse suppliche a Costantinopoli come si apprende dalla lettera dell'imperatore Maurizio al papa 42: una da parte del patriarca Severo, un'altra sottoscritta dallo stesso Severo e dai presuli residenti in territorio imperiale; la terza, l'unica superstite, da parte dei vescovi delle terre longobarde.
E Vindemio non compare appunto fra i dieci vescovi che si dichiaravano residenti in terra longobarda, e che sottoscrissero la supplica in favore dei loro confratelli in terra imperiale 43; così l'ipotesi di identificare la sede


40) PD., 111,26: 'Quem Smaracduspatricius veniens de Ravenna in Gradus, per semet ipsum

e basilica extrahens, Ravennam cum iniuria duxit cum aliis tribus ex Histria episcopis, id est
Iohanne Parentino et Severo atque Vindemio, necnon etiam Antonio iam sene ecclesiae

defensore' (Bartolini E., 1982, p998). Cfr. CESSI R., 1957, Da Roma a Bisanzio, pp.373
segg.
41) E' assai probabile, ed è un'impressione diffusa, che col patriarca venissero tempestivamente arrestati i suoi tre vescovi consacranti (PASCHINI, 1975, p. 105, n.2. CUSCITO, 1980,
I concili, p.223).
42) In CESSI, 1940, Doc., n.9, p.120.
43) CESSI, 1940, Docum, doc.8, p19. Cfr. BERTOLINI O., 1958, Riflessi politici, p.742.

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Cessensis con la Cenetensis viene ragionevolmente a cadere.
Un secolo più tardi, nel 680, un altro vescovo Cessensis, Ursino, compariva tra i sottoscrittori del documento di papa Agatone al concilio di Roma, preparatorio del terzo concilio di Costantinopoli in cui si condannò il monotelismo. La sottoscrizione del vescovo Ursino negli atti originali in greco riporta 'ekklesìas Kénsou' e le lezioni sul titolo nella versione latina variano ancora da Cessensis a Cenetensis 44'.
Argomentando sulla difficoltà di individuare la Cissa istriana, forse scomparsa, si era ancora attribuito il vescovado a Ceneda. Anche in questo caso non è stato però adeguatamente evidenziato che al concilio di Roma del 680 parteciparono, fra gli altri occidentali ed italici, solo i vescovi della giurisdizione metropolitica cattolica di Grado, cioè ancora dei territori veneti lagunari e di quelli istriani (dell'eparchìa Istrìas), in mano ai Bizantini.
Ceneda, nel contesto della duplicazione del patriarcato nelle Venetiae, dopo il 606, rientrava senza ombra di dubbio nella giurisdizione aquileiese ancora scismatica nei rapporti con Roma, e lo sarebbe rimasta, con tutte le Chiese del Nord-Est in terra longobarda, fino al concilio di Pavia del 698 (infra).
Pertanto anche l'ipotesi a favore dell'attestazione della Chiesa cenedese al concilio romano viene pure a cadere.


Il sinodo tricapitolino di Marano (590).

Tornando al VI secolo, nonostante l'offensiva franco-bizantina in corso contro il regno longobardo, un sinodo tricapitolino dei suffraganei della metropoli aquileiese veniva convocato a Marano Lagunare, verso la fine del 590 C'è un po' di confusione sul numero dei partecipanti, secondo le varie fonti, e da Paolo Diacono ricaviamo che con l'allora patriarca Severo di Grado insistevano nello scisma il vescovo della Rezia Seconda o di Sabiona, i presuli di Trento, di Zuglio, di Belluno, Feltre, Asolo, Treviso, Vicenza, Verona, di Concordia dell'area longobarda, nonché quello di Altino


44) DE RUBEIS, Mon. Eccl. Aq., col.306. BABUDRI, 1919, Il vescovado, p.46.
45) Sull'argomento vedi BERTOLINI O., 1958, Riflessi politici delle controversie religiose con Bisanzio nelle vicende del sec. VII in italia, pp.733-789. Vedi pure CESSI R., 1957, Da Roma a Bisanzio, pp.37l segg.; PASCHINI, 1975, pp.106 segg.
Gli avvenimenti religiosi da Pelagio Il a Gregorio I sono riportati nella lettera di Gregorio I a Severo (CESSI, 1940, Docum., n.7, p. 14), nella supplica dei dieci vescovi "longobardi" a Maurizio (CESSI, Doc., n.8, pp.l4-l9), e nella iussio di Maurizio a Gregorio (CESSI, Doc., n.9, p20).

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delle superstiti terre imperiali presso le lagune venete, oltre ai vescovi dell'Istria e della Pannonia 46,
I vescovi storici delle terre longobarde nelle Venezie risultano tutti presenti. E' una testimonianza importante di un clima favorevole nei confronti di quelle Chiese, dato che fin dal 579 avevano potuto quantomeno "riorganizzarsi", e non solo perché i duchi delle Venezie erano stati più o meno costantemente in accordo con l'Impero. Difatti di lì a poco l'esperienza di collaborazione nelle Venezie tra Tricapitolini e Longobardi avrebbe trovato consensi anche nella politica religiosa del regno longobardo, favorita dalla regina Teodolinda, fino a diventare funzionale al regno con l'appoggio dallo stesso re Agilulfo.
Effettivamente per quei vescovi riuniti nel sinodo le grosse preoccupazioni erano derivate non dai Longobardi, come veniva testimoniato per altre situazioni nella penisola, ma da un altro fronte, cioè da Roma nel quinquennio precedente, a causa dell'attivismo anti-scismatico di papa Pelagio
11(578-90).
Con questo papa, vennero riprese le pressioni nei confronti del patriarca
aquileiese, a partire dalla pace-tregua di tre anni tra l'esarca Smaragdo e i
Longobardi (del 585-86), come scrive lo stesso Pelagio in una delle sue
lettere al patriarca Elia 47,
Pelagio, dopo ripetute esortazioni epistolari ad Elia, aveva infine spinto l'esarca Smaragdo ad azioni repressive contro i presuli della provincia veneto-bizantina. L'esarca però poco aveva potuto contro Elia, perché l'imperatore, sollecitato con lettera dallo stesso patriarca, aveva bloccato tassativamente ogni ulteriore iniziativa. Solo dopo la morte del metropolita


46) P.D., III, 26. Paolo, che forse elabora malamente dalle ducumentazioni, scrive di un 'sinodo di dieci vescovi', ma ne elenca diciasette, tra "oppositori" e "difensori" di Severo. Dieci sono anche i vescovi dei territori longobardi che sottoscrivono la supplica all'imperatore Maurizio del 591, percui dal racconto del Diacono "non sappiamo quali veramente siano stati i vescovi intervenuti a Marano" (PASCHINI, 1975, p.I 06, nota 4). Il vescovo Pietro di Altino, citato dal Diacono, non compare tra i firmatari della superstite supplica a Maurizio, e c'è discordanza nelle due fonti anche sui nomi dei vescovi di Concordia e di Treviso (rispettivamente Clarissimo-Augusto e Rustico-Felice).
Da Paolo Diacono ricopia alla lettera con qualche lacuna il diacono Giovanni (IOANNES, Chronicon Venetum, P.L., t.139, coll-883-884).
47) Le missive di papa Pelagio ad Elia in PELAGIO Il, Epistole et Decreta, epp.III, IV e V, P.L., t.72, coIl. 706 segg.
I contemporanei tentativi da parte dell'apocrisario Gregorio (poi papa) di trovare supporto a Costantinopoli si scontravano inutilmente con una corrente che annoverava tra gli esponenti l'influentissima sorella dell'imperatore Maurizio, Teoctista, e che sembrava indulgere alle dottrine degli scismatici aquileiesi (BOGNETTI, Appunti, IV, p.6l7. Su Teoctista lettera di Gregorio I del 597, in Epist., VII, 26, col.879-82).

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(a.587), Smaragdo era passato a vie di fatto contro il neo-eletto Severo e contro altri tre presuli istriani, tratti a forza dalle chiese e costretti a Ravenna ad abbracciare l'ortodossia, secondo la cronaca di Paolo Diacono.
La morte di papa Pelagio, del 590, e il richiamo di Smaragdo a Costantinopoli, ridavano spazio ai Tricapitolini, e Severo rientrava nello scisma presentando una ritrattazione scritta in occasione del sinodo dei vescovi suoi suffraganei, radunato appositamente a Marano in quello stesso anno. La scelta della località sembrerebbe meditata: non molto discosta da Grado, ai confini tra le terre longobarde e quelle imperiali, risultava sufficientemente lontana, per precauzione, dalla portata delle azioni dirette del nuovo esarca Romanos: è abbastanza curioso però che nella lettera dei presuli longobardi per Maurizio, l'esarca sia citato con deferente simpatia. E' significativo anche che il sinodo non sia stato convocato ad Aquileia, ma probabilmente la città era ormai sommersa dalle paludi ed inabitabile.
Anche il neo-eletto papa Gregorio Magno si lamentava con Severo della sua recidiva separazione dalla comunione cattolica, e lo convocava a Roma ad un concilio in cui si sarebbero dovuti sciogliere i nodi della disputa dottrinaria. La convocazione veniva però perentoriamente intimata, con il sostegno di un ordine imperiale, sotto la minaccia di soldati agli ordini di un tribuno
I presuli delle Venetiae e dalla secunda Retia prontamente reagirono e, a sinodo maranese ancora aperto o poco dopo, nel 591, inviavano tre diverse suppliche all'imperatore Maurizio, come si apprende da una missiva dello stesso imperatore al papa. La prima veniva inviata da dieci vescovi residenti in terra longobarda, la seconda da parte di Severo e dei presuli dei territori soggetti all'impero, l'ultima dello stesso Severo Importante il resoconto degli avvenimenti religiosi fatto dai dieci antistiti dei territori longobardi nell'unica lettera superstite, e significativo il tenore della medesima, a testimonianza del clima che si respirava in quegli anni nelle Venezie.


48) La morte di Pelagio Il in P.D., III, 24. Sulla doppia abiura di Severo: 'Et nos siquidem, quantum reincorporatum te iam pridem fuisse in unitatem Ecclesiae gavisi fueramus, abundantius nunc dissociatum a catholica societate confundimur' (CESSI, Docum., n.7, p.l4; da cui riprende P.D., III, 26). La convocazione di Severo, imposta da armati: 'in quibus omnes dixerunt tuam beatitudinem milites ad illos transmisisse cum uno tribuno et excubitore, necessitatem imponentes praefato reverendissimo Severo et testibus episcopis, ut ad tuam beatitudinem perveniant propter diversam voluntatem, quam habent, ad sacra et catholica dogmata sacrosanctae nostrae ecclesiae.' (CESSI, 1940, Docum., n.9, p.2O).
49) CESSI, 1940, Doc., n.9, p20: '(...) episcopi Istriensium provinciarum ... suggestiones nobis transmiserunt, unam episcoporum civitatum et castrorum, quos longobardi teneri dinoscuntur, aliam Severi, Aquileiensis episcopi, aliorumque episcoporum, qui cum illo sunt, et tertiam solius eiusdem Severi'. (...)

76

Entrando nel vivo della questione, protestavano per l'intimazione di comparire a Roma, che consideravano un vistoso sopruso. Ricordavano che fin dalla damnatio dei Tre Capitoli, sortita dal concilio di Costantinopoli, essi ed i loro predecessori, col sostegno di tutto il popolo, s'erano mantenuti fedeli all'antica comunione cattolica, e cioè alle disposizioni del concilio di Calcedonia e alla prima enciclica di papa Vigilio (che rigettava le delibere imposte da Giustiniano). Evidenziavano quindi di aver evitato ogni comunione (da circa quarant'anni) con coloro che avevano invece preferito inchinarsi alla condanna per volontà imperiale. Rifiutavano perciò ogni ingiunzione di soggezione canonica da Roma, e implicitamente disconoscevano la primazia di quella Chiesa dal momento che pretendevano una pari dignità in sede di dibattimento sulla controversia. Sottilmente appunto insinuavano il dubbio, in materia di procedura giudiziaria, che non ci sarebbe stata serenità di giudizio da parte di un giudice, cioè il papa stesso, che non era terzo, bensì parte in causa Nella missiva i sottoscrittori manifestavano infatti il proposito di volersi rivolgere direttamente al giudizio dell'imperatore per la composizione dello scisma, come avevano fatto in precedenti situazioni i suoi augusti predecessori. Rimandavano però ad 'opportuno tempore', quindi a dopo la liberazione dal "giogo barbarico", l'evento di accorrere 'adpedes vestrae pietatis'. Temporeggiavano appunto, ma soprattutto non dimostravano alcuna fretta di ritornare sotto l'ala dell'impero, benché si dichiarassero sottoposti ad un pesantissimo giogo barbarico a causa dei loro errori, e sebbene professassero "con tutte le forze di voler ritornare all 'ombra della sancta respublica, sotto la quale un tempo avevano vissuto tranquilli" Infine dopo grande dimostrazione di lealismo verso l'Impero e di fiducia nelle possibilità di vittoria finale dell'esarca Romanos, manifestavano una propensione, o meglio minacciavano di farsi consacrare dall'episcopato franco, qualora vi fossero costretti dagli eventi o nel caso le imposizioni del papa o dell'esarca non fossero state rimosse:

50) CESSI, 1940, Docum., doc. n.8, p18: 'Nam, cum quo nobis ipsa causa est, et quem in communione vitamus, iudicem experiri non possumus. Quod etiam sacratissimis legibus vestris statutum est, nullum posse iudicem esse in causa, qua adversarius comprobatur'.
51) CESSI, 1940, Doc., n.8, p.l4: 'Nam, etsi nos peccata nostra ad tempus gravissimo iugo gentium summiserunt nec obliti sumus sanctam rempublicam vestram, sub qua olim quieti viximus et, adiuvante Domino, redire totis viribus festinamus'
'Ergo, mitissime dominator, totius concilii nostraeparvitatis haec est deliberatio utpro reddenda ratione communionis nostrae, contrito, Dei iudicio, iugo barbarico, opportuno tempore ad vestrae pietatis vestigia occurramus..' (...).
'... laborantefideliter glorioso Romano patricio, . . . credimus nos celeriter, devictis gentibus, ad pristinam libertatem reduci'.

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"Ma poiché gli arcivescovi delle Gallie sono vicini, gli eletti si presenteranno afarsi consacrare da loro, e così si dissolverà la metropoli d'Aquileia costituita nel vostro impero, per mezzo della quale, sotto la protezione di Dio, dominate ancora sulle chiese che si trovano nelle mani dei barbari"52
I vescovi firmatari, benché i duchi longobardi della Venetia fossero rientrati al soldo dei Romei, si sentivano evidentemente al sicuro da eventuali rappresaglie, e il tono di alcuni passaggi dà l'impressione che nutrissero seri dubbi sull'eventualità che l'Impero riuscisse ad imporre il suo potere diretto e in breve tempo sui territori veneti, cioè che "sconfitti i barbari, potessero velocemente ritornare all'antica libertà".
Maurizio, alla luce dei fatti, fece buon viso, e la sua replica, dettata da opportunità politica, fu immediata. Ancora nel 591, l'imperatore inviava a papa Gregorio una iussio che congelava le iniziative papali nelle Venezie, e rinviava la composizione della controversia religiosa ad un momento più favorevole, successivo alla sottomissione definitiva delle terre longobarde:
'quousque ... adpristinum ordinem redigantur'.

Il vescovo di Oderzo e quello di Padova non vengono ricordati, nell'uno o nell'altro campo, dalle fonti superstiti sul sinodo maranese Poiché la

52) CESSI, 1940, Docum., doc.8, p.18: 'sed quia Galliarum archiepiscopi vicini sunt, ad ipsorum sine dubio ordinationem occurrent, et dissolvetur metropolitana Aquileiensis ecclesia sub vestro imperio constituta, per quam, Deo propitio, ecclesias in gentibus possidetis, quod ante annos iam fieri coeperat, et in tribus ecclesiis nostri concilii, id est Breonensi, Tiburniensi, et Augustana (in M.G.H., Epist., I però Aguntana) Galliarum episcopi constituerant sacerdotes' (traduz. in PASCHINI, 1975, p.l08).
53) 'Quia igitur et tua sanctitas cognoscitpraesentem rerum Italicarum confusionem et quod oportet tempori bus competenter versari, iubemus tuam sanctitatem nullam molestiam eisdem episcopis inferre, sed concedere eos otiosos esse, quousque per providentiam Dei ... et ceteri episcopi istriae seu Venetiarum iterum ad pristinum ordinem redigantur' (CESSI, 1940, Docum., n.9, p20).
Ne accenna anche papa Gregorio I in una lettera a Giovanni di Ravenna: 'De causa vero episcoporum Istriae, omnia quae mihi vestrafraternitas scripsit, ita esse jam ante deprehendi in iisjussionibus quae adme apiissimisprincipibus venerunt, quatenus me interim ab eorum compulsione suspenderem' (GREGORIO MAGNO, Epist., LI, md. X, n.46, P.L, t.77, col.584).
54)11 vescovo di Padova rimase probabilmente in sede fino alla distruzione della città da parte di Agilulfo, nel 602. L'episcopio si trasferì quindi in laguna sotto protezione bizantina, dato che un presule patavino risulta presente al concilio di Roma, del 680, fra i vescovi della metropoli gradense che sottoscrissero la lettera sinodale di papa Agatone (cfr. BOGNETTI, 1960, La continuità delle sedi episcopali, p.445.
Secondo il documento liutprandino Spurio O dubbio del 743, il vescovo di Treviso avrebbe invece assunto ad interim il titolo di Padova (CESSI, 1940, Doc., n.27, pp.4l segg.). Non si

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residenza nelle terre bizantine non era certamente di ostacolo ad un intervento al sinodo, sarebbero da includere nel novero dei vescovi sudditi dell'Impero (tra questi doveva esserci anche Pietro di Altino), che assieme a Severo sottoscrissero una supplica all'imperatore, purtroppo perduta. E' problematico comunque che il Diacono non ricordi i vescovi opitergino e patavino, anche nel caso improbabile che essi fossero rientrati, volenti o nolenti, nell'orbita dell'ortodossia romana assieme ai vescovi istriani costretti temporaneamente ad abiurare.
Quest'ipotesi non dovrebbe riguardare il vescovo Marciano di Oderzo, che sarebbe stato uno dei principali fautori dello scisma fin dal 553 (anno del concilio secondo di Costantinopoli che condannava i tria capitula), e che troviamo molto legato al patriarca Elia all'epoca del sinodo di Grado del 579. A meno che Marciano, nel 590-91, non fosse altrove, e chissà dove, 'peregrinatus pro causa fidei' 55, in attività missionaria tricapitolina.


Il vescovo Marciano.

Già si diceva sulle origini del Cristianesimo e dei vescovadi nelle Venezie.
Per Oderzo, una volta ammessa la falsità della lapide e della notizia del Dandolo che tramandano un Epodio opitergino tra i vescovi consacranti la chiesa di S. Giacomo di Rialto nel 419 56, dalle poche documentazioni certe, si può ritenere che il suddetto episcopato non risalga anteriormente alla metà del VI secolo. Per quel secolo la leggenda presenta una piccola serie di vescovi completamente ignorati dalla storia - avverte il Paschini, ed elenca S.Floriano, S.Tiziano e S.Magno A meno che la diocesi non fosse da qualche tempo cessata, Marciano, citato negli atti del sinodo di Grado del 579, è il primo vescovo di Oderzo documentato con certezza. L'ipotesi quindi di fondazione della diocesi opitergina verso la metà del VI secolo, concorderebbe col fatto che Venanzio Fortunato non la nomini nel suo viaggio poetico in patria, che è anche una realistica ricognizione della situazioesclude che questa fosse una interpolazione dei tempi del sinodo di Mantova, per mantener
vivo in terra longobarda il titolo patavino e rafforzare la pretesa aquileiese di riportare il
vescovado sotto la sua giurisdizione. Un presule di Padova, Domenico, ricomparve in
terraferma proprio al sinodo di Mantova del 827, a cui però non parteciparono quelli lagunari,
di osservanza gradese (CESSI, Doc., n.50, p.83).
55) Vedi infra l'epigrafe funeraria nella sacrestia della chiesa di S.Eufemia di Grado.
56) CUSCITO G., 1983, Testimonianze archeologiche monumentali, p.85. Cfr. TRAMONTIN
5., 1983, Le origini del cristianesimo, p.27-3l.
57) PASCHINI P., 1946, L'origine della Chiesa di Ceneda, p.ll. Cfr. TRAMONTIN 5.,
1986, ISanti Patroni, pp.9-23.

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ne religiosa nelle Venezie. Venanzio, originario di Valdobbiadene, scriveva proprio verso la fine del VI secolo e doveva ben essere documentato: quando dimostrava la sua amicizia per i presuli tricapitolini di Aquileia, Concordia e Treviso, non avrebbe sicuramente ignorato Marciano vescovo di Oderzo, pure tricapitolino, se egli, alla sua partenza per la Gallia, nel 566, ne avesse avuto notizia.
Dopo la partecipazione al sinodo di Grado, non si ha notizia di alcun presule opitergino tra i partecipanti al successivo sinodo di Marano. E' ben noto comunque che non ci sono pervenuti i nomi ed i titoli dei vescovi della provincia bizantina, che, parallelamente ai loro confratelli in terra longobarda, sottoscrissero una supplica all'imperatore andata perduta. Stranamente neppure Paolo Diacono, come si accennava, fa menzione di un vescovo opitergino nel suo capitoletto sullo scisma di Severo e sul sinodo maranese.
Nella sacrestia della cattedrale di S.Eufemia a Grado risulta sepolto un vescovo di nome Marciano, purtroppo senza l'indicazione della sede, secondo l'epigrafe 58:
"Qui riposa nella pace di Cristo il vescovo Marciano di santa memoria, che fu vescovo per 44 anni, ma per 40 annifu pellegrino per la fede; venne quindi deposto in questo sepolcro l'ottavo giorno prima delle calende di Maggio (24 Aprile), indizione undicesima".
Questo Marciano viene ritenuto da alcuni un patriarca cattolico di Grado e, su suggerimento del Chronicon Gradense, immediato successore dello scismatico Severo 59; viene però espunto dai cataloghi patriarcali dalla critica più agguerrita, poiché risulta ignorato sia da Paolo Diacono che nella cronistoria fatta al sinodo di Mantova. Si suppone sia stato inserito nei tardi cataloghi fra Severo e Candidiano in base al calcolo al 608 dell'indizione undecima segnata sull'epigrafe.
Secondo il Paschini, la data più probabile della morte del presule, dovrebbe essere però il 593, e Marciano viene identificato col vescovo di Oderzo presente al sinodo di Grado. Questa proposta, farebbe combinare col senso dell'epigrafe una serie significativa di coincidenze, che rafforze


58) 'Hic requiescit in pace Christi sanctae memoriae Marcianus Episc. qui vixit in episcopato annos XLIIII et pere grinatus est pro causa fidei annos XL depositus est autem in hoc sepulchro VilI kal. Maias indict. undecima' (in BELLIS, 1978, p. 160).
Supposto ma non sicuro vescovo opitergino per Bellis (cit., p. 159), che accetta il 593 come data della morte del presule, proposta dal Paschini.
59) JOANNES DIAC., PL, t. 139, col.95 1. Cfr. anche DANDOLO A., Chronicon Ven., LVI, cap.III, 3, in RR.I.SS., t.XII, col. 108. Sia Paolo Diacono (III,26 e IV,33) che gli atti del sinodo mantovano (CESSI, doc.50, p85) ignorano l'inserimento di Marciano, tra Severo e Candidiano.

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rebbero sia la data dell'inumazione che un'ipotesi di presule scismatico. Si ricaverebbe infatti che Marciano fu consacrato vescovo nel 549 (l'anno successivo a quello in cui papa Vigilio si adattò a condannare i Tre Capitoli), e che nel 553, anno del concilio anti-tricapitolino di Costantinopoli, entrato in conflitto col potere politico, sarebbero iniziate le sue peregrinazioni. Il nostro presule, rafforzato nel credo tricapitolino dall'amicizia con il patriarca Elia, dopo aver peregrinato un quarantennio 'pro causa fidei', in attività missionarie, o in esilio, sarebbe ritornato in "patria" poco dopo il sinodo di Marano; qui sarebbe deceduto, appunto nel 593, sul calcolo dell'indizione undecima.
L'indizione undecima cadeva pure nel 623, ed il Bognetti, in base a questa datazione della sepoltura, ipotizzava che l'epigrafe si riferisse al coepiscopo tricapitolino di Sabiona missionario "apud Alamannos" nella Retia Secunda 6O, E' però difficile sostenere che un vescovo tricapitolino potesse essere sepolto in anni successivi al 606 nella sacrestia di S.Eufemia, nella cattedrale di Grado, ormai rientrata dallo scisma manu militari; a meno che non fosse avvenuta in quel particolare momento storico in cui, sotto papa Onorio I, sembrano momentaneamente appianate le discordie religiose nelle Venetiae, subito rinfocolate dalla reazione dei presuli 'in transpadanis partibus' e dall'abiura del patriarca gradense Fortunato (infra).
E' interessante comunque anche la datazione al 623 della sepoltura di un vescovo cattolico, che farebbe risalire la sua consacrazione al 579, anno del sinodo di Grado; attorno al 583 poi, dopo quattro anni di permanenza in sede, con la riscossa cattolica sotto papa Pelagio Il, quel Marciano sarebbe stato esiliato, e ovviamente si sarebbe trattato di un vescovo dei territori bizantini. Da una lettera di Gregorio Magno si apprende effettivamente di un vescovo veneto esule in Sicilia, che aveva manifestato ai suoi diocesani il proposito di ritornare all 'unità della Chiesa di Roma 61
Mancherebbe a questo punto l'identificazione della diocesi di Marciano, e la proposta di presule opitergino, quale che sia la data della sepoltura, potrebbe essere sensata.


60) BOGNETTI, Rivalità, IV, p.570 segg. Un presbitero Marciano 'locum faciens viri beatissimi in genuini episcopi sanctae ecclesiae secundae Rhetiae', cioè di Sabiona, era tra i firmatari degli atti della sinodo di Grado (CESSI, 1940, Doc., n.6, p13).
L'indizione è un ciclo di 15 anni; si ricava dal resto del numero dell'anno aumentato di 3 e diviso per 15 (in Bartolini, 1982, p.ll99, nota 17). Ora l'a.593 aumentato di 3 fa 596, che diviso per 15 dà un resto dii 1: l'indizione undecima appunto, che cade pure nel 608,623,638, ecc.
61) GREGORIO MAGNO, Epist., IX, ep.94, ind.II (a.598), in P.L., t.77, col.1020. Cfr.
Paschini, 1975, p111.

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Le due circoscrizioni ecclesiastiche aquileiesi.

Sul piano religioso la politica attendista dell'imperatore Maurizio nei confronti degli scismatici delle Venezie non aveva avuto gli esiti desiderati. In quel torno di tempo la regina Teodolinda, col supporto del suo con sigliere religioso Secondo di Non (tricapitolino) aveva dato pieno appoggio agli Aquileiesi e aveva favorito le loro opere missionarie nel regno, tanto che erano riusciti ad estendere la loro influenza fino alle diocesi di Brescia e di Como 62
Con l'irrigidimento religioso sotto il nuovo imperatore Focas, la disputa dottrinale fra cristiani caricata di implicazioni politiche si radicalizzò, almeno nelle Venezie. Da una lettera di Gregorio Magno del 603 si apprende che il papa aveva sollecitato l'esarca ad azioni repressive contro gli scismatici: 'Armet vos contra devios ipsafidei rectitudo' 63. La lettera non ebbe seguito - in quel tempo era in corso la grande offensiva longobarda di Agilulfo - e il papa mori, nel 604, prima di vedere l'esarca in azione. Smaragdo ruppe però ogni indugio alla morte del patriarca Severo, circa nel 606, e le cronache raccontano che con la forza riuscì ad imporre a Grado l'elezione di Candidiano (cattolico). Immediatamente i vescovi scismatici della Venezia ricercarono l'appoggio dalla monarchia longobarda, e il braccio di ferro tra Longobardi e Impero, in quel periodo di tregue, si spostò sul piano religioso.
Il re Agilulfo, favorevole ad una Chiesa nazionale, più o meno cattolica, ma soprattutto indipendente da Roma, e perciò lontana da eventuali suggestioni filo-bizantine fatte filtrare per via religiosa 64, doveva ritenere gli scismatici di Aquileia ormai funzionali alla politica religiosa del regno. Al colpo di mano di Smaragdo, il re, d'accordo col duca forogiuliano Gisulfo Il, diede il suo pieno appoggio ai vescovi tricapitolini che in territorio longobardo consacrarono un proprio metropolita 65.
Quest'ultimo, l'anti-patriarca Giovanni I, attorno al 607, si appellava a re Agilulfo perché agisse ancora in favore della Chiesa di Aquileia e evitasse il ripetersi di episodi come quello dei tre vescovi Pietro, Providenzio e


62) PASCHINI, 1975, pp.l 14-115 (dalle lettere di Gregorio Magno).
63) La richiesta di Gregorio a Smaragdo, in CESSI, 1940, n.Il, p.22.
64) Cfr. FASOLI, 1965, Longobardi, p94.
65) PD., IV, 33. Cfr. PASCHINI, 1975, pp.l 12-113.
In Giovanni Diacono, a Severo sarebbe succeduto Marciano: 'His diebus defuncto Severo
patriarcha... In Gradus quoque ordinatus est a Romanis Marcianus antistes' (IOANNES,

Chron.Venetum, P.L., t.139, col.884). A Marciano sarebbe quindi seguito Candidiano:
'Defuncto autem Marciano, qui ecclesiam Gradensem rexerat annos tres, dies quinque,

successit Candidianus' (IOANNES, Chron. Ven., cit.,col.885).

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Agnello (tricapitolini), strappati con violenza dalle loro chiese dai militi romei e costretti contro volontà, a detta di Giovanni, a dare il consenso all'elezione di Candidiano 66 Nella sua lettera Giovanni esortava il re, 'laborate et agite', affinché impedisse in futuro l'elezione 'in Gradensi castro' di un successore di Candidiano, quando lo 'sventurato fosse da questo mondo trapassato agli eterni tormenti' 67.
L'appello implicito ad attaccare Grado veniva lasciato cadere da Agilulfo, anche perché, seguendo la relazione fatta al sinodo di Mantova, la città "cinta dal mare e dai flutti, e per la resistenza dell'esarca Smaragdo, allora non si era potuta prendere" 68.
Da allora si ebbero due patriarchi aquileiesi nella Venetia et Histria, e due circoscrizioni metropolitiche; il patriarca cattolico di 'Nova Aquile gia' in Grado aveva giurisdizione sull'eparchìa Istrìas, cioè sulla provincia altoadriatica soggetta all'Impero, comprendente le aree lagunari venete, la Secunda Venetia, e l'Istria vera e propria; l'altro metropolita tricapitolino di "Aquileia Vetere", con residenza 'in Cormonensi castro', organizzava i vescovadi dell'Austria longobarda, dalle Alpi Giulio-Carniche fino a Brescia, e addirittura a Como 69


La politica filo-cattolica di Teodolinda.

Il re Agilulfo morì nel 616 e gli successe il figlio Adaloaldo.
Teodolinda, dopo la morte del suo influente consigliere Secondo di Non, risulta però attirata verso il cattolicesimo di Roma, anche per lo zelo del monaco irlandese S.Colombano. Il favore della regina aveva portato poi all'espansione delle missioni cattoliche dei monaci di Bobbio in sempre


66) CESSI, 1940, doc.n.12, p23, che rinvia al doc. n.50, Atti del Sinodo Mantovano, p86:
'Et Petrus, Providentius seu Agnellus, episcopi Istriae, qui adhucfidem sanctam tenebant et Candidiano necdum consentiebant, de aecclesiis suis a militibus tracti et cum gravi iniuria et contumeliis ad eum venire compulsi sunt'.
Pietro e Providenzio in una lettera di Gregorio Magno risultano però già ben intenzionati a recedere dallo scisma (PASCHINI, 1975, p.11O).
67) CESSI, 1940, doc.n.50, p.86: 'Laborate et agite, quatinus etfides catholica vestris augeatur temporibus et in Gradensi castro, postquam infelix Candidianus de hoc seculo ad aeterna supplicia transmigravit, altera iniqua ordinatio ibi minime celebretur nec populus ille amplius tribuletur'.
68) 'Et quia Gradus mari etfluctibus cingitur Smaragdo hesarcho resistente, tunc a Longobardis capi non poterat' (CESSI, Doc., n.50, p.86).
69) Qui il patriarca Giovanni I inviava un proprio vescovo, Agrippino (PASCHINI, 1975, p.115).

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più vasti settori delle province occidentali tradizionaliste e ariane, e della Venetia tricapitolina. Ci furono quindi delle forti reazioni al cattolicesimo, segnalate dalle fonti. S'era evidentemente diffuso il timore che il deferente adeguamento della corte alle suggestioni di Roma potesse comportare il ribaltamento della politica religiosa del regno fino allora autonomista. Interpretando il punto di vista degli scismatici tricapitolini e degli ultimi eretici ariani ne poteva derivare in primo luogo una dura repressione dei dissidenti, fino ad allora evitata grazie al favore del regno. Ed era ancora forte il ricordo della reazione dei tempi di Agilulfo, in cui il re rispondendo ai colpi di mano dell'esarca Smaragdo contro le Chiese scismatiche, aveva invece steso la sua protezione sui Tricapitolini e appoggiato l'elezione dell'antipatriarca in terra longobarda.
Oltre alla normalizzazione sul piano religioso, ben più pericoloso per l'indipendenza del regno, sempre secondo il punto di vista degli oppositori, poteva essere in prospettiva un non improbabile allineamento di Teodolinda e di Adaloaldo alla politica imperiale, filtrata per via religiosa. L'adeguamento poteva sfociare in una sudditanza all'impero e, secondo le valutazioni riportate dal cronista franco Fredegario Scolastico, un tale progetto veniva appunto attribuito ad Adaloaldo, su suggerimento del nuovo consigliere bizantino a corte, Eusebio, inviato dell'imperatore Eraclio
Poteva essere la soluzione definitiva dei lunghi conflitti tra Longobardi e Bizantini; ne poteva derivare un assetto unitario e finalmente pacifico della penisola, con uno stato barbarico entro l'orbita dell'Impero, sul tipo di quello del periodo aureo di Teodorico il Grande. Purtroppo gli oppositori, e non sapremmo dire se era prevalente la motivazione politica o quella religiosa, mandarono tutto all'aria.


La reazione tricapitolino-ariana.

Racconta il Diacono che quando Adaloaldo impazzì, i Longobardi lo deposero. In effetti la reazione dei tradizionalisti in un primo tempo bloccava le iniziative di Teodolinda, e ne minava l'influenza sul giovane re, pas

70) FREDEG.SCHOL., Chronicum, cap.XLIX, P.L., t.71, col.637: 'Adaloaldo rex Langobardorumfllius Agonis (Agilulfi) regis, cum patri suo successisset in regno, legatum Mauricii imperatoris, nomine Eusebium, ingeniose ad se venientem benigne suscepit. Inunctus in balneo nescio quibus unguentis ab eo Eusebiopersuadebatur; (...). Persuasus ab ipso utprimates et nobiliores cunctos in regno Lan gobardorum interficere ordinaret, eisdem exstinctis, se cum omni gente Langobardorum imperio Mauricii traderet'. Fredegario però cita erroneamente l'imperatore Maurizio, che era morto nel 602, invece di Eraclio (613-641). Vedi anche BERTOLINI 0., 1958, Riflessi, pp.752-513.

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sandolo alla tutela del cognato Arioaldo, duca di Torino Arioaldo, che aveva sposato Gundeberga, sorella di Adaloaldo, risulterebbe associato al regno, e per far quadrare i suoi 12 anni di governo registrati dal Diacono bisognerebbe pensare che fosse entrato in carica fin dal 624, quindi per qualche tempo contemporaneamente ad Adaloaldo 72. In questo senso si constata nella lettera di papa Onorio I al nuovo esarca Isacio, del 625, con cui veniva incoraggiato un deciso intervento del braccio secolare in favore di Adaloaldo. Nella missiva il papa deprecava il tentativo dei vescovi tricapitolini, 'in transpadanis partibus', di sollecitare un potente ministro di etnia romana alla corte di Teodolinda perché, in dispregio del giuramento fatto al re legittimo, passasse al seguito del 'tyrannus' Arioaldo, come lo chiama Onorio. Ecco l'illuminante testimonianza del papa: "Ci viene riferito che i vescovi della Transpadana si sforzino di persuadere Pietro figlio di Paolo, perché abbandoni il re Adaloaldo e aderisca invece all 'usurpatore Ari oaldo"
Ci fu dunque una drastica battuta d'arresto nei progetti della corte di Teodolinda e degli ambienti romani, anche se le prospettive apparivano tuttavia favorevoli ai filo-imperiali. Una tale fiducia traspare sempre dalla missiva di Onorio, al quale la piena restaurazione di re Adaloaldo e la cattura in territorio longobardo dei vescovi sobillatori sembravano alla portata dell'azione dell'esarca, e cosa fatta: 'dopo che avrete, con l'aiuto divino, ripristinato nel regno Adalualdo (come speriamo), vi preghiamo di voler spedire a Roma i predetti vescovi, per non lasciare impunito un tale misfatto'.


71) PD., IV, 41. FREDEGARIO, Chronicum, cap.L, P.L., t.7 1, col.637: 'Charoaldum ducem Taurinensem, qui germanamAdaloaldi regis habebat uxorem, nomine Gundebergam, omnes seniores et nobilissimi Lan gobardorum gentis uno conspirantes consilio, in regnum eligunt sublimandum. Adaloaldus, veneno hausto, interiit'. (Vedi anche GASPARRI, 1978, Duchi, p51, e nota 115 a
72) Cfr. RONCORONI, cit., p. 143, nota 134. Secondo il Diacono, Adaloaldo regnò per dieci anni (PD., IV, 41), dal 616 al 626; Arioaldoper 12 anni (PD., IV, 42), quindi quasi certamente dal 624, fino ai 636.
73) HONORII PAPAE I, Epistolae, ep.I, P.L., t.80, col.469: 'Delatum est ad nos, episcopos Transpadanos Petro Pauli filio suadere conatos esse, ut Adalvaldum regem desereret, Ariovaldoque tyranno se applica ret. '( rogamus vos, utpostquamAdalvaldum divino in regnum (ut speramus) auxilio reduxeritis, praedictos episcopos Romam mittere velitis, ne scelus hujusmodi impunitum relinquamus'; e ID, Epistolae, XVI fragm., in cit., col.482:
'..didicimus quosdam episcopos in transpadanis partibus quaedam verba episcopali actui inimica Petro Pauli filio edixisse, atque monito impiae suasionis innuere; asserentes in se perjurii reatumsuscipere, utnonAdulubaldo regi, sedpotiusAriopaldo tyranno consentiret,'. Cfr. BERTOLINI 0., 1958, Riflessi, p.753. La lettera di Onorio anche in M.G.H., Epp., t.III, 1892, p6913, Epist.Langob. collectae, n.1.

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L'ottimismo di Onorio, quanto all'efficacia dell'intervento dell'esarca nelle faccende longobarde, lascia perplessi. A meno che, secondo l'ottica papale, il pregresso buon andamento delle vicende sul piano religioso non permettesse di fare comunque previsioni favorevoli anche dal punto di vista politico (quindi le valutazioni di Fredegario, riportate sopra, dovevano avere un concreto fondamento). Di quegli anni appunto un'iscrizione dedicatoria attribuiva a papa Onorio il vanto di aver estinto definitivamente e totalmente dopo settant'anni lo scisma tricapitolino e lo stesso papa scriveva in una sua lettera della ritrovata unità religiosa nelle Venezie.
A tal riguardo c'è da credere che i tricapitolini aquileiesi, in un primo momento trascinati, forse senza entusiasmo, in un'effimera abiura da Teodolinda, e dall'attivismo missionario di S.Colombano e dei monaci bobbiesi, avessero infine recuperato i vecchi ideali, ritornando allo scisma75.
Addirittura il fronte cattolico franava anche nella Venezia lagunare bizantina. In un'altra lettera, del 628, ancora papa Onorio comunicava ai vescovi delle terre imperiali della Venetia et Istria, di aver inviato ambasciatori al re longobardo - che questa volta fregia del titolo di 'eccellentissimo' - per chiedere la restituzione del patriarca Fortunato di Grado. Questi, 'Deo rebellis et perfidus' avendo scelto di abiurare e di rompere la ritrovata unità religiosa delle Venezie, 'abnegata concordiae unitate', s'era trasferito in territorio longobardo, portando con sé anche tutto
il tesoro della sua chiesa 76


Civitas Nova Eracliana.

Una decina d'anni più tardi, poco prima del 639, Rotari riusciva a conquistare Opitergium, capoluogo della Secunda Venetia. La perdita della piazzaforte implicò l'immediato ripiegamento del magister militum nel castello 'quodNovas dicitur', citato da Gregorio Magno nella sua lettera del 599 al

74) BERTOLINI, 1958, Riflessi, p.753 e nota 50. Nell 'epitaffio sepolcrale di Onorio: 'Histria nam dudum saevo sub scismate fessa/Ad statuta patrum teque monente redit', in HONORII PAPAE I,Appendix, LV, P.L., t.80, col.495 (daPASCHINI, 1975, p118).
75) BOGNETTI, 1960, La rinascita cattolica dell'Occidente difronte all'arianesimo, p25.
76) HONORII PAPAE I, Epistolae, ep.II, P.L., t.80, col.469: 'Nos enim dirigentes homines nostros ad excellentissimum Lan gobardorum regem, injunximus, ut eumdem Fortunatum, ut relicta ab eo republica, ad gentesque prolapsum, et abnegata concordiae unitate Deo rebellem et perfidum, necnon res quascumque secum aufugiens abstulisse monstratur, expetat, et repetere non moretur; ut et hi a quibus repetuntur, a patri bus Christianissimae reipublicae, parem justitiam consequantur'.

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vescovo Mariniano di Ravenna Qui, nel nuovo caposaldo dell'impero si riorganizzò il governo della provincia venetica. Col trasferimento del comando civile-militare, delle gerarchie ecclesiastiche e di parte della comunità, venne traslata anche la cattedra episcopale opitergina. E questo fatto èassolutamente innegabile data la compenetrazione tra potere politico e autorità religiosa tipico della società bizantina in quel torno di tempo. Cosicché Novas assurse al rango di civitas sotto l'imperatore Eraclio, e da lui prese il nome:


'Civitas Nova que Eraclwna nuncupata est' 78.

Un notevole monumento storico proprio di quegli anni è l'epigrafe rinvenuta, un secolo fa, nelle fondazioni della basilica di Torcello. L'iscrizione commemorava, nel 639 sotto Eraclio, la consacrazione di un'importante chiesa, con la presenza del vescovo diocesano (di cui la lapide deteriorata non conserva il nome), in un insediamento di fortissima valenza politicomilitare. Tant'è vero che la chiesa era stata fatta costruire dal magister militum Maurizio, colà residente, addirittura per sollecitazione 'ex iussione' dell'esarca ravennate, il patrizio Isaacio 79.
Secondo il Cessi la lapide sarebbe stata trasportata a Torcello da Cittanova e, senza alcun dubbio, pure per il Tramontin. Questi avverte che, in base all'epigrafe, una raccolta così eminente di personalità non poteva rife

77) GREGORIO MAGNO, Epist., IX, ep.X, P.L., t.77, col.950: 'in castello quodNovas dicitur episcopus quidam, Joannes nomine, de Pannonis veniens fuerit constitutus, cui castello eorum insula, quae Capritana dicitur, erat quasi per dioecesim conjuncta'. Novas viene individuato non lontano da Caorle (Caprulae), e da Jesolo (Equilum), in CARILEFEDALTO, 1978, pp.325 e 339. Idem in PASCHINI, 1975, p.I 10.
78) ROSSI A., 1945, La cronaca veneta detta altinate, hb.III, p91: 'Deinde temporibus Eraclii imperatoris venerunt Venetici, qui remanserant de captivitate etfecerunt Civitatem novam, que Eracliana nuncupata est'.
79). L'iscrizione in CESSI, 1940, doc., I, n.24, p139, con alcune integrazioni tratte da PERTUSI A., 1962, L'iscrizione torcellana dei tempi di Eraclio, in 'Studi Veneziani', IV:
'(+ ln Nomine Domi)NI DEI Nostri IHesVs CHRisti IMPerante DomiNo Nostro HERACIio/
(PerPetuo) A VGVSto ANno XX VIII INDictione XIII FACTA /
(Sanc)Te MARIE DeI GENETricis EX lVSSione PIO ET/
(Devoto) DomiNo ISAACIO EXCELLEnTiss. EXarCHO PATRICIO ETDEO VOLente /
(PR)O EIVS MERitis ET EiVS EXERCitu HEC FABRIca ESt /
(Per Bene)Meritum MA VR(iciu)M GLORiOSVM MaGISTROMILitum /
(Veneti)AR(um Provincie) RESEdENtEM iN HVNC LOCVM SVVM /
(...) SancTo ET (... e)PIsCopo HVIVS ECCLesie FeLiciTer'.

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rirsi se non alla sede del governo della zona lagunare bizantina, appunto ad Eraclea 80
Dalle fonti storiche venetiche e da quelle documentarie si sa infatti che ai tempi di Isaacio la sede dell'amministrazione imperiale della Venetiarum provintia, e quindi del magister militum, era proprio a Cittanova. La città risulterà capoluogo, centro di gravitazione e nucleo propulsore del Veneciae ducatus quantomeno fino alla fine dell' VIlI-inizi del IX secolo, e come tale veniva indicata e citata ai tempi del diacono Giovanni 81
Nel 639 dunque, nella nuova sede dell'amministrazione provinciale romea si era convenientemente e tempestivamente consacrata la nuova cattedrale della diocesi opitergina, traslata dal perduto capoluogo con l'approvazione canonica di papa Severino, a detta del diacono Giovanni 82. Secondo la cronaca piuttosto tarda del doge Andrea Dandolo, la traslazione veniva attribuita al vescovo Magno

80) TRAMONTIN S., 1983, Le origini, cit., p.29. Torcello non non fu mai sede di magister militum, e non risulta che fosse un castrum - deriverebbe il nome eventualmente da una torre
- e nelle fonti bizantine del X secolo, è citata come importante emporion. Tra i centri lagunari vengono indicati come castrum Olivolo nel pactum Lotharii dell'840, e Caorle, 'kàstron Kàpre', in Costantino Porfirogenito. La pochezza delle risultanze archeologiche riferibili al VI-VII secolo (BOGNETTI, 1968, Una campagna di scavi a Torcello per chiarire problemi inerenti alle origini di Venezia, E.L., IV) confermerebbe l'esiguità dell'insediamento. La costruzione a Torcello di una importante chiesa nel VII secolo si giustifica col trasferimento del vescovo di Altino, anche in questo caso, secondo Giovanni Diacono, col beneplacito canonico di papa Severino (640): 'Maurus Altinensis episcopus, non ferens Langobardorum insaniam, Severini papae auctoritate ad Torcellum insulam venit' (Chronicum Venetum, t. 139, col.889). Il trasferimento veniva invece anticipato ai tempi del patriarca Elia, circa nel 579, nel Chronicon Gradense (cit., col.948).
81) Nel Chronicum Venetum sia il contestato 'Paulitio dux', che i più realistici 'Marcellus dux' (727-739) e 'Ursus dux' (739-750) venivano tutti assunti in carica 'apud Civitatem novam'(in P.L., t. 139, coll.892-894). La città sarebbe stata distrutta dai Venetici ai tempi del duca Obelerio (ai primi del IX secolo): 'Tunc hisdem Obelierius audacter Veneciam intravit;... Hac etiam tempestate Civitas nova, quae vocatur Eracliana, a Veneticis destructa est' (JOANNES, Chron. Ven., PL, 139, col.897).
82) Da GIOVANNI DIACONO, Chron. Ven., cit., col.878: 'Postquam autem Opiter(g)ine civitas a Rhotari rege capta est, episcopus illius civitatis auctoritate Severiani papae hanc Eraclianam petere ibique suam sedem confirmare voluit'.
Nessun dubbio per il Tramontin che la diocesi opitergina abbia trovato continuità ad Eraclea piuttosto che a Jesolo (TRAMONTIN 5., 1983, Le origini, cit., p29).
83) DANDULI A., Chron. ven., lib.VI, cap.VII, IX, in RR.I.SS., t.XII, col.115: 'Hic (Rotharith) Opitergium oppidum infestum, quia Romanis suberat, expugnavit et diruit. Tunc Magnus vir sanctus et loci catholicus episcopus cum devota plebe ad contigua litora perveniens, Civitatem construxit, quam sub imperatoris nomine Heracliam vocavit.' (anche in MASCHIETTO A., 1959, S.Tiziano Vescovo, p.l2l, nota 11).

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Il titolo originario del presule, episcopus opiterginus, sarebbe continuato nella nuova sede sicuramente fino al concilio di Roma del 680, a cui partecipò il vescovo Benenato, e sarebbe diventato successivamente 'Oppiterginae et Eraclianae Civitatum Ecclesiae Episcopus'
La cattedrale di Cittanova, sulla base della lapide commemorativa, era stata dedicata a Sancta Maria Dei Genetrix, e non poteva essere altrimenti dato che la Theotòkos era cara alla venerazione e bandiera di battaglia dell'imperatore Eraclio, protettore della nuova città 85 Il titolo viene richiamato dal monogramma 'theotòke boèthei' cioè "Madre di Dio soccorri", sul verso del sigillo in piombo del patricius Anastasio, raccolto a Cittanova in una tomba del VII secolo 86. Anche questo reperto testimonia la residenza in loco di personaggi, di provenienza orientale, di rango elevato nell'amministrazione della provincia.

Dopo la prima occupazione da parte di Rotari, di Oderzo non si conosce molto, e forse la postazione, depredata dei beni e privata del suo retroterra, veniva abbandonata dai conquistatori. La zona però, dal punto di vista imperiale, era ormai poco difendibile da attacchi terrestri; era quindi ininfluente nella strategia di difesa delle terre litoranee e di protezione delle rotte commerciali altoadriatiche, imperniata ormai sul nuovo caposaldo di Eracliana. Opitergium concludeva così il suo compito di roccaforte della sancta respublica verso i territori longobardi. E' molto probabile però, alla luce di avvenimenti posteriori, cioè la definitiva distruzione da parte di re Grimoaldo, che lo scalo venisse mantenuto attivo, per i traffici commerciali tra il retroterra longobardo ed i centri lagunari.


I nuovi centri lagunari.

Le antiche cronache venetiche, e pure l'Historia romana di Paolo Diacono, raccontano che fin dall'incursione di Attila, della metà del V secolo, gruppi di profughi avevano cominciato a spostarsi verso le lagune, su terre


84) Dal privilegio di papa Alessandro concesso, nel 1071, a Pietro vescovo della Chiesa delle città di Oderzo ed Eraclea: 'Primum namque privilegium domini pape Alessandri concessum fuit domino Petro Episcopo Oppitergine et Eracliane Civitatum Ecclesie sub anno domini MLXXI Indicione IIII, XII Kal. novembris'; con altri privilegi in FALDON, 1988, Allegatio, p.163.
85) BOGNETTI, Appunti, IV, p.66l. Pure BROWN P., 1974,11 mondo tardo antico, p. 142.
86) CARILE-FEDALTO, 1978, tav.V, p.242; suldrittodel sigillo laleggenda" + ANAITAEIQ

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in gran parte inospitali e poco abitate. Ai primi decenni del VI secolo la regione perilagunare e le isole non presentavano ancora insediamenti di rilievo, e ai tempi del re goto Vitige risultavano organizzate in una società sobria e non molto articolata, come appare dalla lettera ai tribuni maritimorum del senatore prefetto al pretorio Cassiodoro. La "Venetia maritima" poteva tuttavia contare su una fortissima economia specializzata, marineria e trasporti, produzione e commercio del sale, ed era retta da proprie magistrature, i tribuni appunto 87.
Il flusso di esuli nelle lagune si fece quindi più intenso durante il lungo periodo di guerre, invasioni e pestilenze del VI secolo. Dobbiamo anche considerare innegabile che il peggioramento climatico e l'impaludamento delle zone costiere consigliarono dopo la metà del secolo un definitivo abbandono delle civitates costiere. Sempre le antiche cronache riferiscono infine che l'espansione dei Longobardi, avrebbe provocato un vero esodo dalla terraferma. Racconta nel suo Chronicon Venetum Giovanni Diacono:
'i popoli invero della provincia, ricusando fortemente di sottostare al dominio dei Longobardi, si spostarono sulle isole vicine' 88.
E' fuor di dubbio che nella Venezia il progressivo arretramento del fronte romeo terrestre dalla linea Aquileia, Concordia, Oderzo, Treviso, Padova e Monselice, sul caposaldo di Oderzo e infine sulla sola Eracliana, avesse provocato man mano un ripiegamento di profughi verso le lagune. Difficile però ritenere che si fossero mosse di colpo intere popolazioni, anche per la difficoltà di reperire spazi e mezzi, e di organizzare in poco tempo nelle isole attività adeguate per la sopravvivenza di gruppi numerosi. Piuttosto nei momenti critici dalle ultime roccaforti bizantine dell'interno, si erano dati ad una rapida fuga, oltre alle gerarchie militari e al clero, la maggior parte dei possidenti, commercianti e artigiani. Lo ricorda nei suoi lunghi elenchi di immigrati la Cronaca Altinate 89, e in parte il Chronicon Gradense


87) CASSIODORO, Var., LXII, 24, Migne, P.L., t.69, col.874. Da JOANNES, Chronicon Gradense, P.L., t.139, col.940-41: 'Post multarum urbium destructionem (...) magna pars populi timore correpta, cum in paludibus et in insulis paganorum fugientes insidias diu habitaret (...) cum plurima loca diligenter perlustrasset, ad prefatum paludum perveniens locum, cum Ano quodam etAratore copiosam Christianorum ibidem invenit multitudinem'. La documentazione di Costantino Porfirogenito in CARILE-FEDALTO, 1978, p57. Le popolazioni si dedicavano anche all'allevamento, alla pesca, e ad attività artigianali (confermate dalla ricerca archeologica). In Anastasio si trova l'indicazione che i Venetici attendevano pure al commercio di schiavi con l'Africa (ANASTASII BIBL., Hist.de vitis Rom. Pont., S.Zacharias, 222, col.1058).
88) JOANNES DIAC., Chronicon Venetum, cit., col.878: 'populi vero ejusdem provintiae, penitus recusantes Longobardorum ditioni subesse, proximas insulas petierunt'.
89) ROSSI A., a cura di, 1945, La cronaca veneta detta altinate.., lib.III, pp.8l segg.

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a proposito del trasferimento della diocesi di Oderzo a Cittanova:
'viene testimoniato che I 'episcopato di Cittanova, che viene detta Eracliana, derivasse dalla città di Oderzo. Fuggendo di qui, il duca e la maggior parte dei nobili della città, nella suddetta Eracliana fondarono il sunnominato episcopato' 90.
Trasferitisi sulle isole e presso le foci dei fiumi, su scali e stabilimenti preesistenti (Grado il più importante), protetti verso terra prima dalla piazzaforte e capoluogo Opitergium, quindi da Eracliana, i profughi si riorganizzarono per gruppi omogenei sul modello delle loro comunità civili-religiose di origine e non trascurarono ovviamente la loro difesa costruendo "munitissimi" castelli: 'quaedam munitissima castra civitatesque aedificantes', a detta del diacono Giovanni91.
Gli insediamenti civili, di scarna consistenza, come la ricerca archeologica evidenzia, spesso con strutture in materiali poveri o deperibili 92, non erano più paragonabili alle antiche città di pietra semidistrutte e abbandonate frettolosamente in terraferma, tuttavia nei piccoli centri lagunari i ricchi rifugiati edificarono chiese maestose.
Dalla documentazione archeologica nell'ambito del Veneciae ducatus (a parte Grado), viene testimoniata l'esistenza, tra il VI e il VII secolo, di notevoli chiese paleocristiane a Cittanova, Torcello, Olivolo e Jesolo 93.


La traslazione dei titoli episcopali.

E' innegabile anche che con i notabili e col clero delle varie comunità ripiegate in laguna, si fosse pure trasferita la prerogativa di eleggere i


90) JOANNES, Chronicon Gradense, P.L., t. 139, col.949: 'Episcopatus vero civitatis novae, quae Eracliana appellata est, de Ovedercina civitate advenisse testatur. Unde dux et magna pars nobilium ejusdem civitatisfugientes, inprefata Eracliana civitateprelibatum episcopatum constituerunt'.
91) JOANNES, Chronicon Venetum, cit., col.878.
92) BOGNETTI, 1968, Una campagna di scavi a Torcello per chiari re problemi inerenti alle origini di Venezia, IV, MI. SALVATORI 5., 1989, Civitas Nova Eracliana: risultati delle campagne 1987-1 988 e prospettive generali, in AAAd, XXX VI, Aquileia e l'arco adriatico, UD, pp.299-309.
93) Sulla chiesa paleocristiana di Jesolo e sulla sua cattedrale vedi CUSCITO G., 1983, Testimonianze archeologiche, cit., p.86-96. Secondo il Chronicon Gradense (cit, col.949), l'episcopato di Jesolo sarebbe stato eretto in occasione dell'attivismo di Elia che avrebbe portato alla fondazione di nuovi episcopati tricapitolini nella Venetia: 'Quartum episcopium inAequilensem civitatem (Helias egregiuspatriarcha)fieri constituit'; ma solo per 'auctoritate divina', nel Chronicon Venetum (cit., col.879): 'in qua (insula Equilus) dum populi illic manentes episcopali sede carerent, auctoritate divina novus episcopatus ibi ordinatus est'.

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rispettivi vescovi Questo è un dato importantissimo, perché così si spiega il fiorire di episcopati lagunari che continuavano ad ostentare i titoli delle civitates matrici di terraferma, quanto meno fino al 680. In quell'anno, fra i presuli della metropoli gradense che sottoscrissero a Roma la lettera sinodale di papa Agatone vi figuravano Benenato di Oderzo, Ursiniano di Padova e Paolo di Altino, trasferiti rispettivamente a Cittanova Eracliana, a Malamocco e a Torcello - oltre al patriarca Agatone di Grado, che ancora si firmava 'episcopus sanctae ecclesiae Aquile iensis provincias Istriae'. Le originarie titolazioni quindi, storicamente indubbie nell'ambito della "Venetia maritima" nel 680 si erano mantenute nelle isole per tutta la durata del contrasto in tema di religione fra le due metropoli venete, la tricapitolina Aquileia in terra longobarda e la cattolica-bizantina Nova Aquileia in Grado. I titoli furono conservati anche dopo le "traslazioni canoniche" delle sedi episcopali, assente dalle fonti venetiche alla prima metà del VII secolo. Evidentemente i profughi a Cittanova, a Torcello, a Malamocco, pur perso da decenni ogni contatto con la terraferma a causa degli eventi politici e religiosi, erano rimasti tuttavia tradizionalmente legati alle denominazioni delle loro civitates di origine (anche per motivazioni di ordine giuridico che potevano sottendere ragioni e rivendicazioni politiche).
Quanto al patriarca della Venetia et Istria della sede di Grado, questi risulta frequentemente indicato col nome della sua nuova sede di titolarità nelle fonti documentarie a partire dal VII secolo, e cioè nelle epistole papali
o imperiali (in gran parte di tradizione venetica e non scevre da

94) Giovanni Diacono ricorda che l'elezione del vescovo veniva affidata al clero diocesano e al popolo: 'In Venetia autem sex episcopatus (Helias) fieri constituit. Quorum electiones uniuscujusqueparrochkze clero et populo comittens ..' (JOANNES, Chronicon Gradense, col.948).
La stessa procedura si ricava dalla vita di S.Tiziano, vescovo opitergino di cui si dirà, secondo il suo più antico Ufficio religioso: 'Lectio V. Opitergensis autem clerus et populus, suum expectans patronum, etpostea sciens eum minime venturum, beatissimum ticianum invitum collaudabat episcopum: clamor populorumfactus est una voce dicentium: ticianus christi famulus noster sit pastor egregius' (MASCHIETTO A., 1959, S. Tiziano vescovo, Vittorio V.to, p. 17). Ancora in una lapide di Como, circa del 620, spettava al 'clerus populusque Comensis' il diritto di nominare il vescovo (vedi BOGNETTI, 1960, Continuità, p.3O8)
95) Cfr. BOGNETTI, 1960, La continuità, p.445; PASCHINI, 1975, p.l 28. Al concilio erano presenti anche i vescovi Ciriaco di Pola, Aureliano di Parenzo, Ursino di Cissa, Gaudensio di Trieste e Andrea di Celeia.

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interpolazioni), e massimamente subito dopo la chiusura definitiva dello scisma dei Tre Capitoli, sancita col sinodo di Pavia del 698 96


Diatribe sulle traslazioni.

Un movimento inverso dei titoli originari verso la terraferma, ma anche
il probabile ravvivamento di cessate sedi, si verificò invece, nel IX secolo, quando un nuovo potente blocco politico in terraferma, Carolingi e Papato, favori il ripristino della situazione pre-longobarda. Ovviamente il maggiore peso territoriale e politico della metropoli aquileiese di terraferma, con tutte le sue diocesi sufnaganee, pretendeva una riunificazione della provincia ecclesiastica entro gli antichi confini. Si impose quindi col sinodo di Mantova, dell'827, il ritorno di tutte le diocesi venete e istriane allo status quo antea, sotto l'unico magistero del metropolita di Aquileia, rientrato nella sua sede originaria. Lo scoglio della resistenza del patriarca gradense fu affrontato dal punto di vista giuridico, negando che ci fosse stata una traslazione canonica della sede metropolitica e delle diocesi lagunari con titoli di civitates della terraferma.
Le diatribe quindi per la supremazia sulla metropoli, incentrate sul "sofisma della traslazione", furono lunghe e ricche di colpi di scena (e tuttora agitano gli storici contemporanei). Ma, da questo punto di vista - è opportuno ribadire - non è stato mai abbastanza evidenziato il fatto che il concomitante trasferimento di episcopus, di parte del populus e del

96) Sul sinodo ticinense vedi FASOLI, 1965, iLongobardi, p.143 segg.
Severo nelle iussiones di Gregorio Magno del 590-91 e di Maurizio del 591, viene detto vescovo Aquileiense (CESSI, Docum., n.7, p.l4 e n.9, p.2O). Nella lettera di Gregorio I a Smaragdo del 603 si indica Severo come 'Gradensis episcopus' (CESSI, Doc., n.li, p22). Per papa Onorio I ai vescovi della Venetia et Istria, deI 628, il patriarca Primigenio viene consacrato 'nostrae sedis Gradensi ecclesiae episcopali ordine cum pallii benedictione' (CESSI, Doc., n. 13, p24). Agatone di Grado si firma Aquileiensis episcopus al concilio di Roma del 680, mentre la lettera di papa Benedetto Il, del 683-5, sempre per perAgatone viene diretta al 'Gradensis patriarcha' (CESSI, 1940, doc.n.15, p.25). Donato, nel 725, viene nominato 'Gradensis presul' da Gregorio Il, in occasione del sopruso di Pietro di Pola 'in Gradensi ecclesia' (CESSI, doc.n. 18, p.29). Gli imperatori Leone e Costantino nella iussio del 727: 'post decessum seu obitum fortunatissimi archi episcopi Gradensis' (CESSI, doc.n.20, p.31). Gregorio III al 'dilectissimo fratri Antonino, Gradensi archiepiscopo' (CESSI, doc.21, p.32 del 731). Altre citazioni facilmente riscontrabili sempre nel CESSI, 1940, Doc., cit. In territorio longobardo, il patriarca Sereno viene detto 'Foroiuliensis antistes', nella missiva di papa Gregorio Il ai vescovi delle Venezie, del 725 (CESSI, doc.n.l7, p28).

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patrimonium, e aggiungiamo anche, inizialmente senza alcun contrasto, del titulus, giustificavano non solo di fatto ma anche de iure la traslazione (o la costituzione) di sede episcopale, come si può ricavare da alcune testimonianze in fonti documentarie altomedievali 97.
La risoluzione della questione veniva tentata anche da un punto di vista politico, buttando sul piatto i rapporti di forza. Purtroppo Costantinopoli, a sostegno della sede metropolitica in Grado, era ormai lontana e pressoché impotente agli inizi del IX secolo, quando anche il Papato con altalenante opportunità politica rinnegava la secolare fedeltà e le ragioni canoniche gradensi. Ma l'opportunità di prendere le parti del patriarca di Grado fu sentito fortemente dell'emergente e vivace comunità politica nelle lagune, la Christianissima respublica con capitale Venecia.
Qui, secondo il Bognetti, almeno a partire dal IX secolo, cioè all'epoca delle più aspre contese per la supremazia tra i due patriarcati, causidici e curiali venetici sarebbero stati spinti a compulsare i testi storici e canonici per reperire precedenti e analogie che giustificassero la traslazione formale e di diritto di quei titoli episcopali 98. Il diacono Giovanni avrebbe attinto ampio materiale da quelle ricerche e, a parte evidenti manipolazioni, sembra anche innegabile che le "sue" cronache sugli eventi religiosi abbiano l'aspetto della verosimiglianza. Al riguardo appare notevole lo scrupolo storico del cronista, ed è significativa ad esempio la constatazione che, ove non trovi la documentazione di traslazioni canoniche di alcuni vescovadi, Giovanni non forzi le sue fonti e semplicemente giustifichi l'effettiva esistenza ai suoi tempi di diocesi lagunari con la generica formula 'auctoritate apostolica'; o meglio come nel caso di Jesolo 'auctoritate divina novus episcopatus ibi ordinatus est'
E qui sorge il dubbio che non ci fosse più la necessità di documentare una traslazione canonica, o meglio, che il problema fosse ormai superato sul far dell'XI secolo, cioè circa al tempo in cui Giovanni compilava le sue cronache. Infatti, sulla spinta della nuova visione politica del Veneciae

97) Vedi le controdeduzioni del messo Fausto nella contesa fra il patriarca Callisto ed il vescovo di Ceneda, avanzate nel "placito" di Liutprando del 743 (infra).
98) BOGNETTI, 1960, Continuità, p.440.
99) A Caorle la traslazione era avvenuta 'auctoritate Deusdedi papae' (aa. 615-619); ad Eracliana 'auctoritate Severiani papae' (a 640); a Torcello 'Severini papae auctoritate' (a.640); in JOANNES, Chronicon Venetum, P.L., t.139, col.878, 889. Su Jesolo, e su Malamocco 'ubi auctoritate apostolica episcopalem sedem populi habere consecuti sunt' (JOANNES, col. 879). Il Cessi (ID., 1951, cit., cap.V: La crisi ecclesiastica, pp.83 segg.), pone la fondazione dei vescovadi lagunari di Caorle, lesolo e Malamocco, solo alla metà del sec. IX.

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ducatus che intendeva far leva sulla "originaria indipendenza" 100 forse si preferiva, partendo dallo stato di fatto, considerare le fondazioni delle diocesi lagunari come originarie.
Più o meno a questo periodo è da ascrivere l'uso del doppio titolo da parte delle diocesi lagunari 101, e si stava già delineando il definitivo abbandono delle antiche titolazioni delle Chiese matrici.
Sembrerebbe riferibile appunto a questo contesto di asserzione dell'autonomia politica che venne inserita dal compilatore del Chronicon Gradense la notizia che il patriarca Elia aveva istituito ex novo i sei episcopati lagunari.


Il trafugamento di reliquie.

Le reliquie di santi erano importanti nella tradizione aquileiese ed ambrosiana per la fondazione di nuove chiese cattedrali, come documentato per Concordia ed Aquileia nel famoso sermone attribuito a S.Cromazi 102. I santi patroni poi, sulla spinta della concezione barbarica, che trasfigurava quella romana, erano diventati ben presto titolari giuridici delle diocesi e dei beni ecclesiastici, 'poiché secondo il concetto d'allora la propri età delle cose della Chiesa risiedeva nei corpi dei santi' 1O3.
Si consideri ad esempio il fatto che il re Liutprando, nel 728, restituì Sutri al papato sotto forma di donatio agli apostoli Pietro e Paolo IO4. Ma èilluminante per noi il trafugamento da Roma a Nonantola, da parte dell'abate Anselmo - supposto duca di Ceneda - delle spoglie di S.Silvestro papa, titolare della famosa donazione di Costantino, proprio quando re Astolfo, alla metà dell'VIII secolo, rivendicava il possesso della Pentapoli al regno longobardo l05.


100) CARILE-FEDALTO, 1978, p.26.
101) Vedi privilegio di papa Alessandro Il concesso, nel 1071, a 'Petro Episcopo Oppitergine
et Eracliane Civitatum Ecclesie' (in FALDON, 1988, Alle gatio, p. 163).
102) CARILE-FEDALTO, 1978, p.370 e p285. Sull'attribuzione a Cromazio, cfr.
BILLANOVICH M.P., 1988, in Recensioni, 'Archivio Veneto', CXIX, p.124.
103) GAUDENZI A., 1901, Il monastero di Nonantola, il ducato di Persiceta e la Chiesa di
Bologna, in 'Bollettino dell'Ist.Stor.It.', 22, Roma, p.94, e alla nota I, sulla Cost.15 'de
sacros', del Codex lustiniani: "Ei ti; EopeciV Kl VEtO) V T~ alCtvEtO)v 17 aVtoicivercov
~irpayj.iatov 1~ oiov8ijrwre &icatov lroifltsoiro ci; ~rpoaw~rov oiou&prote ~icrprvpo; 17
wroarotov ij ~7rpoØ1~rov r~ rwv ayuav a~2~ov, itÀ?'.
104) ANASTASII BIBLIOTHECARII, Hist.de vitis Rom. Pont., S.Gregorius 11, Migne, PL,
t. 128, 186, 5, col 981: 'donationem beatissimis apostolis Petro et Paulo antefatus emittens
Lan gobardorum rex restituit atque donavit'.
105) GAUDENZI, 1901, p.9O-97.

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Nel contesto delle controversie per il primato tra le sedi metropoliche di Aquileia e di Grado, risulta ancora significativo il resoconto fatto al sinodo mantovano dell'827, in cui la parte aquileiese riferisce si della cura del patriarca Paolo di trasportare a Grado le "cattedre" dei santi Marco e Ermagora, ma non per trasferire colà la sede o il primato provinciale della sua Chiesa bensì solo per sfuggire alla barbarie longobarda 106. Anche le cronache venetiche evidenziano che Paolo era riparato a Grado portando con sé soprattutto le reliquie del martire Ermagora 107, tradizionalmente considerato il primo vescovo di Aquileia. E se pure "a posteriori", come argomenta il Tavano, il fatto che Paolo con 'honore dignissimo' custodisse quelle reliquie, dava modo da allora al patriarca di chiamare la stessa città di Grado 'Aquilegiam novam'
Poco prima del 628, le reliquie sarebbero state però trafugate col tesoro gradense dal patriarca apostata Fortunato, e trasferite in territorio longobardo, a Cormons 109 Il suo successore cattolico in Grado, Primogenio, indirizzato da una visione secondo il diacono Giovanni, s'era però premurato di recuperare al terzo miliario da Aquileia i corpi dei santi Ermagora, Felice e Fortunato Sempre in questo frangente, e per ripristinare o rafforzare la supremazia della Chiesa patriarcale di Grado, l'imperatore Eraclio inviava, e solo allora, la cosiddetta "cattedra di S.Marco"
Il possesso di quelle reliquie era un titolo importantissimo ma non fu decisivo, e infatti, mentre al sinodo di Mantova i diritti metropolitani gradensi venivano contestati dall'allora potente patriarca di Aquileia, i Venetici provvedevano alla traslazione del corpo di S.Marco da Alessandria d'Egitto. La presenza del corpo del "primo evangelizzatore" delle Venezie preludeva

106) CESSI, 1940, Doc.,I, n.50, p85: 'Relatum igitur a nonnulli est in eadem synodo,quod eo tempore, quo Longobardi Italiam invaserant, Romanam aecclesiam vir sanctissimus Benedictus papa regebat, Aquileiensi quoque civitati eiusque populo Paulus patriarcha preerat, qui Longobardorum barbariem et immanitatem metuens, ex civitate Aquileiensi et de propria sede ad Gradus insulam, plebem suam, confugiens, omnemque thesaurum etsedes sanctorum Marci et Hermachore secum ad eandem insulam detulit, idcirco non ut sedem aut primatum aecclesiae suaequeprovintiae construeret inibi, sedadbarbarorum rabiempossit evadere'.
107) JOANNES, Chronicon Venetum, P.L., t.139, col.877: 'qui (Paulus), Longobardorum rabiem metuens, ex Aquileia ad Gradus insulam confugit, secumque beatissimi martiris Hermachorae et ceterorum sanctorum corpora quae ibi humatafuerant deportavit, et apud Gradensem castrum honore dignissimo condidit, ipsamque urbemAquilegia Novam vocavit'. 108) TAVANO 5., 1972, Il culto di S.Marco a Grado, MI, p.2O3.
109) HONORII PAPAE I, Epistolae, ep.II, P.L., t.80, col.469.
111) JOANNES, Chron. Grad. Supplementum, P.L., t. 139, col.95 1: 'Idem autemPrimogenius per visionem ammonitus, corpora beati Hermachorae et martiris atque ponttflcis et sancti Felicis et Fortunati, sita miliario tercio, in Gradensem civitatem adduxit, ibique diligenti cura deposuit'.

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alla definitiva ratifica canonica della supremazia su tutti i vescovadi comprovinciali della cattedra di Grado (o della sua erede Venezia), e così appunto avvenne 112.


La traslazione di S.Tiziano.

In questo contesto storico di contrapposizione religioso-politica entro i territori dell'antica metropoli aquileiese fra scismatici longobardi e cattolici bizantini, si inserirebbe la leggenda della miracolosa traslazione a Ceneda delle spoglie di S.Tiziano, vescovo opitergino. Di questo santo però non si conosce granché che non derivi dal suo antico Officium 113; la sua esistenza però è incontestabile, poiché la presenza e la venerazione in Ceneda delle sue reliquie è documentata fin da tempi antichissimi, e viene evidenziata in quattro atti regi ed imperiali dall'VIlI al X secolo 114. A detta poi del controverso praeceptum di Liutprando del 743, che componeva la disputa a proposito di alcune pievi fra il patriarca di Aquileia Callisto e l'episcopio cenedese, le reliquie sarebbero state trafugate attorno al 639, cioè all'epoca della conquista di Oderzo ad opera di Rotari 115.
Anche l'accanimento attorno al possesso delle spoglie di S.Tiziano, se-


111) JOANNES, Chron. Ven., cit., col.878: 'Adcujus roborem Heraclius posthaec augustus beatissimi Marci sedem, quam dudum Helena Constantini mater de Alexandria tulerat, sanctorumfultus amore direxit. Ubi et actenus veneratur pariter cum cathedra, in qua beatus martir sederat Hermachoras'.
112) CARILE-FEDALTO, 1978, p406 segg. Cfr. TAVANO 5., 1972,11 culto di S.Marco a Grado, pp.2Ol e segg. Critica storica sulle origini del Cristianesimo nella Venezie in PASCHINI, 1975, pp.33 segg.; TRAMONTIN, 1976, Origini cristiane, pp.lO2-l23, e ID., 1983, cit., p24.
113) Sulla Vita del santo e sul suo Ufficio vedi MASCHIETTO A., 1959, S. Tiziano vescovo, Vittorio V.to (la Vita dal leggendario di P.Pietro da Calò da Chioggia viene qui trascritta in Appendice). La più recente critica storica sul santo in TRAMONTIN 5., 1986, ISanti Patroni, in AA.VV., Il Cristianesimo tra Piave e Livenza, Quad.7, Vittorio V.to, pp.9-23.
114) Oltre che nel placito di Liutprando del 743 (CESSI, Docum., n.27, pp.41 -44, tradotto qui in Appendice), la citazione della presenza del corpo del santo in Ceneda si ritrova nell'arenga dell'atto carolingio del 793 (794): 'circa ecclesiam Sancti Titiani Confessoris Christi, que est constructa sub oppido Cenetensium castro, ubi ipsemet pretiosus Sanctus corpore requiescit' (VERCI, I, 1, p1; cfr.infra). Ancora nel doc. del 5 AUG., 908 (0906), Berengario concede al vescovo Ricpaldo di Ceneda il porto di Settimo e la selva di Gaio e Girano: '(...) ob precationem Bersilie dilecte conjugis et consortis Regni nostri, concedimus Sancte Cenetensi Ecclesie, ubi corpus sancti Titiani Confessoris humatum quiescit, (...)' (VERCI, I, 2, p.2; cfr. LOTTI, doc.IV;). Quasi con uguali parole anche nella carta originale del 962, di Ottone I per il vescovo cenedese Sicardo (in VERCI, I, doc.5, p.7); qui APPENDICE.
115) CESSI, Docum., n.27, pp.41-44.

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condo la leggenda, fa ritenere che proprio al santo si attribuissero i diritti giuridici sul titolo e sul territorio della diocesi opitergina, o che ne fosse stato il primo vescovo.
Il corpo del santo - interpretando dalla Vita raccontata nel suo antico Officio - veniva trasportato verso Cittanova Eracliana, dopo la distruzione di Oderzo del 639, per sancire il trasferimento e la consacrazione della nuova cattedrale nella sede arretrata del governo provinciale bizantino, ma la ferma opposizione degli Opitergini dava spazio ad un intervento longobardo che risolveva la crisi dirottando le reliquie verso Ceneda I 16.
I Cenedesi (tricapitolini) avrebbero colto l'occasione della conquista di Oderzo per traslare l'episcopato di diritto in terra longobarda. E proprio in questi termini viene sottolineato nel precetto liutprandino del 743 per la Chiesa di Ceneda.
In questo documento, peraltro spurio comunque antichissimo e illuminante, il patriarca Callisto affermava che il vescovo cenedese pro tempore, Valentiniano, doveva essere privato della diocesi già opitergina, perché il titolare di Oderzo viveva ancora nelle isole della laguna 'in quadam insula latitans vivus erat'; Callisto aggiungeva poi che la diocesi in questione era stata oltretutto concessa alla giurisdizione aquileiese dopo la distruzione della città da parte di Rotari: 'Opitergio destructo, Rothari rex ipsam parrochiam nostrae ecclesiae (Aquileiensi) concessit'.
Intendesse o meno il patriarca rivendicare oltre ai diritti metropolitici anche la giurisdizione diretta sui territori sulla diocesi ex-opitergina, ad ogni modo Fausto, il messo del duca cenedese Aginualdo, bloccava le velleità patriarcali replicando:
'non è così come asserisci, ma, distrutto Oderzo (quindi sempre ai tempi di Rotari) i Cenedesi ottennero il corpo di S. Tiziano, e con decoro qui lo
seppellirono, eper questa ragione a buon diritto la sede della santa Chiesa Opitergina risulta qui trasferita'

116) Il ratto delle reliquie secondo il Maschietto (cit., p.89) ed il Bellis (ID., 1978, p.l8l), sarebbe avvenuto attorno al 650. L'episodio sembra meno probabile se riferito alla seconda presa di Oderzo del 669 ad opera di Grimoaldo, al quale sarebbe mancata la motivazione religiosa.
117) Le obiezioni di Callisto: 'Quoniam episcopus Opitergine civitatis, sede destructa, in quadam insula latitans vivus erat, quando tu presulatus honorem sumpsisti'; 'Parrochia ista, quam nunc queris, ad Forumiulii pertinere debet, quia, Opitergio destructo, Rothari rex ipsam parrochiam nostrae ecclesiae concessit'.
La replica di Fausto: 'Cui e contra Faustus, missus Aginualdi ducis, ita respondebat: "non est ita, ut asseris, sed, Opitergio destructo, Cenitenses corpus sancti Ticiani habuerunt, et illud honorifice ibi sepelierunt, et ob hoc ibi sedes sanctae Opitergine ecclesiae merito mutata est' (CESSI, 1940, Documenti, doc.n.27, pp.4l segg.). Il "placito" di Liutprando ha fondamenti storici secondo il Cessi, mentre viene viene osteggiato dal Paschini.

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Qualche secolo dopo, pure i Trevigiani, che trafugarono il corpo del nostro Santo, durante la tragica occupazione di Ceneda del 1199, intendevano probabilmente assorbirne de iure la diocesi, ma papa Innocenzo III respinse il loro tentativo imponendo l'immediata restituzione delle reliquie11


Ancora sulle traslazioni canoniche.

Tornando al VII secolo, nel contesto appunto delle controversie politico-religiose fra le due metropoli aquileiesi, l'occupazione di Oderzo forniva l'occasione per la traslazione a Ceneda del santo patrono opitergino e della diocesi. Dal punto di vista politico la costituzione in terra longobarda di un vescovado erede di quello opitergino assumeva un grande valore strategico-propagandistico anche per il regnum longobardo. Non dimentichiamo che Opitergium era stata il capoluogo della Venetia bizantina, e la presa della città veniva completata con il tentativo di annichilimento della civitas. Se i Bizantini in tutta fretta avevano rimediato riorganizzando a Cittanova Eracliana oltre alla nuova sede del governo lagunare anche il vescovado, i Longobardi dal canto loro avevano ottenuto le spoglie di S.Tiziano (e di diritto la diocesi): potevano da ciò avere il pretesto per accampare pretese e farsi promotori in prosieguo di rivendicazioni anche sui superstiti territori della provincia.

Lo scisma tricapitolino aveva da tempo superato l'ambito strettamente religioso ed i confini provinciali della Venetia, trovando supporto nella politica "nazionalista" del regno longobardo. E già si è visto un tale coinvolgimento ai tempi di Agilulfo e poi di Arioaldo, con i vescovi tricapitolini 'in transpadanis partibus' schierati politicamente e attivamente dalla sua parte. Quindi un concreto sostegno da parte di Rotari ad una


118) Il 27 Marzo del 1200, papa Innocenzo III invia un breve minatorio ai Trevigiani (Cfr. FASSETTA C., Storia popolare di Ceneda, Vitt.Ven., 1917, p.l 12.):
'Potestati et Populo Tarvisii sine salutatione. (...) Et cum Feltrensem, Bellunensem ac Cenetensem diocaesesfere penitus vastasseris: (...). Vos autem ex hoc deteriore effecti, et in Ecclesiam resurgentes Episcopatum Bellunensem et Cenetensem manu intrastis armata et multipliciter afflixistis. (...). Nuper etiam cum Vicentinis et Veronensibus coniurantes et cum multo exercitu irruentes in diocesim Cenetensem (licet servare firmam Tre guam eidem Episcopo iurassetis) Ecclesiam tam matricem, quam alias diruistis, sanctorum reliquias asportantes; (...). (...) universitati vestraeperApostolica scripta mandamus, et sub obtestatione divini iudicij districte praecipimus, Quatenus super praedictis omnibus Deo et Ecclesiae Romanae, quam principaliter offendistis, satisfacere procuretis, ablata omnia restituentes Ecclesijs antedictis' (in PILONI, Historia, III, p.179).

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politica religiosa in favore degli scismatici continuava una proficua linea di condotta.
Se nella seconda metà del VI secolo l'attivismo del patriarca Elia, quanto alla supposta (ma verosimile) creazione di nuove diocesi, aveva solo motivazioni religiose (e di prestigio per il nuovo patriarcato), nella prima metà del VII, l'iniziativa combinata tra politica e religione, con l'occasione di nuovi acquisti territoriali, aveva ripreso a favorire nella Venezia longobarda, e ove possibile, la creazione di altre ecclesiae concorrenziali:
quella di Ceneda, o l'aggregazione del titolo di Padova alla diocesi di Treviso (ed il suo territorio diocesano venne però spartito tra Vicenza e Treviso), per non dire della ben più appariscente ricostituzione del patriarcato in Aquileia Vetere (prima a Cormons e poi a Cividale). Per altro verso, nei territori lagunari dell'impero, in fase di forte ritirata, la resistenza cattolica all'eresia 'non ferens Lan gobardorum insaniam' (e la difesa degli antichi diritti sulle aree di terraferma) si manifestava col trasferimento canonico, cioè con l'avallo dei papi, dei titoli episcopali nelle isole, riferito dalle fonti venetiche proprio a quegli anni 119.
In effetti è del tutto ovvio, come tramanda il diacono Giovanni, che queste traslazioni nei territori dell'impero ricevessero la definitiva approvazione del papato, juxta legem ecclesiasticam. Tantopiù che dopo la fuga in territorio tricapitolino del patriarca Fortunato con tutto il tesoro e con le reliquie di Grado, nel 628, il papa Onorio I impose il suo diretto controllo sui vescovadi della provincia lagunare, inviando Primogenio come metropolita, un esponente della sede romana 120. Anche l'impero si inseriva in queste contese politico-religiose, e l'imperatore Eraclio, attorno al 630, per rafforzare la continuità e il primato di quella Chiesa, ma pure per appoggiare le rivendicazioni della metropoli lagunare, si affrettava ad inviare


119) Secondo le fonti, i presuli di Padova, Oderzo, Altino e Concordia erano rimasti in sede almeno fino alla chiusura del VI secolo. Nei primi decenni del secolo successivo si attuò una graduale traslazione nelle lagune, rispettivamente a Malamocco, Cittanova e Torcello; quello di Concordia si insediava a Caorle (forse provvisoriamente perTRAMONTIN, 1983, Origini, p30). Secondo quanto riferisce Giovanni Diacono a Malamocco la traslazione era avvenuta 'auctoritate apostolica' (primo decennio del VI sec. ?); ad Eracliana 'auctoritate Severiani papae' (fine anni '30); a Torcello 'Severini papae auctoritate' (sempre fine anni '30); a Caorle 'auctoritate Deusdedi papae'; (secondo decennio del VI d.C.). A Jesolo la costituzione di (nuova?) diocesi era avvenuta 'auctoritate divina' (JOANNES, Chronicon Venetum, cit., col.878, 879, 889). Sulla problematica cfr. anche BOGNETTI, Continuità, pp.44 1-453. 120) HONORII PAPAE I, Epistolae, ep.II, P.L., t.80, col.469: 'Primogenium itaque subdiaconum et regionariom nostrae sedis Gradensi Ecclesiae episcopali ordine cum pallii benedictione direximus consecrandum. Oportebit ergo fraternitatem vestram juxta legem ecclesiasticam cuncta disponere, capitique vestro sinceram obedientiam exibere'.

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a Grado, e solo allora, la massima reliquia a cui una chiesa veneta potesse mai aspirare, cioè la cosiddetta cattedra di S.Marco 121
La parte aquileiese messa in difficoltà, reagì come si sa tentando di accreditare la versione, al sinodo di Mantova (827), che la cattedra di S.Marco, con quella di S.Ermagora, fossero state traslate da Aquileia a Grado dal patriarca Paolo I22. Venetici replicarono e si misero al sicuro, trasportando da Alessandria il corpo di S.Marco.


La duplicazione dei vescovadi.

Alla metà del VII secolo la situazione delle diocesi binate doveva essere ormai consolidata e una tale considerazione deriverebbe dalla strana notizia, riferita da Paolo Diacono, che ai tempi di Rotari in quasi tutte le civitates del regno ci fossero due vescovi, uno cattolico e l'altro "armano" 123 Se in realtà di vescovi ariani ce n'erano ben pochi, e sono documentati i casi di Pavia e di Spoleto 124 si azzarda l'ipotesi che nel passo del Diacono i "vescovi ariani" andrebbero piuttosto intesi come "scismatici".
Effettivamente, ai tempi di Rotari, ormai a settant'anni dall 'ingresso dei Longobardi in Italia, come dato cronologico orientativo, la vicinanza con i Latini e il favore di Teodolinda dei primi tempi per le azioni missionarie aquileiesi, dovevano aver influenzato eventualmente in senso "tricapitolino" il cristianesimo longobardo. Già ai tempi di Agilulfo, la lettera di S.Colombano al papa evidenziava che all'interno del regnum la controversia religiosa si poneva sostanzialmente tra cattolici e tricapitolini circa le divergenze sui deliberati del concilio di Costantinopoli. Dalla lettera si ricava anche che il problema arianesimo, pur esistente, era solo marginale ed eventualmente facilmente componibile a livello istituzionale 125. Aggiungiamo che ai tempi di Paolo Diacono, che scrive nell'VIlI secolo, si era sicuramente perduta la percezione dei connotati originari del contrasto dottrinario nelle Venezie, tanto che lo stesso Paolo fa una grossa confusione nell'inquadrare i tricapitolini e gli ortodossi a proposito dello "scisma di


121) CARILE, 1978, p.33l. GIOVANNI DIAC., Chronicon Venetum, cit., col.878.
122) CESSI, Doc.,50, p.85.
123) P.D., IV,42.
124) Vedi BOGNETTI, 1960, Rinascita, p21; per Spoleto (GREG.MAGN., Dial., III, 29).
125) Cfr. BERTOLINI O, 1958, Riflessi, pp.749-752 Dalla lettera del re visigoto Sisebuto
ad Adaloaldo si evidenzia che il popo1o longobardo era ancora in gran parte ariano o pagano
(BOGNETTI, Rinascita, pp.2O-2l; FASOLI, Longobardi, p99). E' comunque dubbio il
significato che sia Colombano che Sisebuto attribuivano al termine "ariano".

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Severo" 126. Del resto anche negli atti del sinodo di Mantova dell'827, il cattolicissimo patriarca di Grado Candidiano veniva considerato addirittura come 'haereticus'! 127
Venendo ai vescovi cosiddetti ariani, a causa della generale "rerum Italicarum confusio", si ipotizza che anche in questo caso Paolo, sulla suggestione delle sue fonti erronee, abbia frainteso e identificato come eretici e cioè ariani, per la loro spiccata connotazione nazionalista e anticattolica, i presuli della Venezia longobarda dei tempi di Rotari. Faceva però nel contempo un realistico riferimento all 'anomala situazione della duplicazione dei titoli patriarcali e episcopali che ai suoi tempi ancora si contrapponevano fra le civitates dell'Austria longobarda e della Secunda Venetia imperiale: Aquileia e Grado, Concordia e Caorle, Ceneda e Cittanova Eracliana (Oderzo), Altino e Torcello, Treviso e Malamocco (Padova).

Riepilogando, sulla base della traslazione del nostro Patrono, da scame e controverse informazioni dalle fonti documentarie, quale il "placito" del 743, da concreti indizi di ordine giuridico e da illuminanti coincidenze dal punto di vista storico, sembra si possa far risalire la costituzione della diocesi cenedese a poco dopo l'occupazione di Oderzo da parte di Rotari, cioè verso la metà del VII secolo. Ovviamente l'iniziativa longobarda aveva avuto il pieno appoggio dal patriarca di Aquileia Giovanni (Il?) che, a detta dell'apocrifo precetto liutprandino, avrebbe consacrato il primo vescovo a Ceneda 128 Anche il coinvolgimento del sunnominato patriarca, pur tra altre evidenti contraddizioni cronologiche nel documento, in buona sostanza farebbe ascendere la costituzione della diocesi cenedese alla metà del VII secolo; e il Tramontin difatti anticiperebbe anche al patriarca Giovanni
Il la fondazione della nostra diocesi. E, valutato bene lo stato delle fonti, non sembra improbabile un tale inquadramento storico e cronologico, del-

126) PD., III, 26. Vedi al riguardo BARTOLINI E., IBarbari, nota 47, p.212. Nemmeno ai tempi di Giovanni Diacono, che nel Chronicon Venetum ricopia tale e quale (con qualche imprecisione) da Paolo, si avevano migliori cognizioni sullo scisma nelle Venetiae (cfr. Joannes, Chron.ven., P.L., t.l39, coll.883-884).
127) CESSI, Docum., n.50, p.85: 'in Gradus quoque ordinatus est haereticus Candidianus antistes'.
128) L'ordinazione di Valentiniano: 'Nos vero canonicae auctoritatis reminiscentes, quia, ubiplebs crescit, episcopum ordinandi licentia est, adhortavimus eum utaccederetadpatrem nostrum bone memorie Iohanem scilicetpatriarcham, ut de hac causa juxta sacros canones ordinaretur. Qui, dum insimul inde collocutiones habuissent, in jamdicto Cenetense castro episcopum, Valentinianum nomine, consecravit patriarcha' (CESSI, 1940, Documenti, doc.n.27, pp.42).

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l'origine del vescovado cenedese 129.
Se dunque il racconto miracoloso della traslazione di S.Tiziano nasconde un fondo di verità storica, quando le reliquie venivano portate a Ceneda, la loro deposizione presso la chiesa dedicata a S.Maria, 'iuxta basilicam Beate Marie', ci informa della preesistenza in loco di un notevole edificio per il culto 130. Ne abbiamo conferma dai frammenti in pietra di plutei, di pilastrini e di pochi altri arredi liturgici paleocristiani, raccolti nell'area della attuale cattedrale cenedese e risalenti al VI secolo. Essi testimoniano che al tempo della traslazione del corpo del Santo, diciamo attorno al 639, almeno da un secolo una prestigiosa chiesa paleocristiana esisteva in Ceneda 131.


129) TRAMONTIN 5., 1983, Origini, p35. Questi ipotizza un inizio probabile della diocesi anche al 680-685, con il patriarca Giovanni III. Sulla fondazione circa alla seconda metà del VII secolo, dopo la distruzione di Oderzo da parte di Grimoaldo (attorno al 669), vedi anche il PASCHINI P., 1946, L'origine della Chiesa di Ceneda.
Sequenza di metropoliti aquileiesi successivi alla duplicazione del patriarcato, alla morte Severo del 606: Giovanni I (eletto in Aquileia: PD, IV, 33; scrisse nel 607 una petizione a re Agilulfo); Fortunato (transfuga in territorio longobardo: cit. nella lettera del 628 di papa Onorio I); Felice (?); Giovanni Il (metà VII sec.?: cit. nel "placito" Liutprandino); Pietro (aa. 687?- circa 711 0715; fin dai tempi della chiusura dello scisma tricapitolino?. Cit. in PD., VI, 33: muore al tempo del decesso dell'imp. Giustiniano lI Rinotmeto, del 711); Sereno (aa. 711 0715-730; riceve il pallio da Gregorio Il, nel 715, e una lettera di biasimo nel 723. Cit. in PD, VI, 33 e 45); Callisto (aa.730-756?; riceve nel 734 una lettera da Gregorio III; èricordato nel "placito" di Liutprando, a.743. P.D., VI, 45 e 51). Cfr. PASCHINI, 1975, p.l 28-
31.
Alcuni inseriscono tra Pietro e Sereno un controverso Giovanni IV, che sarebbe appunto quello citato nel placito liutprandino (BOTTEON V., 1907, Un documento prezioso riguardo alle origini del vescovado di Ceneda, pp. 100-102).
La fondazione diocesana risalirebbe ai tempi di Liutprando per BOTTEON V., 1907, Un documento prezioso riguardo alle origini del vescovado di Ceneda, pp. 100-102: CESSI, 1951, cit., cap.V: La crisi ecclesiastica, p.74; e CANELLA G., Ricerche su Ceneda nell 'alto medio evo (sec.VI-IX), tesi di laurea, rei. G.C.Mor, a.a.l970-71, PD. Pure CUSCITO G., 1983, Testimonianze archeologiche, p.98-99. Il Paschini però avverte che se l'istituzione della diocesi cenedese fosse avvenuta sotto Liutprando se ne avrebbe più sicura notizia. 130) MASCHIETTO A., 1959, S.Tiziano vescovo, Vittorio V.to, p22.
131) Vedi TAGLIAFERRI A., 1982, Testimonianze di scultura altomedievale nel Museo del Cenedese, in 'Forum lulii', VI, UD, pp.99-I06. Due frammenti di lastre con croci vengono datate tra la fine del Vegli inizi del VI secolo, cit., p.101, fig.l,2.
GABERSCEK C., 1984, Recenti studi e ricerche sulla scultura altomedioevale nell 'Italia nord-orientale, in 'Forum lulii', VIII, UD, pp.43-57.
Durante i lavori di rifacimento della cattedrale nel XVIII secolo, nella cripta era venuto alla luce un pavimento in marmo bianco, 'ex marmore albicante', sovrapposto ad uno più profondo in mosaico, 'ex quadratis lapillis marmoreis' Cfr. LOTTI, Series, paragr. III; e FASSETTA, 1917, Storia popolare di Ceneda, Vitt. Ven., p. 47.

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La fine dello scisma aquileiese.

Sotto Perctarito, il duca di Trento Alachis del fronte anti-cattolico, forse "tricapitolino", si ribellò al re e attaccò gli insediamenti baiuvari di Bolzano. Dopo varie vicende, Alachis venne perdonato per intercessione di Cuniberto, suo antico amico a corte, e incaricato di malavoglia nel ducato di Brescia.
Alla morte di Perctarito, Alachis si rivoltò anche contro Cuniberto (cattolico) e occupò la capitale Pavia con l'aiuto dei longobardi di Brescia e di molti altri, usurpando il regno 132. Poi, tradito dai suoi stessi fideles e costretto a fuggire, si rifugiò nell'Austria longobarda dove si riorganizzò assicurandosi la fedeltà o l'obsequium di varie città con le lusinghe o con la forza: così il ribelle occupò Vicenza, che costrinse all'alleanza, quindi Treviso e le altre città, tra cui Ceneda, ed è noto l'episodio di Alachis che costringe all'obbedienza i Forogiuliani al ponte di Cavolano 133.
Nella definitiva battaglia di Coronate, Cuniberto sbaragliò Alachis e gli oppositori dell'Austria longobarda; con quella vittoria l'elemento cattolico si impose definitivamente sui dissidenti che ancora insistevano nella fede dei Tre Capitoli.
Di quella fine secolo Paolo Diacono racconta di un sinodo tricapitolino che si sarebbe tenuto ad Aquileia e nel quale gli intervenuti erano ancora restii ad accettare i canoni del quinto concilio ecumenico di Costantinopoli. Le esortazioni salutari di papa Sergio I avrebbero quindi portato gli scismatici alla comunione con Roma.
A detta del Carmen de synodo ticinensi il merito della riconciliazione sarebbe da attribuire a re Cuniberto, che radunò scismatici e ortodossi a Pavia nel palazzo regio. Nel sinodo Ticinese i vescovi discussero ampiamente ed alla fine gli Aquileiesi presentarono un'interpretazione dei canoni del concilio di Costantinopoli che si dichiaravano disposti ad accettare se anche i cattolici giuravano di sottoscrivere; e in questi termini chiesero la garanzia del re. Il compromesso fu accettato e insieme scismatici ed ortodossi entrarono nella chiesa di S.Michele, dove fu giurata la concordia. Su questa composizione fu però richiesta da Cuniberto l'approvazione papale e vennero inviate a Roma le legazioni di vescovi e giurisperiti delle due parti. Al sinodo di Roma fu presentata la carta dell'unione, che venne approvata dal papa, e lo scisma, circa nel 698, venne definitivamente chiuso 134

132) PD., V, 36eV, 38.
133) PD., V, 39.
134) PD., VI, 14. Vedi anche vari commenti sul sinodo di Aquileia in BARTOLINI E., 1982,
I Barbari, nota 15, p.1231.
Sul sinodo ticinese BERTOLINI 0., 1958, Riflessi, p.'786. FASOLI, 1965, p. 143. PASCHINI,
1975, pp.l 28-129, e nota 30. Testi e regesto del Carmen in Fasoli e Paschini, citt. (da M.G.H.,
Script. rer. Lang. et Ital., p190).


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